Logico che dopo la grande retrospettiva dedicata dalla Triennale di Milano a Warhol (e ai suoi discepoli Keith Haring e Jean-Michel Basquiat), tutte curate da Gianni Mercurio, sia giunto il tempo di mettere Roy Lichtenstein sotto la lente d’ingrandimento e capire se è veramente destinato al ruolo di eterno secondo oppure se si tratta di un pittore da Olimpo assoluto. Di rivoluzione si parlava, già alla fine degli anni ’50, messa in pratica da una generazione di giovani artisti che voleva farla finita con l’insopportabile enfasi dell’Espressionismo Astratto, con l’atteggiamento da guru di Jackson Pollock e dei suoi amici, tormentati dal genio malato della pittura che li spingeva verso l’autodistruzione, per bottiglia o incidente stradale. Bastava guardare le luci di New York, lo splendore delle merci, l’invasione della pubblicità, le icone del mercato e l’ansia di comunicazione, per capire che un mondo si era definitivamente chiuso e toccava voltare pagina....
Per oltre venticinque anni, dalle prime collaborazioni con la Galleria Leo Castelli nel 1961 a New York fino al 1987, quando scompare Andy Warhol, lo stesso Warhol e Roy Lichtenstein si disputano la palma dell’esponente pop americano per eccellenza. Se parliamo di artista a 360 gradi, Andy non ha rivali, poiché entrano in gioco le sue molteplici attività, nel cinema, nella musica, nell'editoria oltre al ruolo sociale. Ma se consideriamo solamente la pittura, allora è probabile che l’autentica rivoluzione sia stata proprio quella di Lichtenstein. Della Pop Art a stelle e strisce Lichtenstein è stato il teorico più lucido.