Nonostante la tua giovane età, sei già Redattore di «Antarès», una interessantissima rivista di critica letteraria molto apprezzata, edita da Bietti Edizioni. Questa di «Antarès» non è la tua prima esperienza in qualità di Redattore, vero?
Dici bene. Prima del progetto citato mi ero già interessato al mondo della scrittura e dell’editoria grazie a un’importante collaborazione svolta per «Luuk Magazine», magazine online dedicato principalmente al mondo della moda e del lifestyle. All’interno della testata, grazie alla fiducia accordatami dal Direttore editoriale Luca Micheletto, ho svolto la funzione di Redattore della rubrica artistica, dedicata all’arte internazionale e alle grandi mostre, ma anche, in parallelo, all’analisi di tendenze estetiche emergenti e all’approfondimento di poetiche e progettualità “eccentriche”. Successivamente ho assunto anche il ruolo di Caporedattore della sezione culturale del magazine, svolgendo attività di programmazione editoriale, coordinamento del team di collaboratori delle diverse rubriche (Fotografia, Cinema, Letteratura) ed editing. Durata sino all’estate del 2014, questa bella esperienza mi ha permesso di interfacciarmi direttamente con il mondo della comunicazione 2.0, stringere importanti legami professionali e amicali e, soprattutto, scrivere. Svolgere cioè quella pratica che è pura passione e che Kafka ha celebrato con una splendida immagine, a me molto cara: «Ma ciononostante io scriverò, necessariamente, è la mia battaglia per la conservazione del mio sé» («Aber schreiben werde ich trotz alledem, unbedingt, es ist mein Kampf um die Selbsterhaltung»).
«Antarès», nata nel 2010 all’interno dell’Università degli Studi di Milano per iniziativa di alcuni studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia, è definita essere una rivista di “Antimodernismo e letteratura della crisi”. Ci vuoi spiegare meglio questa definizione?
I due concetti proposti – quello di antimodernismo e di letteratura della crisi – sono i nodi pulsanti del nostro progetto editoriale. Ne sono il cuore, oserei dire, pensando al manas della tradizione vedica, lo spirito che il pensiero indoeuropeo localizzava nel cuore. Attorno a queste due polarità, infatti, si riuniscono tanto i temi trattati in «Antarès», quanto i membri della Redazione, nonché i collaboratori che di numero in numero si sono generosamente avvicendati sulle pagine della rivista, rispondendo alle pro-vocazioni che dalle questioni e dagli autori studiati promanano. Antimodernismo in quanto postura di reazione, esistenziale e teoretica, alle degenerazioni del progressismo e del modernismo, i capisaldi del pensiero unico sui cui si regge quella modernità la cui bancarotta è sotto gli occhi di tutti. Modernità da cui, tuttavia, non si può fuoriuscire integralmente, poiché è la dimensione storica nella quale, per usare un’espressione heideggeriana, siamo gettati. Un antimodernismo avvertito è dunque quello capace di farsi carico della modernità – di questo regno liquido della quantità – e di costituire degli spazi di libertà al suo interno. Delle oasi – qui Jünger ci aiuta – in cui l’originario possa tornare a rispendere, nell’esperienza del singolo come in quella della comunità, piccola o grande che sia. Noi proviamo a corrispondere a questa visione del mondo – Weltanschauung, direbbero i tedeschi – in ambito culturale e editoriale, proponendo riflessioni su temi legati alla critica dei dogmi del modernismo e su personaggi che ineriscono a questo dibattuto. Figure che a vari livelli hanno discusso apertamente delle tematiche in questione, o la cui produzione artistica ci suggerisce spunti di riflessione sui quali lavorare, con le armi dell’esegesi e dell’ermeneutica. Ecco qui la connessione con la letteratura della crisi, che nella sua aura chiaroscurale di decadenza e rinascita offre il migliore scenario narrativo, ma anche filosofico, storico e metodologico, con cui leggere la nostra contemporaneità.
Il numero 10 della Rivista è dedicato a Walt Disney, che riuscì a far sognare gli uomini del Novecento “immersi nel fango di una realtà sempre più disumanizzante” (per citare le parole riportate in questo bellissimo numero). Mi ha molto colpita la sua frase: “Credo che dopo la tempesta venga l’arcobaleno: che la tempesta sia il prezzo dell’arcobaleno. La gente ha bisogno dell’arcobaleno e ne ho bisogno anch’io, e perciò glielo do”. Parlaci di questo affascinante aspetto della sua genialità creativa.
La bellissima frase da te citata è un’ottima lente interpretativa tramite cui guardare alla figura di Walt Disney. Non alla Disney genericamente intesa, coi suoi fasti e le sue miserie, ma alla persona del suo fondatore. Un altro grande dimenticato, talora misconosciuto, che ha messo la propria creatività al servizio della Settima Arte per creare miti e favole adatte alle esigenze dell’uomo moderno. Trasportare i Grimm sul grande schermo? Creare un retroterra fantastico e immaginifico per un Paese, come gli Stati Uniti, edificato su miti fondatori integralmente laici? È in questa titanica impresa che Disney si è imbarcato, generando un’arte rigorosamente non impegnata – in termini socio-politici – e, proprio questo, intrinsecamente impegnata – sotto un profilo estetico e metapolitico. L’arcobaleno che Disney ci ha dato è fatto di forme, simboli e archetipi della nostra immaginazione, capaci di suscitare ancora oggi meraviglia. Quell’emozione che, Platone docet, è la scaturigine prima di ogni autentico filosofare.
In una interessantissima intervista ad Andrea Scarabelli, direttore editoriale della rivista, emerge il vostro obiettivo coraggioso ed ambizioso, ossia quello di proporre autori banditi dalle aule universitarie e dalle oligarchie accademiche; non è così?
Questa esigenza di un recupero di un sapere “altro”, terribilmente affascinante ed esistenzialmente coinvolgente ma – forse proprio per questo – bandito dalla cultura ufficiale, dai “salotti buoni” e dalle accademie, è uno degli scopi primari di «Antarès». Non si tratta di una semplice ambizione anticonformista, ché pure dell’anticonformismo si stanno creando scuole, alquanto irritanti talvolta, in ogni caso inconsapevolmente funzionali al sistema in cui sorgono. È piuttosto un richiamo all’inattualità di cui parla Nietzsche e, nel contempo, il frutto di un’esperienza autentica: quella della disillusione di fronte all’inutilità esistenziale di un certo retorico paradigma culturale e la scoperta di porti franchi, purtroppo spesso obliati, che meritano di essere scoperti. Vorrei inoltre aggiungere che, almeno dal mio punto di vista, quello su cui bisogna riflettere e discutere, ancor prima degli autori e dei temi specifici da trattare o meno, è la metodologia impiegata nel farlo. L’approccio alle domande abissali che ci coinvolgono e alla cultura che ne è la cornice storica, insomma. L’emergere negli articoli di «Antarès» di riferimenti alle tradizioni spirituali ed esoteriche, l’impiego di strumenti di tipo simbolico, comparativistico ed ermeneutico, lo studio esistenzialmente implicante – ché etimologicamente studium è “passione”, non “nozionismo” – sono il miglior kathékon, il più efficace ostacolo, se si vuole impiegare una terminologia meno apocalittica, nei confronti dell’Idra modernista e delle sue molte teste. Di cui la filosofia analitica è oggigiorno una fra le più pericolose.
“Antimodernismo” quindi indica il rifiuto del culto di una modernità il cui naufragio è sempre più sotto gli occhi di tutti, come ha affermato Andrea Scarabelli. Antimodernismo, conservatorismo e progressismo sarebbero quindi i fondamenti del manifesto ideale di «Antarès». È in quest’ottica che avete contemplato personaggi del calibro di Cioran, Jünger, Eliade, Lovecraft, Tolkien?
L’antimodernismo, come già rilevato, è la nostra prospettiva guida, la metodologia con cui guardare agli autori da te citati e, nel contempo, lo sguardo più intimo da noi ravvisato nella loro produzione, pur nelle rispettive specificità. Non lo sono invece conservatorismo e progressismo. La spietatezza degli aforismi di Cioran, rumeno apolide in esilio in Francia (e nella propria interiorità); le liriche irradiazioni della prosa di Jünger, che si fa scultura di sangue e marmo sulla soglia dell’Indicibile; la profondità ermeneutica dell’approccio eliadiano al sacro e alla sua dialettica ierofanica, che si rivela persino nello squallore della modernità; l’orrore cosmico di Lovercraft, il “solitario di Providence”; la mitopoiesi di Tolkien, che nella Terra di Mezzo esprime a livello narrativo il mundus imaginalis archetipico: sono tutti frammenti eccentrici rispetto alle nozioni di conservatorismo e progressismo. In quanto queste due facce della stessa medaglia, la modernità appunto, rispettivamente reificano la tradizione in una sterile tutela di un passato ormai spento e ne proclamano l’incalzante e artificiosa accelerazione. Alla conservazione e al progresso prediligiamo scelte di crisi, rottura e paradosso: la tedesca Rivoluzione Conservatrice ne ha dato un esempio mirabile all’inizio del Secolo Breve. Sulla linea fra Avanguardia e Tradizione, soglia del metamorfico e processuale manifestarsi dell’Origine nell’identità della trans-formazione dei tipi.
So che è uscito un nuovo numero interamente dedicato a Bukowski, è esatto?
Esattamente. Il numero 11 di «Antarès». E’ stato presentato in occasione di Book City a Milano, lo scorso 18 Novembre, negli spazi de La Triennale. Cosa ci fa Bukowski, “il vecchio sporcaccione”, nel pantheon di autori a noi cari – qualcuno si potrebbe domandare? Per capirlo… invito tutti a leggere il numero, scaricabile dal sito di Edizioni Bietti e disponibile, altrettanto gratuitamente, in cartaceo presso le nostre librerie fiduciarie. Qualche spunto di riflessione lo posso tuttavia già indicare. Bukowski, nei suoi moltissimi aspetti contraddittori e grotteschi, indubbiamente moderni, è stato il cantore di un’America altra rispetto a quella dell’American dream. All’utopia laicizzata che colloca l’età dell’oro nelle metropoli americane, con protagonista il self made man che grazie alle magnifiche sorti e progressive, alla tecnica e al liberismo “democratico” made in U.S.A. può realizzarsi nella sua placida vita borghese, Hank opponeva il mondo della strada, quello dell’America vissuta e sofferta, dove i diritti umani contano meno di una birra e di una scopata, per usare il suo lessico diretto e rude. Di questo mondo Bukowski diede una vivida testimonianza letteraria, sempre anticonformista, ostile alle ipocrisie del politicamente corretto; contro la beat generation, contro i pacifisti e le femministe, contro gli accademici, contro le ideologie e le loro retoriche, quest’ultimo impolitico Anarca ha lasciato un segno importante nella cultura del Novecento. Un segno che abbiamo provato a indagare ricercando le origini culturali ed esistenziali della sua poetica, al di là dell’utilizzo riduttivo e commerciale che del brand Bukowski è stato fatto – quello degli aforismi e delle pose dannate, tutte imbevute di alcol e sesso, che stravince sul web, per capirci.
Oltre a svolgere questa affascinante attività editoriale, sei anche un attivista del movimento del Metateismo fondato dall’artista milanese Davide Foschi. Quali sono gli aspetti di questa avanguardia artistica che ti senti di condividere maggiormente?
Di questo movimento culturale apprezzo gli spunti teorici ed estetici antimodernisti e, insieme, l’acuta capacità di veicolare tali contenuti mediante metodi e forme comunicative moderne e semplici, adeguate a innestarsi nella cultura pop contemporanea. Diversamente dai guru di certe conventicole – siano esse artistiche o esoteriche –, Foschi ha compreso la necessità di aprirsi in modo proteiforme alla società in cui viviamo, senza tuttavia svendere i principi essenziali a cui riferirsi, bensì espandendone la dinamicità e la pervasività, in una logica di innestamento progressivo piuttosto che di scontro frontale. Quali sono, dunque, queste attitudini esistenziali che io e Davide condividiamo? Molte sono quelle già indicate come proprie di «Antarès»: critica alle degenerazioni della modernità e ai vari riduzionismi, interesse per la spiritualità e l’esoterismo, idea organica – rinascimentale, in questo senso – del sapere, attenzione per il mondo mitico-simbolico. Su un piano artistico tutto questo si converte nella riabilitazione dell’idea di tecnica (téchne), di contro al puro concettualismo e allo sperimentalismo fine a se stesso, alla salvaguardia della dimensione auratica dell’oggetto artistico e all’attenzione per la figurazione. Un’arte antinichilista, dunque, capace di guardare ancora al trascendentale del Bello e intenta a farsi anamnesi plastica dell’Origine, come ho cercato di mettere in rilievo nel mio scritto critico apparso sul catalogo del movimento in occasione del recente Festival del Nuovo Rinascimento. Una postura, questa, che senza ricadere nelle già criticate ottuse chiusure mi auspico divenga sempre più chiaramente la linea direttiva del movimento, prevenendo possibili sbandature rispetto al coraggioso tracciato intrapreso. Che dev’essere universale, ma non universalista.
Di recente, hai anche avviato altre importanti collaborazioni, come ad esempio quella con «La Tigre di Carta», altra interessante rivista letteraria diretta da Federico Filippo Fagotto, e quella con Giancarlo Lacchin, docente di “Filosofia Estetica” presso l’Università degli Studi di Milano. Ce ne vuoi parlare?
A Federico mi lega una salda amicizia che si è sviluppata proprio durante la fase di approfondimento dei nostri rispettivi interessi – molti dei quali comuni, peraltro. Benché non abbia sufficienti energie per partecipare regolarmente alla pubblicazione de «La Tigre di Carta», ho avuto l’onore di pubblicarvi tre contributi – dedicati a Nietzsche, Heidegger e al tema dell’Ascesi – che costituiscono a mio avviso un perfetto trait d’union fra la mia ricerca personale e le istanze del progetto editoriale. Il dialogo con Federico ha portato oltre un anno fa alla pubblicazione di un’intervista su «Barbadillo», entro cui discutiamo proprio di queste questioni (http://www.barbadillo.it/41333-lintervista-cavalcare-la-tigre-di-carta-un-dialogo-con-federico-fagotto/). Un dialogo fruttuoso, a mio avviso, che intendiamo portare avanti con collaborazioni concrete – organizzazione di eventi culturali, ad esempio – fra «Antarès» e «La Tigre di Carta». Siccome tutto si tiene – così almeno insegnano gli ermetisti – la mia collaborazione alla Cattedra di Estetica dell’Università degli Studi di Milano si inserisce proprio al crocevia di questo percorso di ricerca, con insoliti legami con le già citate realtà di «Antarès», del Metateismo e de «La Tigre di Carta». Grazie alla fiducia accordatami dal mio relatore Giancarlo Lacchin, che mi ha supportato nella scrittura della mia tesi di laurea triennale, dedicata all’esperienza dadaista del filosofo italiano Julius Evola, e magistrale, incentrata sullo studio dell’ermeneutica mitica elaborata da Mircea Eliade ed Ernst Jünger nella rivista tedesca «Antaios» (1959-1971) – ho iniziato da questa primavera a collaborare alle attività didattiche e di ricerca della Cattedra. Un’esperienza arricchente, tanto sotto il profilo teorico quanto sotto quello umano.
Grazie Luca, è stato davvero molto interessante intervistarti. Tutti noi ti facciamo moltissimi complimenti per la tua professionalità e competenza. Tu rappresenti senza dubbio la parte più bella, più sana della nuova generazione… indubbiamente un esempio da seguire. Ancora moltissimi complimenti e in bocca al lupo per tutti i tuoi futuri progetti.
Stefania Romito (Ophelia’s friends)