In Omero la morte è compimento e non passaggio, e la memoria poetica è
lo strumento per rinnovare al presente le immagini esemplari di
esistenze che il mito configura come dei modelli. In accordo tra gli
attuali studi sociali e l'antropologia, autori, come il Vernant,
ritengono ritengono che l'esemplarità dell'eroe omerico si esprima per
intero nella biografia: essa inizia con la genealogia del personaggio,
e a quanto pare è conclusa dalla morte. Anche se tale tesi non
convince del tutto, non è comunque impossibile negare che i varchi tra
la terra e gli inferi, nella poesia greca più antica, rappresentano un
evento eccezionale: Ades non si cura dei viventi, e lo Zeus olimpico
non ha potere sui morti. Soltanto il sogno potrebbe forse offrire
mediazione; in Esiodo esso è figlio della Notte ed è fratello della
Morte e del Sonno: nel XXIV Canto dell'Odissea, infatti, il popolo dei
Sogni ha la sua sede proprio accanto all'Ade, oltre l'Oceano e alle
porte del Sole. Ma persino i sogni sembrano accettare a stento di
mediare tra distanze così grandi; e quasi sempre sono inviati da un
dio appartenente al mondo olimpico del giorno; e quasi sempre, ancora,
l'efficacia del messaggio si manifesta in atti ed eventi esterni. Pure
in qualche caso il sogno omerico non sembra operare sul corso
dell'azione e non è voluto né inviato da un dio: inutile in apparenza,
esso si presenta da solo, come se venisse da profondità a cui non può
assolutamente dare un nome. Così Reso, ucciso in sonno, mentre è
immerso in un sogno minaccioso, o anche Penelope, che sogna l'aquila
che fa strage delle sue oche e le annuncia la fine della sovranità
femminile su Itaca. In entrambi questi sogni aleggia il senso
dell'addio e del presagio: ma più ancora che in essi, questo senso
aleggia nel celebre sogno di Achille del XXIII Canto, che sembra un
preludio alla nékuia dell'Odissea: colloqui tra due sponde, abbracci
inesaudibili, incontri che rinnovano gli addii; la coscienza di un
uomo di fronte alla profondità senza corpo e senza tempo della memoria
inconscia. Ma forse questo non è che un preludio rovesciato, dove le
differenze hanno più forza delle somiglianze. Nulla è più lontano da
Ulisse che il pensiero dei morti. Il suo cuore, per ora almeno (più
tardi la farà, però, definitivamente, dopo il ritorno ad Itaca) verso
Occidente, ma ad Itaca: ciò che lo induce a volgere la nave sulle
rotte dell'Ade infatti non è il cuore, ma la parola di un dio e più
avanti della dantesca sete inesauribile di conoscenza. Al contrario,
c'è una stretta vicinanza d'animo tra lo stato d'animo di Achille e
l'immagine di Patroclo che lo raggiunge in sogno. Ma in Ulisse, se
come dice Eraclito, i vivi si afferrano ai morti, il sogno è qualcosa
di più grande, di più ampia prospettiva, un'immagine del destino che
ti attende.
Casalino Pierluigi, 27.11.2015
lo strumento per rinnovare al presente le immagini esemplari di
esistenze che il mito configura come dei modelli. In accordo tra gli
attuali studi sociali e l'antropologia, autori, come il Vernant,
ritengono ritengono che l'esemplarità dell'eroe omerico si esprima per
intero nella biografia: essa inizia con la genealogia del personaggio,
e a quanto pare è conclusa dalla morte. Anche se tale tesi non
convince del tutto, non è comunque impossibile negare che i varchi tra
la terra e gli inferi, nella poesia greca più antica, rappresentano un
evento eccezionale: Ades non si cura dei viventi, e lo Zeus olimpico
non ha potere sui morti. Soltanto il sogno potrebbe forse offrire
mediazione; in Esiodo esso è figlio della Notte ed è fratello della
Morte e del Sonno: nel XXIV Canto dell'Odissea, infatti, il popolo dei
Sogni ha la sua sede proprio accanto all'Ade, oltre l'Oceano e alle
porte del Sole. Ma persino i sogni sembrano accettare a stento di
mediare tra distanze così grandi; e quasi sempre sono inviati da un
dio appartenente al mondo olimpico del giorno; e quasi sempre, ancora,
l'efficacia del messaggio si manifesta in atti ed eventi esterni. Pure
in qualche caso il sogno omerico non sembra operare sul corso
dell'azione e non è voluto né inviato da un dio: inutile in apparenza,
esso si presenta da solo, come se venisse da profondità a cui non può
assolutamente dare un nome. Così Reso, ucciso in sonno, mentre è
immerso in un sogno minaccioso, o anche Penelope, che sogna l'aquila
che fa strage delle sue oche e le annuncia la fine della sovranità
femminile su Itaca. In entrambi questi sogni aleggia il senso
dell'addio e del presagio: ma più ancora che in essi, questo senso
aleggia nel celebre sogno di Achille del XXIII Canto, che sembra un
preludio alla nékuia dell'Odissea: colloqui tra due sponde, abbracci
inesaudibili, incontri che rinnovano gli addii; la coscienza di un
uomo di fronte alla profondità senza corpo e senza tempo della memoria
inconscia. Ma forse questo non è che un preludio rovesciato, dove le
differenze hanno più forza delle somiglianze. Nulla è più lontano da
Ulisse che il pensiero dei morti. Il suo cuore, per ora almeno (più
tardi la farà, però, definitivamente, dopo il ritorno ad Itaca) verso
Occidente, ma ad Itaca: ciò che lo induce a volgere la nave sulle
rotte dell'Ade infatti non è il cuore, ma la parola di un dio e più
avanti della dantesca sete inesauribile di conoscenza. Al contrario,
c'è una stretta vicinanza d'animo tra lo stato d'animo di Achille e
l'immagine di Patroclo che lo raggiunge in sogno. Ma in Ulisse, se
come dice Eraclito, i vivi si afferrano ai morti, il sogno è qualcosa
di più grande, di più ampia prospettiva, un'immagine del destino che
ti attende.
Casalino Pierluigi, 27.11.2015