DANTE E L'ISLAM. IL LIBER SCALAE E LA DIVINA COMMEDIA DOPO GLI STUDI DI LUCIANO GARGAN.

Si sa, come anche da me ricordato su Asino Rosso, che il "Viaggio
dell'Anima", un importante itinerario spirituale nei regni
dell'Oltretomba, che fu compilato su fonti arabe all'inizio del
Duecento, a Bologna, è ritenuto conforma alla filosofia di Ibn Sina
(l'Avicenna dei latini), che, d'altronde, aveva proprio nello studio
bolognese uno dei suoi centri principale. Le ricerche recentissime di
Luciano Gargan per "la biblioteca di Dante" sono a loro volta ricche
di materiale assai interessante e tale da configurarsi come elemento
essenziale in vista di ogni futura indagine sulla cultura dantesca.
Una ricerca che bene si coniuga con la lunghissima stagione delle
celebrazioni, iniziate quest'anno su Dante e la sua multiforme opera.
E non c'è da stupirsi che, oltre al predetto testo avicenniano, Dante
abbia potuto (e anzi sicuramente lo ha fatto) leggere in traduzione
latina il misterioso Libro della Scala di Maometto (Liber Scalae), la
storia cioè del viaggio ultramondano di Maometto, accompagnato
dall'arcangelo Gabriele. Le polemiche su tale vexata quaestio sono
accese da tempo, da quando, nel 1919, l'intuizione feconda di Asìn
Palacios ha dato fuoco alle polveri della polemica: una polemica in
ogni caso inconsistente e che non depone a favore, invece, del genio
di Dante, che seppe trasfigurare tutte le sue fonti nella sua
straordinaria originalità creativa ed intellettiva. Il Libro della
Scala fu pubblicato nel 1949 da Enrico Cerulli, traendolo da un codice
parigino segnalato nel 1944 da Ugo Monneret de Villard, e
congetturando che Brunetto Latini, ambasciatore ed esule alla corte di
Alfonso X il Savio potesse esserne mediatore ed interprete nella
cultura dell'Europa latina medievale. A prendere visione degli studi
di Luciano Gargan, dopo quasi un secolo di antagonismi sterile
sull'impossibilità che Dante, già ammiratore del pensiero
arabo-islamico di Ibn Rushd (l'Averroè dei Latini) e di Ibn Sina
(l'Avicenna dei latini), potesse essere influenzato dall'escatologia
musulmana o attingerne le fonti attraverso la tradizione
arabo-spagnola. Una cosa è certa: spunterebbe il sorriso alla
compianta Maria Corti, che gettò le basi di una conclusiva e
favorevole testimonianza sull'attendibilità dell'influenza araba sulla
Divina Commedia, pur senza misconoscere la unicità e personalissima
radice classico-cristiana del Sommo Poeta. Quando circa trentanni fa
si accese la contesa tra chi rifiutava a priori che Dante potesse aver
letto i testi islamici (dimenticando d'altronde quanto devoto Dante
stesso fu di Averroè, per fare un esempio, oltre ad esserne seguace) e
quanti invece in ossequio ad una critica storica e delle fonti assai
più prudente e sapiente, sostenevano il contrario: tra questi ultimi
studiosi brillava per capacità di ricerca Maria Corti, mentre altri
studiosi ed islamisti come Francesco Gabrieli ancora tentennavano su
tale fulgido cammino. Cammino che sta percorrendo Luciano Gargan con
ricchezza di studi e di approfondimenti ancora in corso di esame. E
proprio la Corti nel suo celebre "Dante a un nuovo crocevia" (1981)
propose che fossero analizzati direttamente da Dante, e poi,
allegoricamente cifrati nella Commedia in "un rapporto simbolico fra
la vicenda di Ulisse e il pensiero degli aristotelici radicali (fra
cui Guido Cavalcanti, compagno di studi di Dante proprio a Bologna).
Le polemiche sorte intorno alle innovative idee della Corti e di altri
audaci studiosi oggi vengono meno. L'inventario del 1286, studiato ai
giorni nostri dettagliatamente da Gargan, dimostra invincibilmente che
"l'incontro di Dante con l'averroismo latino" e con "l'avicennismo
latino" ci fu e anche quello con l'escatologia islamica poté avvenire
nella facoltà bolognese.
Casalino Pierluigi, 24.11.2015