Intervista a Giuseppe Casale, libro manifesto Nuova Oggettività (Heliopolis, 2011 )

D - Nuova Oggettività o New Realism -nuova sbandierata rotta oltre il postmoderno di certa area storicamente "gauche"- nel futuro prossimo?
R – Non credo ci si possa ancora far sedurre dal variegato spettro delle rivendicazioni plebee dissimulate per mezzo della categoria del "superamento". Intendo dire che dirsi post-moderni, nella maniera sin qui sperimentata, costringe a sottomettersi ancora ai canoni di una mentalità che riesce comunque a determinare le posizioni di chi, pur avversandola, dimostra di non saper farne a meno: assumendola come necessaria, anche per il solo fatto di limitarsi a contraddirla, nell’incapacità di affermare positivamente qualcosa. La compulsione a "superare", poi, per come s'è sinora manifestata, sarebbe votata all'ennesimo fallimento, conservando la "zavorra" prospettica di quello storicismo che ignora la possibilità di elevare il "moderno" a categoria trans-epocale. Come non accorgersi, per esempio, della battaglia condotta da Platone nei confronti dei "moderni" di cui ebbe esperienza, sino al paradosso (in verità, soltanto apparente) di riconoscere come moderno Omero stesso, ancorché vissuto molti anni addietro? Dunque, bisogna intendersi. Se per  “Modernità” intendiamo soltanto l’età avviatosi quattro o cinque secoli or sono, allora la tendenza contrappositiva non mi trova d'accordo. Diversamente, se leggiamo la "Modernità" come categoria (spirituale) della crisi, allora, aderisco convintamente alla volontà corale di attivare un percorso dirimente. Ma a due condizioni "etimologiche" (e non solo!). La prima: che si riconosca, nella crisi stessa, il significato di "scelta", quindi, di "opzione" determinata a intraprendere una direzione positiva, risolutiva dell'impasse, per quanto possibile. Il che impone di guardare il "mostro" negli occhi, con il coraggio che si addice a quanti abbiano l'ardire di chiamare la realtà con il suo nome, senza infingimenti o pudori sociali. Se crisi c’è, essa non può durare in maniera patologicamente indefinita, pena lo scivolamento nella più incancrenita decadenza. La seconda: che si sperimenti, già nell'intimo delle proprie corde, il senso pre-giacobino di una rivoluzione immune dalla cupiditas rerum novarum che affligge gli spiriti bassi, sconfitti e semplicemente rivendicativi. Una rivoluzione, insomma, attiva, non semplicemente reattiva, a partire dalla quale revolvere a 360 gradi, per ripristinare, già nell’animo, una condizione eretta. La quale impone di preservarsi dalla tentazione miserevole di sognare “mondi nuovi”, inusitati e non meglio messianicamente definiti, ove rifugiarsi e leccarsi le ferite inferte dalla necessità del presente. In fondo, credo che questa sia la sfida di quanti, richiamandosi a una NuovaOggettività, ambiscono a quella metanoia, a quel “cambiamento di cuore” che prelude alla facoltà di osservare la realtà vitale delle genti (e primariamente della nostra gente!) coniugando “classicità” e “verismo”: l’esempio possibile suggerito, come eterno memoriale, dalla lezione di umanità trascorse, avvertendo l’esigenza di gridare: «il re è nudo!». Proclamare una NuovaOggettività equivale a sollevarsi per imporre l’oggettività del reale: di nuovo. A onta delle superfetazioni costumali, delle sofisticazioni culturali, di cui oggi si serve quel grande artificio affabulatorio che è la pseudo-scienza economica e finanziaria per asservire i popoli, inventando per essi bisogni naturalmente mai avvertiti, creando dal nulla identità e civiltà, stabilendo verità indiscutibili… proprio perché insostanziali.


D- Davvero possibile, nella prassi, danzare tra il computer e i graffiti, tra l'azzurro del cielo e il silicio fosforoscente?
R – Non è più tempo di attardarsi in più o meno radicali “rivolte contro il mondo moderno”, indulgendo a toni vitalistici e nihilistici che, invero, nascondono il rifiuto della realtà attuale. Inflessioni che, nel momento di dichiarare il disegno di accelerare parossisticamente il culmine della crisi usurante già in atto, finiscono spesso per irretirsi in un cupio dissolvi non dissimile dai sensi apocalittici del millenarismo o delle congreghe messianiche di ben più antica data. Ritengo tutt’altro che utile, ai fini della salvezza comune, ritrarsi in astensioni incapacitanti: seppur funzionali a sottrarre l’individuo dall’oltraggio di una società narcotizzata dalla sua stessa tecnica, esse non sortirebbero nulla di virilmente e positivamente palingenetico. Ripeto, sulla scorta nietzscheana: in questo momento, più che mai, occorre essere uomini dell’azione che (si) impongono rotte, non uomini della reazione, ridotti a rispondere a quanto dall’esterno subìto (: morale dello schiavo), immiseriti dalla condizione soggettivistica di reputare il mondo coincidente con la sola circostanza personale, pur sempre accidentale, parziale e, per ciò stesso, infondata. Occorrono uomini della sintesi, in grado di “cavalcare la tigre”, anche domando la techne, per piegarla nuovamente alla sua primeva funzione ancillare nei confronti di una prassi azionata dallo spirito. Per fare ciò, occorre davvero avvertire l’impellenza di una NuovaOoggettività, per inscrivere il frangente attuale di ciascuna vicenda personale nella più ampia cornice di un’economia cosmica senza requie. Penso che l’iniziativa in itinere, presentata anche nella vetrina di questo blog, vada esattamente in questa direzione, spendendosi in molteplici direzioni (artistiche, filosofiche, storiche, economiche, geopolitiche etc.), così da significare, attraverso la varietà delle branche disciplinari – sempre tecnico-strumentarie – la qualità totalizzante dell’auspicata rinascita.


D- Verso l'Ingegneria im-prevedibile della felicità o una sfida estrema alle stelle, prima dell'implosione della civiltà?

R –  C’è chi reputa preferibile accelerare il moto di caduta, al limite, senza opporvisi, per provocare, entro il più breve termine possibile, il tonfo finale della nostra civiltà, altrimenti destinata a una lenta agonia. Insomma, una sorta di “eutanasia”, dettata dall’ansia di assistere all’alba di una nuova “età dell’oro”, dopo un “kali yuga” appositamente condotto ai suoi esiti estremi. Nonostante la rispettabilità di tali posizioni, personalmente ritengo preferibile puntare lo sguardo al cielo, ma con i piedi ben saldamente in terra, per conservare e tradurre in opera, diffusivamente, il massimo risultato a cui la virtù umana possa ambire: per usare una terminologia riadattata da Giulio Maria Chiodi, sintonizzare l’axis sui con l’axis mundi imperituro e perpetuo. Obiettivo, questo, di non facile conseguimento, ma che già nel suo valore paradigmatico (per l’esistenza personale prima, comunitaria poi), dispiega una qualità ordinante nei confronti degli uomini che sappiano riconoscerlo come viatico fondamentale. Ritengo che la patologia micidiale che affligge il nostro tempo consista esattamente nell’aver perso di vista la necessità di questa sintonizzazione, smarrita la quale l’umano, come nave senza ancora, resta in balìa dei flutti sollevati da una ragione affetta da un’infondata autoreferenzialità. Di fronte a ciò, sta la “profonda altezza” di una vocazione civilizzatrice, senz’altro capace – come l’auriga alata del Fedro – di innalzarsi al cielo al traino dei suoi cavalli bianchi ma, al contempo, disposta a portarsi sulla dimensione orizzontale dell’esistenza, secondo l’assetto di un equilibrio costante, grazie al quale mai si smarrisce il senso della militia da esercitare nella quotidianità e tuttavia senza affogare nella morta gora di un senso comune superficiale e ignavo.

Dunque, in nome dell’oggettività: sguardo alle stelle, ma senza il desiderio (soggettivistico) di manipolare a proprio arbitrio il katechon, la forza frenante che separa dalla fine.



D- Tra realtà e utopia, l'Italia tra 100 anni...
R –  Non sono incline ad avventurarmi in previsioni. Figurarsi in profezie… Soprattutto perché, propendendo a non muovere il mio senso storico in maniera rettilineare, non riesco a ipotizzare un lasso di tempo sufficiente a esaurire il presente ciclo di narcosi epocale. So solo immaginare un tipo d’uomo che, se sarà in grado di recepire i richiami dell’oggettività vitale (non solo del mondo umano… troppo umano), saprà finalmente confutare l’inveterato fraintendimento che, da troppo tempo, oppone utopia a realtà. Laddove, invece, come auspicato dal messaggio di Gian Franco Lami, potrà concepirsi di nuovo – dopo le pur necessarie e sofferte catarsi che ci attendono – un’azione rifondativa che parta dalla “cittadella interiore”, chiamata a fecondare, con la forza dell’esempio, l’ambiente sociale circostante. Senza pretendere di violentare il reale, senza agitarsi per delle “fughe in avanti”, bensì nel segno di una prassi individuale terapeutica, capace di incontrarsi e di integrarsi fruttuosamente con le attitudini altrui. Credo che il richiamo di Sandro Giovannini all’adagio di Simmaco, collocato a bella posta sul libro-manifesto, vada proprio in questa direzione. Esso vale ad ammonire, contro l’ansia riduzionistica e intellettualistica di conchiudere gli sforzi plurali in un’unità dottrinale tanto inconcussa, quanto artificiale. Alla luce di ciò, si apprezza la missione di chi, oggi desto, si impegna a ricondurre le forze rigeneratrici alla disponibilità della veglia di altri che vogliano farsene carico, declinandole secondo le personali specificità. In quale modo? Dopo secoli di diluizione convenzionalistica del senso sociale, di superstizione individualistica, di disarticolazione privatistica delle utilità comuni, occorre ripartire dall’inizio: ripartire dalle comunità, all’insegna di un federalismo non semplicemente territoriale, fiscale o che dir si voglia, ma autenticamente identitario, etico, ideologico e popolare.La Res Romana, con il suo foedus fondativo e inclusivo, valga ancora da insuperato modello. Solo così, l’oggettività dell’inter-esse politico (comune) potrà fornire soluzione all’anomia della tirannide globalistica.

 

*GIUSEPPE CASALE, tra gli autori del Libro Manifesto "Nuova Oggettività"