FECI MALE A FERRARA?

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STRONZO

di DAVID PALADA

 

Sono uscito dal buco del culo in una giornata di ottobre e posato fumante per terra nel centro di Ferrara da quel bastardone grigio dal pelo avvizzito che si chiama Satana.

Sì, sono uno stronzo, una merda di cane che ha freddo alla pancia e che sente salire dal selciato un brivido rotondo che va su a spirale per uscire da una specie di corno molle che si trova sulla mia testa. Vedo buio: ancora la coscienza è sopita. Mi pare di essere fatto di salmone lessato assieme ad altra merda e carne rancida, colorato in un punto di viola caramella, disturbo della quiete pubblica, rivista porno, unguento di latte, vuoto di sgorbio assieme a deleteri bacilli intestinali, rettali – fecale sono – e mi lascio andare.

Ora vedo. Mi sono uscite di bocca -se così la vogliamo chiamare- solo stronzate, ma è così gratificante sapere di poter essere trattato per quel che sono: una merda di cane. Ed è bello esserlo. Cazzo mi mancano le gambe ma non fa niente:oggi il mondo mi girerà attorno e non lo risparmierò finché non sarò secco come quella troia che vedo ora in quella vetrina, falsa donna legnosa che prova profumi di marca. “Vieni qui, hai mai sentito l’odore dell’ascella di una merda di cane? Elisir di pus e catrame penetrante, riserva di muschio inguinale, umore virginale. Eccitante!”.

Mi inebrio annusandomi, mi drogo di aloni di fetore che si espandono attorno a me come universi di disgusto che loro, i Viaggianti, provano nei miei confronti e che a me non frega un emerito cazzo.

Taccio secondo i più, ma se fossero meno schizzinosi i Viaggianti che mi schivano urlettando come frocetti da film, se fossero attenti e avvicinassero le loro orecchie più vicino a me, gli vomiterei addosso una folla di porcherie ingombranti fino a farli piangere con la testa al suolo.

Sono uno stronzo,è la mia natura.

 

Ehi tu, vecchietta azzimata dal sapore di talco, dai capelli azzurrognoli, vieni qui, senti come sono morbido al tatto, pressami con le tue graziose scarpe e spargi il mio molle corpo su quel bel tappeto che hai in casa e che ci tieni più di tua figlia che adesso è al bar - tanto non sai quale – a bere spritz alle 9 di mattino e non sai se torna stasera; spremi il mio organismo sulla preziosa lana persiana fino a quando un urlo non ti uscirà dalle labbra –povera vecchietta- e ti metterai in ginocchio davanti a me, incazzata perché ti dici “che sei un cretina, che non sto mai attenta a dove metto i piedi, che ho lo sguardo sempre per aria perché sto meglio, sono più slanciata, sembro giovane”. Fanculo decrepita!

 

Dio come godo. La mia vita è qui , sono un fancazzista metodista, altri come me se ne stanno seduti nelle distese dei bar a grattarsi i coglioni –come li invidio - e fanno il mio stesso mestiere ma non sanno quanto sia molto più eccitante uscire dal culo che dalla figa, non sanno che la direzione contraria alla penetrazione è oltremodo più esaltante della consueta perforazione rettale.

Uno beve vino bianco, l’altro con gli occhiali da sole e i capelli brizzolati fuma una sigaretta senza inalare e mostra l’abbronzatura della caviglia e con fierezza la ceretta sul petto. Cinquantenni del cazzo. Non dicono nulla, non sanno da nulla, eppure scopano così dice la smorfia che ostentano su quelle facce da culo - pardon, il culo è il mio ovulo, la Sorgente-, mentre io ce l’ho gelatinosa quella specie di coda che io chiamo pisello.

I Viaggianti se ne stanno lontani, poi ci sono i più piccoli, i bambini che a malapena stanno in piedi, che invece mi amano. Uno sfila il ditino dal suo nasino pettoloso e con vaghezza infantile si appresta ad accarezzarmi il viso quando quella troia di sua mamma lo branca per il braccio e gli dà dello schifoso, dice che sono una cacca, “brutta cacca, cattiva, blah!”una merda da tenere lontano dalla società e a me va bene così. Sono un’osteria di umori, la bottega degli odori, il ristoro dopo la bufera, sono veemenza e compassione e questo i bimbi lo sanno, sei tu genitrice che l’hai dimenticato. Sono merda di provincia, cagata da un cane di provincia, affidata al cielo grigio-perenne di Viaggianti che si fingono frettolosi e indaffarati: io che fretta non ne ho, lascio il segno.

 

Riposo in pace. Che ha da dire quella vigilessa incarognita con un ciclista –qui sono tutti ciclisti ed essere spiaccicato da una di quelle ruote sottili mi innervosisce-, perché si lamenta, cosa trova di buono nell’incazzarsi con un ragazzo che si muove rapido tra la gente con la bicicletta senza freni? Quel tizio lo apprezzo, è piacevolmente privo di senso civico, lo adoro, vorrei essere cagato dal suo culo magro. Un piccione si avvicina, ciò mi stomaca vedere i suoi tondi occhi senza espressione: rivelano l’inutile tentativo di non essere un rifiuto del cielo. E poi quella testina su quel collo gonfio che scuote avanti e indietro e trascina la sua sagoma plumbea per ingozzarsi di briciole. Briciole, l’unico banchetto che meriti, schifoso volatile! Che tanfo, una sigaretta ancora accesa è appena rotolata vicino al mio bacino -“sudicio maiale, buttala più lontano da me”- mentre un mezzo pubblico a basso inquinamento mi riveste di una tunica polverosa che indebolisce i miei naturali effluvi. Profumi di città, a questo si sono abituati i viaggianti e poi si lamentano di una merda di cane.

Dai forza, non c’è nessuno che mi vuole portare con sé, trascinarmi in qualche luogo più avvincente? Tu giovane pallido studente, voglio sagomarmi nelle fessure delle tue Nike, voglio farti fare una pessima figura con quella magrolina che fra un po’ incontrerai all’università, che ti piace tanto, che ti fa sudare le mani e i piedi come se fossi al tuo primo esame. Dai più vicino, ti prego!”.

E Lei, signore, so che sei un frammento del partito, si vede dalla giacca d’ordinanza che porti ogni giorno della settimana per inoltrarti nel groviglio delle stanze del comune, capisco che questa settimana verrai razziato dei tuoi buoni propositi di quando eri giovane e proprio per questo pestami, saltami in bocca con tutti e due i piedi, sfondami e così sarai libero di smerdare i corridoi di marmo lucidi e sgrassati che portano al tuo ufficio”.

Anche in questa cazzo di città ogni tanto spunta il sole, mi accorgo allora che la vita per me sarà più breve.

 

Steso mi ripeto che non è vita questa, un vortice insignificante di idee che se ne va lontano, sospeso ,aggrappato al vapore dei miei odori e che lentamente svanisce nel vuoto. Piangerei se avessi lacrime, riporterei il mio tiepido corpo nelle anse intestinali di chi mi ha generato - la matrice del mio vivere si è allontanata e più non tornerò- rivelerei a tutti il pensiero minimo che ci affligge e che non è dato conoscere. IO che di merda sono fatto, mangio la vita con avidità senza mai riempirmi, se avessi stomaco sorprenderei il moto degli astri, vincendoli e da vinti li affrancherei dalla fisica del movimento. Sono fiato di materia, una fuga dal retrobottega – sono nato con lo sguardo ispirato al passato-, sono il vostro fetore che vi riporta coi piedi per terra e l’anima a mezz'aria tra la mente e il naso. Se avessi bocca vomiterei quiete, profondissima quiete.

Traspiro troppo in fretta, già una parte di me è arida e lo si capisce dall’indifferenza dei Viaggianti: uno stronzo turgido attrae anche i più disinteressati, ma uno stronzo appassito si fonde nel colore dell’acciottolato.

Vibrano i cellulari in questa piazza svuotata – i camerieri dei bar si fanno lenti – ed un turista biondo si siede sul marciapiede con gli occhi chiusi intento ad agguantare in viso quel maledetto sole che per me vuol dire fine. Trascino ancora una volta l’attenzione verso i lunghi capelli di una giovane studentessa che mi sembra disponibile ad un confronto bonario sull’utilità dell’ozio come unico mezzo di conservazione in questa “frenetica” città. In breve me la scoperei all’istante, tingerei le sue labbra del mio colore senza deturparla, l’amerei senza compromessi per poter detergere ogni sua apprensione e trasformarla in tenerezza. “Ho amato uno stronzo” racconterà ad un’amica, “beh, è normale” risponderà, “non sarà neppure l’ultimo: io sono una figlia di merda di un uomo di merda. Come vedi niente di strano!” (Potrei chiederle di presentarmi quella sua amica, deve essere una persona affidabile). Non c’è niente di stravagante nell’innamorarsi di uno stronzo, pare che sia il destino dei più.

 

Il sole là in alto consuma la mia carnagione e più perdo tono e più l’ epilogo è vicino –grazie a dio-. La vista è annebbiata, il corpo necessita di liquidi intestinali, le membra soffici sembrano prosciugate ed io sento il profumo amarognolo della fine.

Poi l’alluvione.

Un getto innaturale d’acqua mi trascina via nonostante il cielo terso. Mi capovolgo una, due, tre volte, il flusso è così energico che non mi permette di comprendere cosa stia accadendo. Vedo ora più vicino il portale del duomo, mentre le commesse dei negozi scorrono distanti dal mio sguardo , qualcuno bestemmia, una lama mi solleva, un uomo vestito di arancio apre un sacco di plastica nera e mi scaraventa dentro. Non vedo. Altri stronzi stipati in questa fossa comune sono morti, mummie biancastre e inanimate, il sospiro di qualcuno è ancora sospeso nell’aria nera.

Qui è solo buio.

 

Passa l’acqua anche da quella parte” urla l’ometto delle pulizie delle strade. Ha in mano un sacco nero di plastica, è sudato, è dall’alba che raccoglie escrementi di cane. Quel giorno Mario non aveva dormito, si era alzato alle 4 come tutte le mattine, aveva lo stomaco tirato e dopo il terzo caffè si era recato al lavoro. Vent’anni a stretto contatto con il lerciume avevano ridotto la sua schiena e soprattutto i suoi coglioni ad articoli in svendita.

Ma quel giorno Mario non lo scorderà. Ripeteva a voce bassa mentre lavorava “ vita di merda, città di merda” come una preghiera sacrilega. Si avvicinò al sacco e come se qualcuno mormorasse dal suo interno, sentì distintamente una voce. Indietreggiò, si allontanò, accese la sigaretta e scappò dritto a casa senza salutare il collega.

 

Mario correva, si tappava le orecchie con le mani, urlava per coprire quella lieve voce di uno stronzo che ripeteva ossessionata a tutto il mondo: “Fanculo Ferrara!”.

DAVID PALADA

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