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La lezione di Bruno Dalmasso.

 Casalino Pierluigi, 15.02.2015

Un pezzo di Riviera se ne va dalla Libia. Bruno Dalmasso e la moglie etiope se ne torna nella sua Bordighera di cui è originario e si arrende alla tragicità dell'inferno libico, nonostante la sua nostalgia e la sua volontà di restare una bandiera di quella che una volta fu definita la Quarta Sponda. Ma, aldilà delle più o meno controverse eredità dell'Italia coloniale, va salutata la figura di questo personaggio d'altri tempi, romantico e non privo di quel fascino che la storia di quel mondo lontano e vicino gli ha accresciuto nel corso dell'ultima dolente parabola degli italiani in terra di Libia: soprattutto nella prima fase del deposto colonnello Gheddafi. Con l'ISIS alle porte di casa, anche della nostra Liguria, diventava difficile restare e resistere, per questo anziano signore del Ponente.  La sua strenua difesa delle memorie italiane, che comunque appartengono alla vicenda nazionale, testimonia il valore di gente che come lui non abbandonano mai, se non costretti, la barca che affonda. Prima che sia troppo tardi, la comunità internazionale non può dunque che riprendere la via di un nuovo intervento, tanto più doveroso e legittimo più di ieri, quanto più ineludibile, anche per salvare quel poco che rimane di un patrimonio millenario che ha legato le due rive del Mediterraneo, segnandone un momento rilevante della civiltà. E ciò nell'interesse anche dei libici, che consapevolmente spesso ci ripetono, come mi ha evocato di recente un amico di laggiù. "quando la Libia era  in Italia". Alfiere dell'italianità, Bruno Dalmasso merita il nostro plauso per il coraggio e l'ostinata, intrepida scelta che lo ha accompagnato nel corso della sua esistenza. Se ora si è arreso non è certo per paura, ma per metterci tutti di fronte alle nostre responsabilità. Quelle di fermare  la marea montante del fanatismo. E non si può fallire.

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