Appello agli intellettuali al tempo della crisi: è ora di sfidare il potere
Il Giornale Lun. 01/10/2012 - 09:08
Bisanzio brucia e la destra pensa a salvarsi il sedere e dove esso si posa, ovvero i seggi per la modesta classe dirigente. L'Italia affonda e nessuno rappresenta il suo corpo ferito e la sua anima umiliata. Cosa può fare la cultura per il suo Paese? Poco, molto poco. Ma deve farlo, quando il suo Paese rischia di morire. Cosa può fare la cultura? Scrivere, testimoniare, rivolgere appelli, gridare nel deserto, difendere la lingua, l'arte, la civiltà. Ma non basta, mi rendo conto, non basta. Se cerca i mezzi per incidere con più efficacia si dice che è venduta e asservita. Se non li cerca, o addirittura li respinge, si dice che è rancorosa e sterile. Se sta nel mezzo finisce come l'asino di Buridano. Se si ritira nei suoi libri e nei suoi pensieri, riconoscendo che il cielo è la sua patria, si dice: ecco il solito intellettuale, impotente e sacerdotale, ma di una religione dove Dio si è spento. L'unica cosa che resta da fare alla cultura è affrontare il rischio e sfidare il potere, forte della sua assoluta debolezza, ricca della sua inerme povertà, libera e folle. Non rinunciando alla cultura ma al suo individualismo narcisista ed egocentrico. Non tocca alla cultura mobilitare un popolo, governare un paese, non ne sarebbe capace. Non è indole della cultura vera formare sette; ogni scrittore è una casa a sé, non ha un partito suo. Eppure in tempi eccezionali deve intervenire, pur non lasciando la sua occupazione principale che è pensare e creare in solitudine; ma sapendo che nei tornanti della Storia, ai giri di boa più decisivi, quando il fumo raggiunge anche il suo studio, deve fare la sua parte, generosamente, e non ritrarsi. Lasciar da parte i calcoli, anche i più nobili, e farlo per la gloria di concorrere a salvare il suo paese. Cent'anni fa si chiamò interventismo della cultura, e ci fu chi intervenne sul serio, chi rischiò davvero, perfino chi dette la vita in guerra; ci fu chi combinò guai e pasticci, chi si ritirò al momento della verità, dopo aver acceso gli animi. Armiamoci e partite. Ma nel frangente, la cultura non deve defilarsi, deve cimentarsi, provare le sue idee su strada. Oggi alla cultura tocca esprimere un pensiero divergente. Divergente non solo perché diverge e dissente dal potere che è oggi anonimo, transnazionale, astratto come la finanza. Ma deve coltivare un pensiero divergente perché deve esprimere due esigenze opposte: quella di tornare alla realtà, mentre il potere vive prigioniero di una bolla irreale, fatta di speculazione, autoreferenzialità e indici astratti. E insieme deve essere com'è sua natura lungimirante, esibire i principi e le idee, pur oscene, orientare e indicare. In sintesi: tornare alla realtà, che è fatta anche di ideali. Alla cultura oggi, pur così malmessa, tocca un compito non secondario: suscitare, risvegliare dal sonno senza sogni questo Paese di ombre viventi, che compensano la loro evanescenza con l'esercizio del potere. È vero, sono finiti i tempi della cultura interventista, il mondo è cambiato, la tecnica muove la vita con l'economia, la parola non basta. Alla cultura tocca rispondere alla corruzione politica in un solo modo: riscoprendo le motivazioni della politica, in assenza delle quali dilaga il malaffare. La cultura deve costringersi a farsi presente, deve fare la sua parte, fino in fondo. Deve scrivere, progettare, scendere per strada, mettere in relazione mondi diversi, parrocchie conflittuali; deve farsi ostetrica, se non addirittura ingravidare. Deve chiamare alla tradizione e reinterpretarla, ricordare il passato, indicare l'avvenire. Deve dare poesia attiva, ispirare. E deve mantenere la sua dignità anche se la chiameranno superbia, quella di chi dice: a me non serve niente, non puoi comprarmi con i soldi, i seggi o roba affine; non chiedo niente, mi declasserei se rinunciassi al mio compito per fare, che so, il parlamentare o accaparrarmi un vitalizio o una casa (rischio remoto, perché si gratificano i corpi seducenti e i servi, non le intelligenze e le idee). La cultura è troppo orgogliosa per cedere a così poco, e abdicare alla sua dignitosa solitudine in cambio di un appannaggio. La cultura deve osare.Il vero problema è come, con chi, a chi rivolgere il discorso, dove trovare compagni d'armi e d'anima disposti all'avventura. E come reggere al disgusto, allo sconforto, alla «bassa marea» che la circonda, senza lasciarsi prendere dalla tentazione di tornare soli. Prudenza, realismo, ponderatezza. Però si deve osare. L'appello è a chi non esercita il potere e non fa parte della cricca; a chi non sa che farsene di governi in apparenza affini che poi non lasciano neanche un'impronta del loro passaggio. A quel punto meglio la pura, impolitica testimonianza degli emarginati che andare al potere e lasciar le cose al loro degrado. La cultura deve farsi sentire, deve dire, pensare, agire, tracciare e lasciar traccia. Perché anche la cultura ha le sue responsabilità, non può bamboleggiare tra bizantinismi e ritrosie. Ci vuole uno stomaco di ferro per cimentarsi e capisco la tentazione dell'eremo; la pratico, la condivido. Anzi sono quasi convinto che alla fine non servirà a nulla: la voce grida nel deserto, nessuno la raccoglie, se non per dirti di tacere. E taceremo, non perché sottomessi, ma perché non abbiamo potere per accendere i microfoni. Alla cultura si addice la contemplazione ma a volte si richiede lo sforzo aggiuntivo, pur provvisorio, del movimento, nelle forme che le sono congeniali; a volte tocca esporsi. Lo fece Platone, lo fece Dante, lo fece mezzo Novecento eroico, figuriamoci se non possiamo farlo noi.