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Paolo Melandri "Mendelssohn e Bach"


Mendelssohn e Bach

A differenza della gran parte delle opere per organo di Bach, l’Orgelbüchlein resta in un superbo autografo, non danneggiato da bombe, né rubato da invasori, nella Deutsche Staatsbibliothek di Berlino, dove porta il nome di «Mus. ms. autogr. Bach P 283».

Schweitzer ha raccontato di un altro autografo, appartenuto a Mendelssohn, che ora risulta perduto. La pretesa che si trattasse di un “primo autografo” non sembra infondata, considerando che conteneva ventisei Fantasie su Corale, quante ne contegono le prime ventitré pagine dell’autografo berlinese, alle quali segue un vuoto di sette pagine, a partire da cui l’alternarsi di titoli composti e lasciati in bianco, nel quaderno berlinese, assume un ritmo come saltellante di casualità e incostanza.

Raccontava Schweizer che in quel «primo autografo mancavano tre fogli che Mendelssohn aveva strappato per donarne due alla fidanzata e il terzo a Clara Schumann»: frase raccapricciante che fa capire come i manoscritti e peggio, gli autografi, dei massimi maestri venissero confidenzialmente trattati ancora un secolo e mezzo fa. Né si può incolparne l’ignoranza, perché qui si tratta di Mendelssohn, colui che viene salutato, e a buon diritto, come il resuscitatore o, quanto meno, il diffusore del culto bachiano. Incoscienza? Errore di prospettiva cagionato dalla vicinanza? Oppure, privilegio di età creative, che i documenti della creazione contemplavano ancóra come oggetti vivi, da adoperare per atti tra vivi, come doni e affettuosi ricordi, e non ancora mummificati dalla nostra polverosa impotenza di custodi di musei, conservatori di un’arte morta?

All’asta di manoscritti del Nachlass di Beethoven erano presenti tutti i suoi amici, e i maggiori editori di musica; eppure, gli oltre quaranta quaderni di abbozzi, uno solo dei quali basta a rendere celebre la biblioteca che lo possiede, realizzarono i prezzi più bassi di tutta la vendita.

La perdita dell’autografo posseduto da Mendelssohn induce a un’altra riflessione sulla sorte di queste carte fatali: l’indifferenza, ai fini del loro destino, dell’illustre qualità della persona, della famiglia, della casa del possessore. Si crede, di solito, che solo i cimeli finiti in mani indegne possano andare perduti, fuori della memoria e della «pietas» storica; ma è errato.

Quando pensiamo alle traversie che queste carte dovettero subire per giungere a noi, non tanto ci meravigliamo che tante siano scomparse, quanto che tante siano sopravvissute. È il sentimento di sollievo che provava Francesco Guicciardini, nel celebre numero CLXI dei Ricordi: «Quando considero a quanti accidenti e pericoli di infermità, di caso, di violenza, e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo; quante cose bisogna concorrano nell’anno a volere che la raccolta sia buona, non è cosa che mi maravigli di più, che vedere un uomo vecchio, un anno fertile».

 

 

Paolo Melandri

29 gennaio 2012

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