Ovidio e il più antico destino di Saturno


Da: anggiub@tin.it   di ANGELO GIUBILEO
 

Ai tempi, sempre mutati, del divus Augusto, il poeta Ovidio, nel primo libro delle Metamorfosi, narra le vicende che sarebbero occorse dall'origine del mondo. In premessa, egli dice che l'estro lo spinge a parlare di forme mutate in corpi nuovi (1-2). L'uso del termine formas (acc., forma -ae), tradotto "figura", è da considerarsi nel senso che l'intero discorso attiene e non può che attenere alla "forma" - e non a quella che Aristotele per contrasto definirà viceversa "sostanza" -, delle cose di cui toto naturae vulnus in orbe, ovvero: ciò che concerne l'aspetto della natura in tutto l'universo (6). A tutte queste trasformazioni presiedono gli dei (2). Ma, per l'appunto, cosa abbia dato origine alla forma primigenia e indistinta non è e non sarà dato sapere. E, per tanto, a tale aspetto della natura in tutto l'universo è dato il nome di Caos (7). Ed è quindi dal Caos che ha "inizio" la storia di quello che potremmo definire il "primo cerchio dell'essere", che si completa con la presentazione di Fetonte, figlio del Sole (751), in cerca di suo padre.
Dal Caos, un dio, e una più benigna disposizione della natura sana i contrasti (21) delle forme indistinte che appaiono e sono. Sono, esattamente, per se stesse (divine, le dirà Platone) e non così come (politiche, le dirà Platone) appaiono. Questo dio è ignoto: quisquis fuit ille deorum (32). E tuttavia, egli non è già più l'Architetto che secondo alcuni avrebbe progettato il mondo prima dell'inizio; egli invece è il Fabbro: fabricator mundi (57). L'opera del Fabbro - celeste e non, che sarà in qualche modo inteso da Spinoza come deus sive natura -, una volta completata, apre "l'età dell'oro; che fiorisce per prima, spontaneamente, senza bisogno di giustizieri, senza bisogno di leggi" (89-90), dove si onorano la lealtà e la rettitudine (90). E dove, dice Ovidio, nacque l'uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto … (78-83), ovvero il titano Prometeo, e la primavera era eterna: Ver erat aeternum (107).
Aetas, quae vindice nullo (89), un'età, la prima e unica della storia in cui non occorre fare giustizia o più precisamente "vendetta". E tuttavia, questa età finisce, quando Saturno fu spedito nel Tartaro tenebroso e il mondo si ritrovò sotto il regno di Giove (113-114). Direbbe Heidegger che qui occorra piuttosto una delucidazione, dato che Saturno compare nella storia all'improvviso senza che di lui veniamo a sapere qualche altra notizia oltre il fatto che sia stato "gettato" nel Tartaro tenebroso. Per una siffatta delucidazione, decido di rivolgermi al maestro Giorgio de Santillana, il quale in Il mulino di Amleto sostiene che Saturno, alle più diverse latitudini e longitudini del mondo, sotto diversi nomi, è l'auctor temporum, colui che dà le misure del cosmo, il Primo Re, il sovrano dell'Età dell'Oro ora addormentato ai confini esterni del mondo, il Sovrano della Necessità e della Retribuzione (op. cit., 164-165). Un destino è quindi già cambiato, non sappiamo se per volere (o colpa) di chi o cosa. Potremmo anche pensare a una contesa che si sia svolta, che abbia però riguardato direttamente la stirpe degli dei, e che a questa contesa sia stata posta la fine necessaria mediante un patto di giustizia in base al quale a Saturno, il Primo Re, è toccato il Tartaro tenebroso e invece a Giove il mondo. Ma, di questa contesa, nel poema non vi è alcuna traccia. Diversamente, da quando accaduto e testimoniato nell'India vedica dalla storia dei Deva e degli Asura.
Scopriamo invece, ed è qui solo il caso di farvi immediatamente cenno, che il "destino" finora incerto (78-83), volga piuttosto in sofferenza: questa infatti è la peggior sorte toccata a Saturno, ma questa è anche la sorte, in forma d'ora in poi di contesa, che tocca ai protagonisti delle età che sopraggiungeranno. A partire dall'età di argento, in cui Giove riduce la durata originaria della primavera (116), seguita dall'età di bronzo, di pregio ancora minore (115) e fino all'ultima, quella del ferro duro (126), in cui accade che siano invece "i Giganti" (152), e tra questi per primo s'intenda Prometeo, a ribellarsi al proprio destino, aspirando al regno del cielo, su, fino alle stelle (153). D'improvviso, letteralmente protinus (128), così com'è sembrato per la fine dell'età dell'oro, nel mondo irrompe ogni empietà 8128-129).
Quando Giove, figlio di Saturno, vide questo dall'alto della sua rocca, mandò un gemito, e ripensando al mostruoso banchetto di Licaone (nessuno ancora ne sapeva nulla, perché il fatto era recentissimo) s'infiammò in cuore d'ira grande e in tutto degna di Giove (163-166). Or dunque accade che la stirpe degli uomini, anche quella rinata dalla Terra (160), già intrisa di sangue (162), guidata dal figlio di Giapeto (83), che è Prometeo, si ribelli al dio del cielo che è Giove; il quale Giove è però figlio di Saturno; e, come sappiamo, è divenuto re quando Saturno, padre, è stato spedito nel Tartaro tenebroso.
Quindi tocca ora a Giove subire la contesa, e a noi ascoltare quale destino la storia riservi ai nuovi protagonisti. Con l'aggiunta, a cui qui Ovidio fa espresso riferimento, di Licaone: chi è costui? Egli, sovrano dell'Arcadia, diventa (n.d.r.: il "divenire", così come in Aristotele, rappresenta il processo di trasformazione delle cose, che pertanto non mutano quanto alla "sostanza", che permane sempre uguale a se stessa, ma alla "forma") l'emblema di ogni empietà suddetta, e, la più grave, quella di aver dubitato che Giove, calato dalla sommità dell'Olimpo per accertarsi, sotto umano aspetto, sperando che non sia tutto vero (211-213), sia veramente un dio o un mortale (222-223). L'ira di Giove sembra non abbia più fine, e così prorompe il diluvio su tutta la terra, anch'essa travolta dal ciclo della vendetta, che, mediante un eterno ciclo, è generata e genera. Chi vendicherà, e quindi rivendicherà, ora, la giustizia per entrambe le stirpi, quella degli dei e questa degli uomini? In realtà, entrambe, finiscono per soggiacere a una sorta di legge del contrappasso, ovvero "soffrire il contrario" per analogia e, nel racconto, solo dall'età dell'argento, per colpa; una legge che, non dall'inizio ma da principio, garantisca definitivamente che non arda il lungo asse del mondo (255), flammas longus ardesceret axis.
E' quindi sul Parnaso, le cui vette sovrastano le nuvole (317), (l'unico non sommerso) che Deucalione approdò su piccola barca con la sua compagna di letto, Pirra (318-319). Deucalione, figlio di Prometeo o Promethides (390), e Pirra, figlia del titano Epimeteo, fratello di Prometeo ed entrambi figli di Giapeto: chi sono Deucalione e Pirra? Ovidio dice che: Mai ci fu uomo più buono di lui e più amante della giustizia, mai ci fu donna più timorata di lei (322-323). Spetta dunque a costoro "vendicare" la stirpe degli uomini rispetto al cospetto dell'intera stirpe divina capeggiata da Giove. Così che il mondo torni come prima, ma non esattamente, dato che la terra partorì un'infinità di specie e in parte riprodusse le forme di una volta, in parte creò mostri sconosciuti (436-437), così come già prima aveva generato una nuova schiatta di uomini (ma) anche questa spregiatrice degli dei (160-162).
La terra, dice Ovidio, certo essa non avrebbe voluto – e, dunque, quale colpa potrebbe mai averne -, eppure allora generò anche te, immenso Pitone, serpente mai visto prima, che divenisti il terrore dei popoli rinati (438-440). La terra assurge ora al ruolo del più antico Fabbro. Ma, allora, che n'è di Giove? Prima che, in tal guisa, Ovidio ci dia una risposta, egli introduce la più antica storia di Febo o anche "colui che splende, che illumina e percorre il cielo conducendo un cocchio d'oro e di gemme, trainato da quattro cavalli", il così più noto Apollo. E infatti è Febo, figlio di Giove (517), che uccide quest'essere mostruoso (444). Dopo di che, narra Ovidio che il primo amore di Febo fu Dafne (452). Il dio di Delo, ancora tutto insuperbito per aver vinto il serpente (454), non crede che Cupido, figlio di Venere (463), possa trafiggerlo; ma, così accade e Febo s'innamora di Dafne, figlia di Peneo, fiume della Tessaglia. Febo proclama: La mia freccia è infallibile, sì; una però è stata più infallibile della mia, quella che mi ha ferito il cuore sgombro (519-520). L'"amore", si dirà poi nei tempi successivi ad Augusto, vince anche Febo, mentre Dafne sfugge piuttosto alla sua bramosia. Il racconto finisce che Dafne, dopo aver pregato il padre Peneo, viene trasformata in albero di alloro; così che Apollo e l'alloro siano da quel momento in poi legati per sempre, lo stesso alloro che sarà ai lati della porta della dimora di Augusto (562).
Questo "impulso", piuttosto direbbe Plutarco, che riempie il cuore sgombro del dio, finisce per catturare anche Giove e lo spinge a tradire la moglie Giunone, saturnia, come Giove, entrambi species Saturnia (612). Giove è attratto da Io, figlia di Inaco, fiume dell'Argolide, e anch'essa, come già Dafne, intende sfuggire al dio predatore che la insegue, correndo verso il fiume paterno. Giove, per occultarla alla vista della moglie, trasforma Io in giovenca (611): anche giovenca essa è bella. La figlia di Saturno elogia l'aspetto della vaccaGiove le inventa che è nata dalla terra, perché smetta d'indagare sulla provenienza; e Giunone gli chiede di regalargliela (612-616). Che fare? Sarebbe crudele consegnare l'amata; non farlo sarebbe sospetto (617-618). E allora Giove la cede a Giunone che, come sempre sarà, per vendetta decide di farla soffrire, e fino a quando Giove la supplica di porre fine alle di lei sventure (733). Allora la dea si placa e Io riprende l'aspetto di una volta e torna com'era prima (738-739): nulla resta in lei della vacca, tranne il candore della figura (743) (…) Ora è una dea famosissima, venerata dalle folle vestite di lino (747). E' Iside, ai tempi ancora di Augusto.
A questo termine del racconto, il primo cerchio dell'essere, così come noi l'abbiamo chiamato, non è ancora chiuso; per chiudersi, occorre la comparsa sulla scena di Fetonte e la narrazione dell'antefatto legato al suo più celebre mito. Fetonte, figlio del Sole (751), si vanta con Epafo della sua supposta paternità. Epafo, figlio di Giove e di Io, gli rinfaccia di credere scioccamente a questa diceria della madre Climene - moglie del re etiope Mèrope, amata dal Sole e madre anche delle Eliadi - di un padre "immaginario" (753-754). Fetonte si rivolge alla madre e, su invito di lei, decide di andare dal padre: Se così ti aggrada, vai a informarti da lui direttamente (775). E così, il cerchio si chiude. Non prima però che Fetonte, lasciata la sua Etiopia, traversata l'India, arrivi prontamente al cielo dove sorge suo padre.
Per tanto, Necessità vuole: I) che, dopo l'inizio (da cui il "pensiero iniziale" di Heidegger) del Caos e poi dell'età dell'oro, in principio (secondo l'ordine "politico" di Platone che subentra all'ordine "divino" del Caos) sia Giove, regnante figlio di Saturno, a riscattare il destino avverso capitato al padre, così precipitato nel Tartaro tenebroso; II) che siano soprattutto i titani, capeggiati da Prometeo, e gli uomini a volersi vendicare nell'età del ferro duro dell'operato di Giove regnante nell'età dell'argento; III) che sia ancora Giove e l'intera stirpe divina a volersi vendicare a propria volta, scatenando il diluvio e servendosi delle forze della natura così violata dall'operato degli uomini; IV) che siano Deucalione, figlio di Prometeo, e Pirra, figlia di Epimeteo, a riscattare gli uomini e la terra; V) che sia la terra, pur non volendo, a generare l'immenso Pitone, terrore dei popoli rinati per volere degli dei; VI) che sia Febo, figlio di Giove, a trafiggere il serpente; VII) che sia Cupido, figlio di Venere, a trafiggere Febo e a farlo innamorare di Dafne, figlia del fiume Peneo; VIII) che sia il figlio del dio Giove che la figlia del fiume Peneo subiscano il destino amaro di restare legati per sempre, in modo che l'uno ami l'altra trasformata in albero di alloro (dati i tempi in cui predomina il valore stoico della virtus augustea); IX) che sia ancora Giove a tradire la sua stessa stirpe divina (saturnia) con Io, la figlia del fiume Inaco, e che sia però lo stesso Giove a chiedere a Giunone che Io riprenda l'aspetto originario; X) che, in fine, sia Epafo - figlio di Giove e di Io, divenuta Iside, così che cielo e terra siano di nuovo insieme - a sfidare la paternità di Fetonte, figlio del Sole e di Climene - moglie del re etiope Mèrope e madre anch'essa delle Eliadi, così che cielo e terra siano di nuovo insieme -, allo stesso modo in cui Licaone aveva già sfidato la "divinità" di Giove prima del diluvio.
                                                                                                                      Angelo Giubileo