L’errante io e la pietra del sortilegio: una antropologia dell’anima

 
 di Pierfranco Bruni (Mibact)

 

Non ci si ferma mai ad un porto. Anche dopo un lungo viaggio si spazia nel tempo del riposo per poi ripartire. Siamo fatti di partenze. Ogni parola è una partenza e ogni linguaggio fissa i segni della ripartenza. Siamo uomini erranti, perché, pur volendo pensare alla ragione come un sentiero tra i confini delle nostre esistenze, ci raccogliamo inevitabilmente  in ciò che amiamo definire mistero.

Vogliamo attraversare la ragione ma la ragione non ci basta. Vogliamo andare oltre. Oltre il limite. La Stella Cometa. Oltre lo stesso orizzonte. Oltre quell'orizzonte che segna la fine del viaggio. Quando il viaggio è terminato si chiude la porta. Ma si chiude non perché il viaggio è terminato realmente, perché noi pensiamo che sia finito e invece non finisce mai. La Terra Promessa nel Mare innavigabile.

Continua anche senza di noi, il viaggio, in un mondo dove l'irresistibile può essere considerato indefinibile e l'eterno è soltanto una stanza aperta verso ciò che non conosciamo. Ciò che non conosciamo non può essere appreso. Perché, in fondo, dovremmo apprendere da ciò che non conosciamo?

L'errante non è un viaggiatore soltanto, un pellegrino, un navigante, un camminatore… L'errante è colui che non vuole avere punti di riferimento (non colui che non ha riferimenti) perché è consapevole che l'unico riferimento è il suo cuore. Fa una scelta ed è una scelta in cui il segreto e il mistero si intrecciano con la fantasia. Io uomo errante vado dove la fantasia mi porta (Foscolo).

Questa fantasia che mi attraversa è un dono o un vizio. Un dolore o un'ironia. Stai certo che nel momento in cui  ti accorgi che la ragione ha preso il sopravvento sul mistero sei finito. Non è che è finito il viaggio. Sei finito. Sono finito. Errare significa non avere limiti e non avere confini. Per scelta, dunque. Per vizio e per virtù.  Sei un cavaliere. Essere cavalieri erranti è avere nell'anima la nobiltà templare o sognante di don Chisciotte. Ma siamo e restiamo eterni e infiniti. Semplicemente perché siamo mortali.


Se fossimo immortali staremmo ad aspettare il finito. Una contraddizione di archetipi nei quali si è perso e si è ritrovato Cesare Pavese di Leucò. Ma di contraddizioni è fatta l'armonica pazienza che lega l'attesa al mistero in quel tempio sciamanico nel quale vive l'errante e sempre all'ombra di un dio sconosciuto come ci dice Maria Zambrano. Ma le ombre del dio sciamanico hanno l'assurdo e l'abisso perché soltanto nell'assurdo e nell'abisso si possono congiungere i meridiani delle nostre esistenze che decidono il destino dell'uomo che vive la propria rivolta (Albert Camus) al centro dell'Istante che fissa il Tempo.

Perché senza rivolta l'errante sarebbe soltanto un viaggiatore o un pescatore di vento d'altura, ma è sempre altro perché la sua resta, comunque, una scelta di solitudine oltre lo stesso disordine del tempo. Io vivo lungo le nuvole di questa erranza nel vagabondare delle parole e se dovessi incontrare, in qualche luogo o in qualche spazio, l'indescrivibile destino, lungo le mie strade, non avrò timore e neppure noia di dialogare con lo sguardo dell'essenza. Gli chiederò soltanto perché porta questo nome e chi glielo ha destinato di chiamarsi, appunto, Destino.

Il don Juan di Carlos Castaneda dice: "Per me c'è solo il viaggio su strade che hanno un cuore, qualsiasi strada abbia un cuore. Là io viaggio, e l'unica sfida che valga è attraversarla in tutta la sua lunghezza. Là io viaggio guardando, guardando senza fiato".

Ed è qui che si scava, in questa anima – cuore, una geometria dell'errante che non può incontrare una geografia, o se dovesse talvolta incontrarla non avrà mai dei luoghi predefiniti da seguire, dalla cartina colorata dove ci sono indicazioni dei fiumi, dei mari, delle vie da percorrere, ma una antropologia dell'anima.

L'errante non ha bisogno di cartine geografiche. Di una geometria che porta nel cuore sì, perché è lì che si stabilisce l'essere del viaggio. L'indefinibile del viaggio. In ogni pensiero ci sono alchimie perché ogni vero pensiero è sempre un "vivere pericolosamente" (Friedrich Nietzsche) nell'errante senso di un sortilegio che ha il magico silenzio dell'ascoltare, senza ubbidire senza disubbidire.

L'errante porta con sé la pietra del sortilegio. Io avrò il suo silenzio e custodirò la luce della pietra del sortilegio. Qualcuno mi dirà, un giorno, che l'anima non ha bisogno di sbarre o di carceri (Santa Teresa D'Avila) perché è un volo di ruscello e quando la filosofia leggerà la sua metafisica avrà il cielo stellato della creazione e della fantasia e la pietra del sortilegio non avrà bisogno della ragione perché la Illuminazione saprà!