Il taccuino
di Barbara Cannetti
XII concorso laghese – III classificato
Nel mondo dei sentimenti, la paura
“Giacomo, oggi vado alla vecchia casa, pensi tu a portare e ad andare a prendere la bimba all’asilo?”, chiese Catia al marito.
“Certo ma non fare troppo tardi stasera” , le rispose Giacomo.
“Ok”, disse Catia. E dopo un bacio frettoloso a marito e figlia, partì.
Aveva tante cose da rivedere, rivalutare, salutare, prima che la casa in cui era cresciuta fosse venduta. Voleva ripercorrere il viale del suo passato attraverso i cunicoli scavati nella memoria delle cose e, proprio per questo saluto, si era presa due giorni di ferie. Sua madre, già da alcuni anni, aveva lasciato la casa per andare a vivere in un residence per anziani. Diceva che aveva troppo dolore alle gambe per continuare a star dietro ad una casa così grande ma Catia sapeva bene che il male di cui soffriva si chiamava solitudine. Ne soffriva da quando il marito se ne era andato di casa senza un saluto, una sera come tante, dei quindici anni di Catia. Lei lo aveva aspettato, come sempre, per un abbraccio di bentornato. Ma quella sera l’attesa si condensò in una cena raffreddata, in un’ansia che – ora dopo ora – si colorava di mille emozioni ed altrettanti interrogativi: la paura che gli fosse successo qualcosa, venne scacciata prepotentemente da una sensazione di abbandono, di perdita, di vuoto, di solitudine… Già da tempo Catia aveva scoperto che il matrimonio dei suoi genitori era un gesto riparatore. Solo sua madre, davanti all’altare, portava l’amore per il marito assieme ad una pancia ingrossata che faceva bella vista sotto l’abito bianco ed il lungo velo di pizzo antico. Catia, però, mai avrebbe pensato che suo padre sarebbe fuggito anche da lei. Rimase sola con sua madre in quella vecchia casa piena di ricordi e di domande irrisolte fino al giorno in cui sposò Giacomo.
E quando proprio tutti se ne furono andati, la bella casa dallo stile sobrio ed elegante, lasciata a se stessa, presto subì lo stesso senso d’abbandono che aveva provato lei da ragazza.
Catia pensava a tutto questo, mentre guidava in direzione nord; quando arrivò di fronte al vialetto d’accesso, notò che l’agenzia a cui si era rivolta, aveva già apposto il cartello con la scritta VENDESI.
“Non perdono certo tempo”, pensò Catia, sapendo che lei, invece, ci aveva messo anni a decidersi e che questo sentimentalismo si era trasformato in degrado che attaccava ogni cosa, a partire dall’inferriata arrugginita del cancello.
“È un peccato” – aveva detto l’impiegata dell’agenzia immobiliare – “se avesse deciso prima, avremmo potuto chiedere molti soldi in più”
Sono solo le rughe del tempo, si disse Catia posando lo sguardo ora sugli alberi che, a ridosso dei muri di cinta, erano cresciuti a dismisura, intrecciando i loro rami in una sorta di aggrovigliato abbraccio, ora sull’acciottolato scompaginato, ora sull’intonaco che si staccava in più punti come se, sotto di esso, il tempo facesse forza con una leva…
Anche ora, di fronte all’ingresso, Catia non riusciva a staccarsi dal passato: sapeva che quella di dover risistemare i documenti relativi alla proprietà e dare un’occhiata in giro per controllare che tutto fosse a posto, era solo una scusa per scavare, controllare, frugare. In realtà vi era ben poco di razionale in quel suo sopraluogo; si trattava piuttosto di un bisogno di rituffarsi, ancora una volta, in quegli anni duri ma, allo stesso tempo, così importanti prima che qualcuno, violando quel luogo, cancellasse la sua infanzia per sempre.
Catia, del resto, aveva sempre sentito l’urgenza di dare una motivazione al tempo della dimenticanza e dell’abbandono; proprio per questo decise, inconsciamente, di cominciare la sua ricerca dalla soffitta dove da sempre dormono le cose in disuso. Aprendo la porta dell’ingresso, le si spalancò un mondo fatto di mobili addormentati, nascosti sotto grandi teli ingialliti, impolverati, intaccati dalle ragnatele. Dopo aver attivato il contatore della luce, Catia si diresse decisa verso le scale. Divorò uno dopo l’altro i gradini di legno che, scricchiolando sotto il suo peso, la accompagnarono fino in cima, là dove si ricordava esserci una piccola porta laccata di bianco. La serratura, aggredita da una chiave estratta da un grande mazzo tintinnante, cigolò sui cardini arrugginiti. All’interno, il buio non era totale, come si era aspettata: una ribelle lama di luce filtrava dal mondo esterno fin dentro quello scrigno di passato, dove tutto appariva senza tempo, sospeso, statico. Solo un piccolo nido di rondini, entrate chissà da dove, ricordava la vita in quel posto. Catia, nel vederlo, sorrise, pensando a quegli inquilini abusivi che abitavano, chissà da quanto, la pace del sottotetto.
Dopo aver aperto gli stipiti e le lastre di vetro per permettere all’aria di entrare dal piccolo abbaino, Catia iniziò a guardarsi attorno. Dopo qualche ora di annoiate ricerche, in una cassapanca rosa dai tarli scovò un vecchio taccuino dalla nera copertina cerata e dai fogli a quadretti bordati di rosso, ricoperti da una fitta ed a tratti incerta calligrafia, dalle ampie lettere svolazzanti. Incuriosita, Catia iniziò a leggere. E subito, attraverso la geografia di quelle parole affidate ai fogli, si ritrovò scaraventata nel trapassato remoto, nel passato più recondito della sua infanzia… Aveva trovato il diario di nonna!
Catia accese la luce per vedere meglio e cominciò a leggere, curiosa di ritrovare in quelle parole l’affetto di nonna.
“Nel mondo che s’agita dentro di me, scopro enormi continenti che vagano alla deriva ed, a volte, si scontrano. Sono le paure che mi scuotono, squassano, sconquassano, come i colpi di tosse che nessun rimedio è riuscito a sopire. Ho così compreso che timore ed incertezze si mangiano tutto quel che è immenso, incommensurabile, infinito, lasciando solo quel che, semplicemente, galleggia, restando a galla come può, traballante come zattera senza vista di costa, inconsistente come papere di legno gettate nel fiume. E così diventa pesante perfino quel che è etereo come i torrenti d’aria che scompaginavano i miei capelli di ragazza, permettendo ad una piccola Perseide - tra di essi rimasta impigliata - di gettare l’ultima scintilla di luce sulla mia anima... Lo sanno tutti, ma sembra che nessuno voglia ammettere che la paura di soffrire diventa buio, morte prima del tempo, inconsistenza… So che il mio destino è segnato, ma vorrei avere la possibilità di parlare a Catia di tutto questo. Ma non posso. I suoi genitori non me lo permettono; preferiscono che non sappia, Ed io, ogni volta che la prendo in braccio mi domando se sia davvero troppo piccola e fragile per sapere… Non ho risposte certe, ma non posso rischiare di turbarla perché mia figlia non me lo perdonerebbe. A parole è facile affermare che la vita va vissuta bene, intensamente, profondamente e che non ha senso cercare di rimanere ad essa attaccati un giorno in più, un inutile giorno in più… Ed invece ho scoperto, sulla mia pelle, che la paura di morire diventa vero e proprio deterrente a questo modo di pensare così alto e nobile. Non penso si tratti di egoismo, perché non mi giudico un’egoista.. Semplicemente noto che lo sguardo di chi soffre o ha accanto a sé lo spettro del dolore, è in grado di spaventare chiunque e può giungere a scardinare qualsiasi certezza e gettare benzina su ogni insicurezza. Tutto ciò che è terreno, perciò, si ridimensiona, cambia forma o aspetto. L’essere umano ha paura e s’accorge così che, anche un solo, esile sospiro in più può permettere ad un’anima di redimersi, ad un cuore di aprirsi, ad una mano di sfiorare un volto… Mi piacerebbe vivere l’intensità dell’ultimo istante con la pace dell’anima e con la consapevolezza di aver vissuto bene ogni istante della vita. È sempre quello, infatti, il pensiero che mi domina: riuscire a calmare questo turbinio di incertezze per ritrovare la pace. Ma ho paura, anche se sono fortunata ad avere il tempo per lasciare eredità di me a chi mi circonda, prima che giunga l’attimo in cui s’annullano spazio e tempo, ieri ed oggi, prima che tutto si dissolva e la paura s’apra a nuova speranza. Presto me ne andrò… Unico vero rimpianto è quello di non avere il tempo per preparare a dovere Catia. Tutti sono pronti ma lei? Spero solo che i suoi genitori abbiano ragione e che nel loro rifiuto di dirle la verità si racchiuda un desiderio di protezione nei suoi confronti e non invece, come temo, la solita scelta di comodo. E spero che un giorno lei, anche se non saprà mai quali sono i miei sentimenti, mi perdonerà per non averla salutata come nel mio cuore già è avvenuto tante volte… perdonami piccola mia. Nonna ti adora…”
Catia non riuscì ad andare oltre; mentre leggeva, copiose e brucianti lacrime avevano iniziato a scendere lungo le guance, annebbiandole gli occhi. Ma era dentro al cuore che quelle parole avevano lasciato lunghi e profondi solchi.
All’improvviso, ricordò.
“Cosa succede a nonna?” chiedeva Catia, non capendo tutto il fermento che vedeva attorno a lei.
La nonna, quel giorno, si era messa a letto e non parlava più. Catia, dall’alto dei suoi quattro anni, non sapeva che pensare: vedeva l’andirivieni di gente che dava un’occhiata nella stanza di nonna Lucia, per poi uscire in silenzio, stropicciando un fazzoletto tra nervosismo di mani.
Nessuno si interessava a lei ed alle sue domande stupite e curiose.
“ Per favore Catia, stai tranquilla e non far rumore. Vai fuori a giocare per favore!” le diceva la mamma.
“Hai sentito la mamma? Vai” ripeteva il papà. Già quello era strano, pensava la bimba, perché di solito il suo papà non dava mai ragione a nessuno. Scossa da quello strano fermento, Catia si intrufolò nella stanza della nonna. Nessuno se ne accorse. Catia pensava fosse un gioco, quando vide la nonna distesa sul letto rifatto. S’accorse subito che non indossava la camicia da notte, ma quello che l’anziana donna chiamava ‘il vestito buono’, ossia l’abito che metteva solo la domenica per andare in chiesa. I capelli rinchiusi in una crocchia, spuntavano dal velo nero che aveva sul capo. Tra le mani giunte, incrociate sul petto, tratteneva il suo vecchio rosario, in una instabile presa. Nonna non si muoveva, non sorrideva, non sussurrava filastrocche, né sgranava preghiere. Sembrava addormentata, ma il viso tradiva una strana rigidità che non le apparteneva, sempre pronta come era a sorridere con la sua bocca sdentata. Attorno, una strana danza di ombre si disegnava per poi venire subito cancellata e ricostruita in nuove sagome dai giochi delle candele accese attorno al letto. I battenti chiusi, contribuivano a dare alla stanza un aspetto cupo.
“Nonna” – disse Catia titubante – “perché stai sul letto?”
Non ricevendo alcuna risposta, Catia s’avvicinò chiamandola di nuovo: ”nonna?”
Poi le scosse il braccio ma, sentendola fredda come il ghiaccio ed immobile tra tutte quelle forme che s’avvicinavano sempre più, strisciando minacciose lungo il muro, s’impaurì e scappò via. Non parlò a nessuno di quella visita, né disse nulla quando i suoi genitori le raccontarono che nonna aveva dovuto partire per un lungo viaggio e che non sapevano quando sarebbe tornata a casa. Da quel giorno, però, Catia, soffrì di terribili incubi. Si svegliava all’improvviso, impaurita, con il terrore dipinto negli occhi. Solo il tempo l’aiutò a dimenticare, stendendo veli di brumose giornate su quello strano, incomprensibile episodio e sulle bugie dei suoi genitori. Sapeva bene che nonna non era andata via da sola ma che qualcuno o qualcosa l’aveva costretta: mai, altrimenti, lei l’avrebbe lasciata così, senza un saluto, senza un ultimo abbraccio, come fece suo padre alcuni anni dopo.
Catia chiuse il diario che profumava ancora di borotalco e lavanda, proprio come l’abbraccio di nonna. Si rese conto che era molto tardi: il tramonto stava spegnendo il sole nell’orizzonte infuocato. Doveva affrettarsi perché, di lì a poco sarebbero rientrati suo marito con la piccola Lucia e non voleva che, arrivando, trovassero la casa immersa nel buio che avanzava a grandi passi, la stessa oscurità che allungava le ultime ombre sui muri e sui suoi ricordi. Chiuse le imposte, spense le luci, staccò il contatore, percorrendo a ritroso tutte le azioni che aveva compiuto al suo arrivo. Catia si sentiva strana, scossa; ma avvertiva che non si trattava della stessa sensazione di quando, da bambina, sentiva il peso della scomparsa senza saluti della nonna. O della solitudine provata da ragazza, quando il padre decise di lasciare una vita infelice, senza considerare che in tal modo rubava a lei la serenità, costringendola a fare di nuovo i conti con un abbandono imprevisto ed improvviso. Ora sapeva che la nonna l’aveva sempre pensata, che lei aveva rappresentato l’ultimo suo pensiero. Lungo la strada del ritorno, pensava a quel giorno. Era leggero il suo passo, con il vecchio quaderno tra le braccia ed una promessa nel cuore: mai avrebbe nascosto qualcosa alla sua bimba, perché spesso è proprio l’impossibilità di capire, piuttosto che la incapacità di reagire, a spalancare le porte ai demoni della paura…
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