Angelo Giubileo e Robert Von Sachsen Bellony, DELL’INIZIO DELLE COSE

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Angelo Giubileo e Robert Von Sachsen Bellony

Finis coronat opus. Il pensiero di Martin Heidegger giunge al termine di un’intera tradizione, risalente almeno alla cultura hindu, propria degli Arya indiani, in parte distinta da quella parsi e greca, così come precisato da Lokamanya B. G. Tilak nel suo Orione (Ecig, 1991).

Tilak si rifà all’antichità dei Veda e a una tradizione che, dal punto di vista letterario - e quindi filosofico (cfr. in proposito G. Colli, La nascita della filosofia, 1975) -, risale al sanscrito; lingua che è, in scia alle ricerche e analisi svolte in particolare da Franco Rendich nel suo L’origine delle lingue indoeuropee (Palombi, 2007), senz’altro “madre” sia del greco che del latino.

Tanto premesso, occorre allora innanzitutto precisare in che senso il pensiero di Heidegger giunge quale coronamento di un’opera d’investigazione letteraria (e quindi filosofica) risalente alla più antica lingua del sanscrito e quindi, in definitiva, al pensiero riportato nelle più antiche scritture dei Veda.

Risultato finale della ricerca e analisi heideggeriana è quell’unica forma del “dis-velamento dell’essere” che precede “l’oblio che proviene dall’essere stesso” (Sentieri interrotti, 1968). Tali formule espressive rinviano a un “pensiero iniziale” o anche a una forma di “rivelazione” che dis-vela la natura dell’essere che precede l’oblio dell’essere medesimo e cioè “l’oblio della differenza tra l’essere e l’ente” (Heidegger, op. cit.).

Ciò che in particolare il poeta Ovidio rappresenta come Metamorfosi dell’essere, attraverso una serie di termini e forme che inducono a una profonda riflessione sulla trasformazione di significato, sia linguistica che concettuale. Tale che ogni termine, legato indissolubilmente a una forma, sembra esattamente richiamare una dimensione del cambiamento e della fluidità, evocando l'immagine di un percorso sinuoso e complesso. Ma, in riferimento a quanto evidenziato qui nell’incipit attraverso Tilak, nient’affatto lineare!

Nei Veda, il pensiero dell’inizio è rappresentato quale dicotomia tra “essere” e “non-essere”, laddove tuttavia è impossibile che “il non-essere” sia, perché “né lo possiamo pensare né lo possiamo dire” (cfr. Parmenide, Sulla natura delle cose). E quindi: la contrapposizione dialettica esprime piuttosto, in vero, il nesso causale, e quindi temporale, in relazione a ciò che-precede.

Nell’alfabeto, ovvero il linguaggio della letteratura, ciò che generalmente precede è il suono vocalico della “a” a cui è legato il concetto di inizio. E tuttavia, nel linguaggio dei Veda, l’inizio è invece rappresentato dalla consonante “n (na)”, che, secondo Rendich, “non indica la negazione bensì la condizione o l’ambito in cui si svolge l’azione verbale” (Rendich, op. cit.), e quindi ciò che assolutamente precede. E cioè le Acque cosmiche che sono al principio della narrazione mitologica comune alle tre culture qui di riferimento hindu, parsi e greca. Na è dunque il simbolo fonetico dell’elemento “acqua” da cui tutto ha inizio.

Da na, in successione, na-ga e na-gna, con il significato rispettivamente di “serpente marino” e “nudo”. Così che la successione di termini come naga e nagna ci parla di movimenti che si intrecciano, simboli di come le identità e le esperienze si plasmano nel tempo. Laddove: il primo termine indica una forma o meglio una “condizione di pre-destinazione” ovvero una condizione o ambito che precede l’azione verbale. In estrema sintesi, termini aventi i seguenti significati: naga=predestinato a muoversi tortuosamente; nagna=che si muove tortuosamente.

La predestinazione di "naga" allude a un destino inevitabile e, nel contempo, ai cammini tortuosi che ogni individuo percorre alla ricerca di quell’“inizio che è ogni inizio che è”, e quindi all’acquisizione di ciò che in genere chiamiamo “consapevolezza”, o meglio ciò che rappresenta la forma della consapevolezza dell’essere (disvelamento) e, in qualche modo, la forma della consapevolezza di noi stessi quali enti limitati o soggetti a un limite (m).

Nella letteratura greca, la forma di predestinazione originaria - ovvero ciò che chiamiamo Necessità e alla cui legge soggiacciono anche gli dei (Ovidio, op. cit.) - prende il nome: Ana(g)ke.

Il presente termine (in latino verbum) associa forme e concetti quali a-na-naga/nagna-ka (in greco, declinato al femminile, ka diventa kη) e quindi rinvia anche a termini quali ka e agna-i. Ka con il significato anch’esso di acque ma successivamente anche di luce; agna con il significato, come già estrinsecato, di atto tortuoso compiuto dal soggetto, che s’identifica con Agni, il nome indoeuropeo del fuoco e del dio che lo personifica.

Fuoco e dio che, tuttavia, privi della n che precede (n-agna), vengono decontestualizzati dall’ambito al quale appartengono e dal quale essi stessi provengono, almeno secondo la tradizione originaria hindu: “Il Rg-Veda è molto chiaro e non lascia dubbi. Il bell’Agni, dio del fuoco, scoperto dagli dei nel mezzo delle Acque, di cui era figlio e dalle quali era amorevolmente circondato, in origine era il fulmine che nasce balenando tra le acque scroscianti” (F. Rendich, op. cit.).

In seguito, così decontestualizzato, il termine corrispondente greco che identifica l’azione verbale sarà agnoeo da agnoia=ignoranza o mancanza di conoscenza e il termine latino corrispondente sarà Agnus. Nelle culture greca e latina, e prima ancora hindu, appare così ciò che Heidegger definisce per l’appunto “l’oblio della differenza tra l’essere e l’ente”, e di cui abbiamo detto anticipatamente.  

La metamorfosi è un tema universale che tocca ogni aspetto della vita, dall'individuo alla società. Ogni cambiamento che affrontiamo, ogni nuovo apprendimento, ci porta a riconsiderare chi siamo. La tortuosità del cammino, come suggeriscono i termini qui usati, è vissuta spesso con difficoltà, ma è essa stessa una parte essenziale del nostro sviluppo.

In questo contesto, l'arte della metamorfosi diventa una danza continua tra il noto e l'ignoto. Una danza vitale, che ci rende consapevoli della necessità, destino, fato o essere che, direbbe ancora una volta Heidegger, “ci man-tiene”.