Qualche domanda sul futuro di Cdp
di laura morelli
Sulla nomina dei vertici di Cassa depositi e prestiti è ancora fumata nera, dopo oltre un mese dalle dimissioni del presidente Claudio Costamagna. E mentre la maggior parte degli osservatori è in attesa di capire quando e come la maggioranza di governo troverà una quadra sui nomi, ciò a cui dovremmo anche iniziare a pensare è quale sarà il futuro della Cassa.
Con il duo Costamagna ? Fabio Gallia (amministratore delegato), Cdp ha portato avanti operazioni con l'intento chiaro di riportare lo Stato in primo piano nel gioco della finanza italiana, cosa che ha creato non pochi mal di pancia fra gli operatori ?quelli privati ? del settore.
Ora il destino del braccio finanziario pubblico, che nel 2017 ha raccolto risorse per 340 miliardi dei quali 250 miliardi di risparmio postale, è incerto. La maggioranza Movimento 5 Stelle ? Lega, stando alle parole del vicepremier Luigi Di Maio, vuole farla diventare una vera investment bank, cioè un soggetto "capace di investire e fornire credito a tassi moderati alle aziende". Un'idea che ha visto subito lo stop del presidente dell'Acri Giuseppe Guzzetti, il numero uno delle fondazioni, azioniste di Cdp con il 15% circa del fondo.
Quale allora la direzione più giusta per il colosso pubblico-privato? Per rispondere occorre andare a monte e chiedersi con onestà : Oggi che cosa serve davvero al nostro Paese?
Serve una Cdp che sostituisca le banche e presti soldi alle piccole e medie imprese? Da un certo punto di vista sì, perché dal 2008 a oggi gli istituti di credito hanno chiuso i rubinetti lasciando le pmi senza risorse. Tuttavia, una Cdp che si fa carico di fornire denari alle imprese rischia di allontanare di nuovo le aziende italiane da quelle che sono le altre forme di finanziamento, come il mercato o il private capital.
Serve allora una Cdp che si faccia private equity e intervenga investendo in aziende private più o meno stabili? Si e no, perché se da un lato è vero che il compito della Cassa è investire, dall'altro non può farlo in aziende in difficoltà per statuto ma può (e dovrebbe) invece farlo in asset strategici per il Paese. Questo, tuttavia, sempre rispettando il libero mercato, cioè senza porsi in competizione con soggetti che inevitabilmente giocano un'altra partita, dalle banche ai private equity e private debt nostrani ed esteri.
A proposito di asset strategici per il Paese, il recente intervento in Tim è sembrato andare in questa direzione anche se questa operazione di fatto ha spostato gli equilibri azionari dell'azienda a favore di un hedge fund, Elliot, che per sua natura non agisce perseguendo logiche di interesse nazionale.
Detto questo essere strategico resta l'obiettivo e il ruolo che un fondo sovrano dovrebbe avere: intervenire per riempire dei vuoti e far andare avanti il Paese alimentando un ecosistema favorevole a un'economia sostenibile e inclusiva. Sono mete raggiungibili? Sì, ma solo se cominciamo a farci le giuste domande.
Serve del catch up?
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