*COSIMO DINO-GUIDA - Monica e Monique (NETtarget, 2016)
Il doppio è argomento affascinante, materia da manipolare per creare storie, per plasmare situazioni in cui tutto può essere ciò che non appare. Il tema dell'alter ego ha ispirato poeti, novellieri, registi e pittori.
Il 23 giugno 2003 la società americana Linden Lab, ha lanciato l'idea di Second life, un mondo virtuale, elettronico digitale in cui ogni soggetto può creare un avatar tridimensionale che può fare acquisti virtuali con il Linden Dollaro, partecipare ad attività, lezioni, mostre, scattare fotografie, scambiare beni con altri residenti di questo mondo virtuale. Così ognuno è libero di crearsi il perfetto alter ego, di proiettarsi in un mondo surreale in cui si può essere ciò che si vuole e che non si riesce ad essere nella vita reale.
L'alter ego virtuale è un po' come la religione, nasce da un bisogno, un disagio con se stessi, dal dolore di non riuscire, di non avere, di essere vuoto a perdere e di non poter bucare lo schermo del mondo reale con la propria personalità. L'ego non è sufficiente, occorre un supporto, un aiuto, occorre rendere se stessi come Dio, avere potere di fare, almeno nel mondo virtuale... L'essere umano è curiosamente complicato.
E, come si è detto, le possibilità di duplicazione dell'ego affascinano da sempre i narratori.
"Monica e Monique" di Cosimo Dino-Guida, fin dal titolo si rivela gioco sottile, in cui il nero diventa bianco che a sua volta è nero con sfumature di grigio, anche se ad un primo sguardo sembra immacolato e puro. La materia sfugge. L'uomo non è un monolite, come canta Battiato in "Scherzo in minore": "non è pietra di tungsteno e cambia spesso proprietà, uccide sempre a tradimento con veleno di invidie e di infedeltà". L'inconscio cela perversioni dunque, malattie dell'anima, mostri che la veglia reprime e che si aggirano nel buio. L'autore, in una sintesi ossimorica di opposti e identificazioni dipanantesi in due atti, rievoca l'antico simbolo del libro dei mutamenti per il quale in ogni bene ci sarebbe un po' di male e viceversa.
E le protagoniste di questa pièce alternano luce e oscurità a dimostrazione del fatto che ogni creatura umana è grigia, un impasto di buio e tenebre.
Lo stereotipo viene spezzato, l'etichetta buono-cattivo, è sovvertita, in nome di un'analisi più profonda, genuinamente eviscerativa dell'essere.
E in questo senso "Monica e Monique" può essere intesa con afflato destrutturalista, laddove destrutturalismo indica la demolizione del comune buon senso, dei bollini che la società impone ignorando la natura istintiva dell'uomo. Il super-ego ordina, l'uomo dovrebbe ubbidire, in modo che tutto possa essere regolamentato, catalogato, inquadrato in un preciso sistema di causa-effetto. Però il potere spesso ignora l'istinto, base ineliminabile nell'uomo e nella donna. L'istinto produce conseguenze, rimescolamenti della coscienza, emerge dalle tenebre dell'imposto per implosioni non sempre positive. La vera natura prima o poi viene fuori, eludendo i mascheramenti super-egotici, eludendo le convenienze, la sintesi meccanica e fredda della buona educazione borghese. Il termine "brava ragazza", comunemente usato dal benpensante medio con tendenza a scandalizzarsi, assume così una sfumatura d'ironia nella sua metamorfosi in oscenità perversa, in boccacesca sintesi un poco tragica perché fa riflettere su come va il mondo, un poco brillante perché l'ironia che la sorte offre fa sorridere anche se amaramente.
E se in "Monica e Monique" la prostituzione assume sfumature differenti nelle due protagoniste, riuscendo nell'una ad uccidere anima e onestà, mentre la sana coscienza dell'altra, resiste e si rafforza nel finale, l'autore riprende il tema nel racconto "Vico Lungo Gelso" che chiude il libro.
Qui il tema del meretricio è associato a quello della morte. Il linguaggio è semplice, ma denso. Il secco dialogo finale che chiarisce gli accadimenti con efficace sintesi, è come un colpo di frusta ben assestato sui fianchi del piacere che il protagonista avrebbe potuto provare.
E quel buio che l'autore cita più volte all'inizio del racconto, mentre il protagonista cammina verso il piacere, è come un'anticipazione tragica e fredda dell'oscurità che segna la fine.
Del resto l'associazione tra Eros e Thanatos nel loro dissidio cosmico, è antico, se già Empedocle ne disquisiva ampiamente trattando di Phìlia e Neikos, rispettivamente amore e distruzione.
Scrive Massimo Fagioli in "Istinto di morte e conoscenza": «l'istinto di morte costituisce la matrice dello sviluppo della vita psichica... Concettualizziamo cioè la creazione dell'immagine come fusione dell'istinto di morte con la libido...»1. La fantasia di sparizione concettualizza le possibilità libidiche dell'uomo. La tendenza al ritorno verso il buio, a chiudere gli occhi, sparire e far sparire si traduce nella rimembranza dell'oscurità uterina, quando l'unico contatto con il mondo è rappresentato dalle sensazioni tattili-libidiche. La morte è il ricreare il se stesso fetale con la realizzazione inconscia di libido-tatto-piacere, un regressus ad uterum in cui le matrici perinatali trovano compimento e giustificazione.
La prostituta, che fa commercio della propria carne, è in Vico Lungo Gelso l'agente tra morte e libido, tra piacere e annullamento del sé. Del resto nello stesso atto sessuale esiste il momento sintetico del confondersi, dell'annullarsi, come un obnubilamento di coscienza, un ipnotico perdersi per poi riaversi. In questo caso però arriva il dialogo cesura che avverte premurosamente il lettore, con realistica e tragica evidenza, sì, lo avverte che quel perdersi, quell'ipnosi è arrivata fino alle estreme conseguenze, fino alla distruzione totale degli atomi del corpo. Anche qui il termine "brava ragazza", assume un sapore lievemente umoristico, come una beffa nelle chiacchiere dei bene informati. Anche se incastonata in un contesto tragico, l'espressione sottolinea l'aleatorietà dei punti di vista, i balzelli della morale, che muta a seconda delle circostanze, delle persone e dei tempi.
Sicuramente un libro da leggere perché va oltre la parola scritta, esulando da banalità preconcette, luoghi comuni e déjà vu tipici di tanta produzione teatrale che più che creare nuova materia, manipola quella già esistente, cambiando magari i nomi dei personaggi, gli sfondi, ma ripetendo lo stesso cliché. Una storia originale, scorrevole, densa e sottile, da leggere tra le righe, scritta con accuratezza, con la precisa consapevolezza dei tempi scenici e delle giuste pause. (M. Blindflowers)
1M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, L'asino d'oro, 2010, Roma, pp. 136 e ss.