Lo stato della ricerca



Da: Angelo Giubileo 



I nostri più antichi progenitori, così come li chiama Aristotele, elaborarono un sistema "astronomico" fondato su una concezione del tempo circolare e definito, un sistema che corrispondesse esattamente alla struttura dell'universo inteso anch'esso come circolare e definito. Un sistema proprio della mente o più correttamente un sistema in base al quale le cose o gli enti continuano a mostrarsi e così apparire in genere ai sensi e alla mente degli appartenenti alla specie che chiamiamo homo sapiens.

Evidentemente, un sistema costruito già molto tempo prima, possiamo solo ipotizzare intorno al 5000 e.a. ma forse anche prima, che Parmenide e Democrito, intorno al VI-V secolo e.a., assumano invece, a base della loro diversa teoria scientifica o concezione artistica, non più la figura del tempo bensì dello spazio. E tuttavia, non si trattava affatto di una novità. Lo spazio come inteso dai presocratici era lo stesso spazio che aveva resistito alla mente dei nostri più antichi progenitori, e quindi al Demiurgo stesso, che, "entro i limiti del proprio potere", come saggiamente testimoniato nella ricerca degli storici della scienza e del mito Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, avevano costretto e tuttora costringono lo spazio a prendere forma.

In origine, quella di Vrtra, figura principale della cosmogonia vedica, immaginato prima del tempo come colui che avvolge in un'unica massa indistinta le cose che dalle tenebre verranno nel tempo alla luce. E pertanto, corretto sarebbe stato e sarebbe invece immaginare lo spazio viceversa come un "abisso senza fondo", l'apeiron cosiddetto da Anassimandro o il kaos cosiddetto da Esiodo, et similia. Da questo spazio è pertanto lecito o possibile attendersi la manifestazione di un eventum qualsiasi, così che accade e squarci continuamente lo schema del tempo circolare e definito. Un evento fondato sui postulati dell'ubicazione univoca e della concretezza fuori posto, postulati che, attraverso la sintesi così espressa da Whithead, costituiscono i fondamenti della fisica.

E tuttavia: se la ricerca della fisica classica ha proceduto almeno a far data dai presocratici mediante approssimazioni per così dire tendenti all'infinito, senza poter comunque escludere la possibilità di una soluzione o "prova" definitiva (cfr. E. Nagel-J. R. Newman, La prova di Godel), la fisica moderna addirittura esclude questa possibilità. Così che, nell'attualità, la teoria dei nostri più antichi progenitori ridiventi anche la nostra, fatta salva l'ipotesi che, oltre l'orizzonte stesso dell'homo sapiens, sia trovata una nuova sintesi capace di affrontare e risolvere il nodo dello spazio indeterminato, quello che, ripetono gli stessi storici, "Platone chiamava l'Indisciplinato e l'Irregolare" in quanto resiste sempre alla mente. E dunque, una sintesi in cui sia il tempo che lo spazio, a differenza di Newton, non siano più considerati assoluti; ma neanche relativi, alla stregua della teoria fisica concepita da Einstein, il quale finisce con l'approdare nuovamente alla teoria scientifica dei nostri più antichi progenitori.

Parafrasando Barthes, potremmo allora dire che allo stato sia piuttosto in atto il tentativo d'"istituire una Natura frammentaria che si rivela solo a blocchi La Natura vi diviene una discontinuità di oggetti solitari e terribili, perché i loro nessi sono virtuali" (in Il grado zero della scrittura, 1960). E aggiungono i nostri due storici: "Di più: sono arbitrari". E quindi, nessi virtuali e arbitrari; ma, in definitiva, aventi la stessa natura dei nessi elaborati dall'homo sapiens. Inoltre, proseguendo nel commento alla frase di Barthes, de Santillana e la von Dechend sottolineano anche che "dovrebbero essere, nelle intenzioni, della stessa natura dell'antico portentum" (o antico tesoro, di cui dice Aristotele nella Metaphysica: … mentre ogni arte e scienza è stata più volte sviluppata quanto più possibile, per poi perire ancora, queste opinioni, unitamente ad altre,sono state preservate fino a oggi come reliquie dell'antico tesoro). E quindi concludere: "L'unico significato che se ne può trarre è che sono congeniali alla mente che li ha creati. La mente ha abdicato, oppure si contrae in preda a un terrore apocalittico".

Ma, attualmente, non è più della nostra mente si fa per dire naturale di homo sapiens che discutiamo, bensì della possibilità di una nuova mente artificiale. Così che ci muoviamo all'interno del campo della scienza, avendo abbandonato quel campo artistico in cui, già nel 1969, "si parla di amorfismo o 'disintegrazione della forma', di 'trionfo dell'incoerenza' nella poesia concreta e nella musica contemporanea" (G. de Santillana-H. von Dechend, Il mulino di Amleto, ibidem). Attraverso il postmoderno, verso un futuro che si annuncia postumano.
Angelo Giubileo