Ferrara e la scrittura "aliena" : Andreotti e Traina

Scrivere a Ferrara

fonte Ferrara Italia


di GIANNI VENTURI



L'attività scrittoria ferrarese, come si sa, è imponente. Si scrive per mestiere, per vocazione, per svago e spesso la scrittura diventa un modo nuovo di riconoscersi, specie se si esercita un altro mestiere. È il caso del ministro della cultura Franceschini, dell'ex sindaco Sateriale, della nuova direttrice di Rai Tre, Daria Bignardi (e omen-nomen si noti la curiosa ripetizione del nome declinato in due generi Dario-Daria).
Qui non si parla di chi esercita questa attività come scelta di vita e di professione – come per esempio Roberto Pazzi – ma di chi la coltiva come 'secretum professionale', direbbe Pavese, che così titola la prima parte del suo Diario, o meglio 'vizio' in senso positivo, che alla fine esplode nella urgenza della pubblicazione. Queste note non nascono dunque per controllare la qualità – una volta si sarebbe detto estetica – delle pagine che vi proponiamo, ma per avvertire di una intensa vocazione alla scrittura di chi svolge altre professioni.
Tra i medici gli esempi sono abbastanza numerosi, ma chi persegue con costanza e perseveranza la narrativa è Gian Carlo Traina, già direttore di fama della Clinica Ortopedica ferrarese. La sua ultima raccolta di racconti si intitola "Sarebbe tre" (Liberty House 2015), alludendo al fatto che è la sua terza fatica letteraria, preceduta da "Brezze marine" del 2012 e "Pinete" nel 2013, sempre pubblicate da Liberty House. Le raccolte di Traina, accompagnate da disegni dello stesso autore, rivelano una nostalgia acuta e una fedeltà linguistica a quelle origini toscane a cui si fa continuamente riferimento nel lessico e nell'ambientazione: il territorio pisano, la Lucchesia, Viareggio e la Versilia, condite da un sale ironico graffiante che le rende ancor più gustose. Si legga la prima novella, "Salomè", dove la nota vicenda della danzatrice più famosa di ogni tempo si svolge in un contesto storico irrispettoso per i continui scivolamenti nel contemporaneo. Due viaggiatori in treno ricordano la vicenda di Salomè, quella che… "il prete, a noi bimbetti, a domanda non rispondeva mai". L'uso del vernacolo punteggia una storia trasferita nel racconto in una contemporaneità 'bassa', da discorso del bar Sport: "Salomè, che ormai s'è capito che era parecchio disinvolta, girò, guardò, chiese e insegnò a ballare danza moderna a tutte quelle, serve o schiave, che le giravano intorno, così si fece parecchie amiche e qualche amico, ma più in là non si andava". Tra un re Erode fumato, un'Erodiade scaltra e una Salomè un po' tonta, che alla fine – dopo che Giovanni le si rifiuta e si avvia a morte certa – sposerà un modesto centurione. Ma il treno è arrivato: "Vieni c'è da scendere, siamo arrivati a Lucca."
Tra la mediazione di fatti di cronaca nera e la struggente bellezza di un paesaggio e di una lingua che sembra a ogni momento farsi parodia si snodano fatti di ordinaria follia: eredità contese, furti, parodie di leggende come quella indubbiamente indotta dalla storia di San Giorgio e il drago, pedinamenti e telefonate. Sembra quasi che l'ossessione linguistica di Traina comporti, a volte, una specie di compiacimento della koiné linguistica, quasi a misurare la qualità di una lingua amata e rispettata con la volgarità dei temi e la banalità di un mondo piccolo che vive d'espedienti e di truffe.
Altro discorso per il volume di Angelo Andreotti, coltissimo direttore dei Musei d'arte antica e storico-scientifici della città. Andreotti proviene da studi umanistici e la poesia non sarebbe un 'vizio', ma il suo mestiere, mentre l'attività di direttore di musei ne è la conseguenza. Insomma, la condizione rovesciata rispetto a quella di Traina. I suoi libri di poesia (la prova più matura è il suo ultimo "A tempo e luogo", Manni 2016) insistono sullo sguardo che costruisce il tempo. La sua raccolta di racconti s'intitola appunto "Il guardante e il guardato" (Booksalad , 2015). Sono le cose o gli altri che guardano e costruiscono la personalità del guardante o il movimento è al contrario? Il primo racconto, che l'autore afferma essere l'unico con radici autobiografiche, "Pudore", situa l'azione in una clinica o in un ospedale. Sul letto giace in stato d'incoscienza una persona. Lo sguardo del visitatore si posa con insistenza sull'arredamento per poi fissarsi sul viso immobile del malato. Ogni paragrafo sancisce l'identità esteriore del visitatore: un 'Lui' che entra nella stanza, una 'Lei' l'infermiera che esce. Poi gli oggetti: 'Sulla sponda del letto'; 'Sul comodino'. Si costruisce in questa minuta attenzione ai particolari esteriori una perdita della vista esteriore, che si trasferisce e si trasforma in vista interiore. Poi lo sguardo si posa sul volto. Un paragrafo straordinario sancisce l'inversione della vista:
"Ma se questo è il tempo del dolore, non è ancora il tempo della sofferenza, quella che poi lo sveglierà di notte, con lo sguardo fisso nel buio a trattenere il respiro che non rubi l'aria a quel ricordo, che non lo smuova, che non lo soffi via."
E di fronte a quel viso immobile si racconta il senso della vita: "La vita è scandalo. Pensa". Così il racconto procede con un attentissimo uso degli incipit, che insistono tutti sulla disposizione di vocali e consonanti. Due volte appaiono i miti e le possibilità del dire: le parole. "Le parole scandiscono il tempo del tempo, ne afferrano gli istanti e li vestono di significati. Si fanno ascoltare da chi le argina tra un attimo e un altro, nella pausa di un silenzio."
Non sono moltissimi gli autori oggi che sanno così sapientemente mettere in gioco il senso del narrare e l'uso delle parole: attraverso lo sguardo di chi è guardato e di chi guarda. Altre sorprese ci riserva questo non facile libro che ci costringe a pensare. Tra le suggestioni di una visività improntata agli studi di storia dell'arte e a tagli dei racconti che rammentano la lunga consuetudine di Andreotti con le tecniche del cinema. Un libro colto, ma se si affronta con serietà e consapevolezza (anche aiutati dalla buona Prefazione di Flavio Ermini) ci saprà stupire.
Ormai sembra che la nostra città del silenzio parli, s'interroghi, sfondi la quieta protezione delle mura per comprendere e comprendersi. A volte quasi ossessivamente. Non passa giorno che almeno due o tre 'eventi' riempiano le sale dei luoghi deputati alle conferenze e alla presentazione dei libri. Non parliamo poi degli echi straordinari attraverso i quali le mostre, specie quest'ultima dechirichiana, tentano di agganciare la contemporaneità e le sue difficili pieghe.
Eppure ancora un passo andrebbe fatto in questa costruzione di uno sfondo culturale permanente e solido. Quello che permettesse di mettere da parte, una volta per tutte, il segno distintivo di una città che molto spesso confonde ferraresità con rancorosità e sospetto.
E non è un passo facile. Specie nella cultura. Benvenuti dunque gli scrittori 'alieni'!


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