“Italiam Quaero Patriam” così parla Enea alla madre Venere che gli si presenta, sotto mentite spoglie e gli chiede chi sia, poco dopo che è approdato sulle coste dell’Africa. Fra breve l’eroe troiano incontrerà Didone e fra i due nascerà un rapporto che avrà il suo tragico epilogo nel IV libro dell’Eneide. S’è detto e si dice spesso che Enea sarebbe un eroe freddo, senza sentimenti, ma il fluire delle passioni caratterizza l’essere umano, l’eroe è colui che tende al più che umano, quindi superare i sentimenti, le passioni è un tratto fondamentale dell’eroe, ma questa forse è una di quelle verità, talmente splendenti, nella loro ovvietà, che al suo cospetto tendiamo a chiudere gli occhi e rimanere così nell' umano. Nel IV libro Enea, allorchè deve rispondere alle accuse rivoltegli dalla regina cartaginese, che ha capito che sarà abbandonata, prima di iniziare a parlare: “obnoxius curam sub corde premebat” (a stento costringeva il dolore sotto il cuore), dunque non è privo di sentimenti, ma li costringe “al di sotto del cuore” e quando parla afferma:
se potessi a mio modo ricomporre gli affanni
a Troia, prima di tutto, le dolci reliquie dei miei
avrei accolto, in piedi sarebbe il palazzo di Priam
Pergamo, due volte per terra l’avrei rifatta per i vinti.
Dopo avere costretto al di sotto del cuore il dolore per la regina che disperata lo accusa, Enea mostra tutta la sua nostalgia per la patria perduta: Troia. Vediamo dunque posti sullo stesso piano, sia i sentimenti che l’eroe prova per la regina cartaginese, sia la nostalgia per la patria: sentimenti “romantici” da “chiaro di luna” che Enea reprime. E’ vero l’eroe cerca una patria, ma questa patria è l’Italia, che è la terra d’origine della stirpe troiana, perché da lì partì Dardano, una patria talmente remota della quale neppure il vecchio Anchise aveva memoria, egli infatti credeva che la terra madre fosse Creta. L’Italia è Ur patria, perciò, non si guarda verso di essa volgendosi all’indietro, come a qualcosa di irrimediabilmente perduto, come Troia, ma si ambisce ad essa, si trova, cioè, in quel punto di incontro fra passato e futuro, che è il mito: l’annullamento del tempo nel suo fluire storico. Un atteggiamento storicista di tipo positivo o meglio positivista incatena l’uomo a una serie di avvenimenti susseguentisi, verso un futuro indistinto, rettorico.
Non troppo diverso è l’atteggiamento di tipo nostalgico, che incatena l’uomo alla visione di un passato aureo, irrimediabilmente perduto, legandolo così ad una catena di avvenimenti, che si susseguono verso un futuro, che certo sarà peggiore del presente e quindi ancora peggio di quel passato al quale guarda con tanta nostalgia. In entrambi i casi è un homo, non un vir, è una creatura prigioniera.
Enea è pius cioè fedele al legame di sangue con gli antenati e i posteri (ius sanguinis, sempre lui!) e fedele al volere divino, egli mantiene un canale aperto con questa dimensione sovraumana ed è proprio grazie al suo intuitus in essa, che guarda, vedendo, oltre l’umano, oltre i sentimenti, sia per la regina, si di mera nostalgia per la patria perduta: “Ille Iovis monitis immota tenebat lumina” (Egli teneva gli occhi fissi nelle parole di Giove). Enea combatte una grande guerra contro se stesso, contro la sua dimensione di homo e solo quando vince questa guerra, cioè proprio nel momento in cui lascia Cartagine è pronto per vincere la piccola guerra con i nemici esterni, cioè quelli che troverà sul suolo italico.
Filippo Venturini