Da: Angelo Giubileo
Da Parmenide all'altra specie
Ieri un mio amico mi ha chiesto quale sia la ragione per la quale da parmenideo abbia fatto la scelta di aderire alla prospettiva attuale del pensiero transumanista. E allora, dato che questo mio amico non è stato il primo a rivolgermi lo stesso interrogativo, è forse il caso di dare qui la mia spiegazione.
Secondo l'interpretazione dell'Essere (con la E maiuscola) in Parmenide che condivido, per gli "uomini", che rivolgendosi a se stessi si chiamano in tal modo e in qualche modo così (?) s'identificano, non esiste e non può esistere una "verità", quale che sia, così come normalmente l'intendiamo e cioè nel senso che un fatto oltre che vero sia anche certo. Se la verità non è certa, potremmo anche dirla tale ma il senso del termine dovrebbe essere inteso in modo siffatto.
Nella Scienza Nuova Giambattista Vico assume quale principio dell'intera scienza conoscitiva la convertibilità tra verità e fatto, così che verum et factum est. Ma, così inteso: che un fatto, di per sé vero, sia anche certo. La stessa logica che è sottintesa a ciò che, in ambito religioso, chiamiamo "rivelazione".
Ma: gli Antichi avevano già risolto questa questione e una volta per tutte. Nel corpus vedico, Prajapati, detto anche Ka, è "l'in-certo", "il signore di tutte le cose", "colui che neppure sa se egli stesso esiste"; così come nel corpo della tradizione occidentale, fino all'era dei pre-socratici, l'eterna (aggettivo inerente alla dimensione del tempo che necessariamente scorre) consapevolezza è "sapere di non sapere" ovvero l'impossibilità per ciascun uomo, in quanto tale, di possedere o pervenire a un giudizio certo su un "ente" (greco) o "cosa" (latina) quale che sia. La dottrina cosiddetta "dell'epochè" o "sospensione del giudizio" importa una visione scettica sia dell'"intero" essere (o natura) sia di ciascuna "parte" di esso.
Altro che Scienza Nuova, Einstein dirà infatti che se un fatto si considera certo non si discute di un fatto fisico e se si discute di un fatto fisico non è possibile che sia certo. E dunque, per quanto concerne il discorso della verità, essa non è e non può essere certa; il discorso delle verità, quale che sia, concerne ciò che gli uomini chiamano "metafisica" assumendo quale principio o inizio del discorso ciò che è un postulato o un assioma: a esempio, Dio (con la D maiuscola) esiste, e da questo postulato o assioma o direbbe Aristotele premessa maggiore argomentare in modo logico, dal particolare al generale (metodo induttivo) o dal generale al particolare (metodo deduttivo).
Ma: gli Antichi sapevano già che tale modo di argomentare, e quindi un metodo o tecnica, fosse per l'appunto comune alla matematica, nel cui ambito il principio assume piuttosto il nome di assioma, così che si diceva e si dice ancora che la matematica sia il linguaggio degli dei. Occorrerà però attendere gli inizi del secolo scorso affinchè il matematico austriaco Kurt Godel formalizzi in via definitiva i Teoremi dell'indecidibilità, e cioè: se coerente, la teoria formale dell'aritmetica non è capace di elaborare una proposizione decidibile; e inoltre la stessa teoria non può dimostrare con i propri mezzi la sua coerenza Ma, tutto questo, gli Antichi l'avevano già compreso in un modo o forma diversi.
E allora, se non è possibile che un discorso su un ente o una cosa sia certo, cosa resterebbe da fare? L'accusa maggiore che Colote e gli epicureisti rivolsero alla dottrina dell'epochè era che lo scetticismo porti l'uomo all'aprassia. Altrimenti potremmo dire all'inazione o anche all'indifferenza verso gli enti o le cose medesime e in fine al suicidio o annullamento di se stesso. E invece, in particolare nell'adversus Colotem, Plutarco - dando ragione a Parmenide, che egli dice essere stato il primo a illustrare la teoria in modo compiuto - respinge l'accusa in maniera valida ed efficace sostenendo che sia ciò che egli stesso chiama l'"impulso" e poi la "rappresentazione" a determinare l'azione di ogni uomo. Non occorre assolutamente che l'uomo abbia la certezza a priori di un "giudizio", è l'"impulso" (naturale) che spinge ogni uomo all'azione e ad agire anche secondo la "rappresentazione" delle cose di cui in qualche modo ha forma.
Potremmo anche dire una sorta di "istinto", che noi chiamiamo "naturale" distinguendolo da un quid diverso che chiamiamo "artificiale". Ma, cos'è questo "istinto"? O meglio, come possiamo rappresentarlo? In ogni caso, sarebbe qualcosa che ha orientato e orienta la specie "umana". Ma, se così, possiamo anche dire che sia qualcosa in più di un "de-stino" per se stesso, ovvero uno stare dell'essere e l'essere di uno stare medesimo? Ovvero: un destino dell'essere (con la e minuscola), che sappiamo in trasformazione, ed è esattamente ciò che chiamiamo "tempo" ovvero nient'altro che l'essere delle cose in perenne trasformazione? O anche un destino in qualche modo definito e quindi un destino di cui possiamo farci giudici, di cui possiamo dare un giudizio o esprimere in qualche modo una certezza?
Direi, per parte mia, che coerenza vorrebbe che limitassimo il discorso a una mera ipotesi di trasformazione della cosa che rappresentiamo e che qui nel caso di specie diciamo "umano" in un essere "trans-umano". Ma, ritengo, sarebbe in qualche modo arbitrario dedurre qualcosa di più. Sarebbe, direi, pretenzioso, più o meno ragionevole ma sarebbe comunque una pretesa in qualche modo arbitraria trasformare un principio "formale" e generico, la trasformazione delle cose, il tempo che scorre, il divenire dell'essere, in un presente o futuro "sostanziale" pieno di contenuto. La cosa "in potenza" non è cosa diversa dalla cosa "in atto", è invece la medesima cosa in trasformazione.
Il mio amico Riccardo Campa scrive, e qui ritengo di citarlo a proposito, che "l'istinto naturale dell'uomo è quello della ricerca di maggiore potenza e, dunque, è fondamentalmente un istinto di autosuperamento o autotravalicamento". Egli nello stesso saggio premette anche che "l'evoluzione ha ombre e luci, questo è davanti ai nostri occhi, si tratta ora di scegliere tra le tenebre dell'involuzione incosciente e la luce dell'evoluzione cosciente. Si tratta di volere e favorire una continua espansione di questa luce" (La specie artificiale, 2013).
Caro Riccardo, la tesi non mi convince da parmenideo non potrebbe essere altrimenti. Anche il tuo linguaggio mi riporta immediatamente e ancora una volta a Parmenide e in particolare al passo in cui egli afferma, attraverso la traduzione di Guido Cerri, che dato che tutte le cose si chiamano tenebra e luce, ciascuna secondo efficacia di queste sull'una o sull'altra, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, entrambe alla pari, nulla pertiene né all'una né all'altra. Ovvero: gli uomini chiamano tutte le cose tenebra e luce nel senso che al frammento precedente l'Eleate aveva già specificato che gli uomini posero (e pongono) duplice forma a dar nome alle loro impressioni, ma si tratta essenzialmente di impressioni – ciò, di cui aveva già precisato, è ciò che sembra agli uomini privo di vera certezza – a cui gli uomini danno per l'appunto un nome con cui si rappresentano la duplice forma (luce e tenebre), ma tutto (ogni cosa), è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. E infatti: d'una non c'era bisogno, in questo (gli uomini) si sono ingannati, l'una dall'altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in sé del tutto omogeneo, altro rispetto all'altro; anch'esso però in se stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante.
Sia chiaro allora una volta per tutte, Parmenide distingue la natura della mente intellegibile - che conduce alla visione dell'Essere senza nascita e senza morte, tutto intero, unigenito, immobile, ed incompiuto mai è stato o sarà, perch'è tutt'insieme adesso, uno, continuo - dalla natura dei sensi che viceversa separa lo spazio dell'essere e genera la diversità. L'intero e la parte, così che lo stesso nome di Dio è attribuito in forma di parte all'altro che non chiamiamo Dio. Ragione per cui lo stesso Plutarco dice saggiamente che non è possibile dire nulla dell'intero perché si tratta sempre del parere (e non di un giudizio) di una parte in contatto con le altre parti. Di parti necessariamente in contatto tra loro. E dunque: Parmenide non rinnega nessuna delle due nature, ritenendole entrambe necessarie.
Nel tempo storico attuale sopraggiunge però la teoria di un'altra "natura", che in genere chiamiamo "artificiale". E dunque, ritornando al virgolettato di Riccardo, direi piuttosto che l'istinto per così dire "naturale" dell'uomo sia rappresentato da un consumo di energia, dai movimenti cosiddetti involontari come la respirazione e il battito cardiaco, allo sfruttamento e quindi organizzazione dell'energia cosmica in modi e forme diverse ovvero mediante scienza e tecniche d'uso, d'accordo stavolta con Riccardo che sia un errore chiamare "artificiale" ciò che viceversa è "naturale". Alla maniera di Parmenide, ogni cosa è infatti piena ugualmente di luce e tenebra. Egli è ancora una volta coerente quando dice che si tratta di forme a dar nome alle nostre impressioni; e d'una non c'era affatto bisogno. E quindi: cosa sarebbe artificiale? Nient'altro di ciò che è "naturale" e che a me sembra un destino attuale dell'uomo, incerto e non definito.
Dalla popolazione dei Catlo 'ltq della Columbia Britannica ci giunge una più antica storia in forma di mito, che Giorgio de Santillana e Herta von Dechend hanno riportato nella loro opera monumentale, che è Il mulino di Amleto. A essa vi rimando, aggiungendo per parte mia il parere che – oltre a quanto dicono gli autori che trattasi di "un'enciclopedia tascabile del mito" – alla rappresentazione dell'essere ivi descritta non sia possibile a ciò che è umano dire altro …
Angelo Giubileo