Nel suo discorso, Parmenide salvaguarda una duplice apparenza degli enti o cose (cfr. G. de Santillana in particolare in Fato antico e fato moderno). Secondo la mente, e quindi il discorso dell'intelletto, l'essere è e non può non essere; e invece, secondo i sensi, e quindi il discorso delle opinioni, l'essere è illusorio.
L'analisi del divino - secondo i più antichi progenitori (così li chiama Aristotele nella Metafisica) - riguarda "ciò da cui" ovvero il mistero o meglio l'ignoto che racchiude interamente la materia o natura, così come anche noi stessi oggi l'intendiamo. E quindi, in definitiva, la fisica quale dimensione dell'essere che appare (alla mente e ai sensi) nel tempo. E infatti, il detto originario di Anassimandro dice: Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo. All'uopo, Platone userà l'espressione "immagine mobile dell'eternità", tuttavia non priva di fraintendimenti.
Infatti, il termine immagine - in qualche modo privo della sostanza aristotelica ma non della forma - consentiva che il discorso sull'essere accusasse un cedimento sul piano strettamente linguistico, generando da parte della tradizione successiva di filosofi un vero e proprio tradimento del pensiero originario o iniziale - come lo definisce Heidegger - di Parmenide.
Purtuttavia, su un punto dell'intera questione, Plutarco è estremamente chiaro: "Aristotele sovvertì completamente le idee, a causa delle quali Platone è rimproverato anche da Colote, per quanto (Aristotele) era determinato ad abbattere la filosofia di Platone" (in adversus Colotem). E, sul punto, in definitiva: "Dunque, il discorso (di Parmenide) sull'essere che afferma che esso è uno non elimina la molteplicità e le sensazioni, bensì mostra la differenza tra queste ultime e l'intellegibile. Platone, mostrando ciò ancor più chiaramente nella sua teoria delle idee, ha egli stesso concesso (tuttavia) a Colote la possibilità di essere confutato" (ibidem).
Alcun cedimento nella struttura linguistica appartiene invece al discorso di Parmenide. Dicendo che l'essere è e non è possibile che non sia e che il non essere (a differenza del non essere l'ente, come diremo poi) non è e non è possibile che sia né è possibile pensarlo (!), Parmenide non attribuisce al termine "è", di cui al Frammento 7/8 vv. 6, 7 primo capoverso, alcuna valenza qualitativa, escludendo anche la qualità dell'esistenza. Se così non fosse, avrebbe altrimenti ragione Severino e tutti gli altri filosofi allorché acconsentono alla tesi del parricidio di Parmenide a opera di Platone.
Ma, così non è. In quanto, come scrive ancora Plutarco, "Platone invece riteneva che il non essere differiva mirabilmente dal non essere l'ente: con il primo infatti si aboliscono tutte le essenze, mentre con il secondo si mostra quell'alterità tra il partecipato e il partecipante, che i filosofi successivi posero unicamente sotto la differenza tra genere e specie e tra qualità comuni e qualità proprie, senza progredire ad un livello superiore ed inciampando, così, in aporie logiche più grandi" (ibidem).
E pertanto, il "non essere" di Parmenide e di Platone non è il "nulla" di Severino e dell'erronea tradizione, dato che - continua Plutarco - "lo stesso è accaduto ai filosofi più recenti: essi hanno privato del nome di ente molte e importanti realtà, tra le quali il vuoto, il tempo, il luogo e tutto il genere dei significati nel quale risiede la verità intera: Essi infatti dicono che queste realtà non sono enti e pur tuttavia sono qualcosa, e continuano a utilizzarle nella vita e nel filosofeggiare come se esistessero e fossero reali (…) 'Ma questa differenza di essenza si trova nei fatti; più saggio di Platone è dunque Epicuro, in quanto chiama enti tutte le cose allo stesso modo (…) Ma se Platone è massimamente in errore a tal riguardo, egli doveva presentare un rendiconto a coloro che in greco si esprimono con maggiore precisione e nei discorsi con maggiore purezza per aver creato scompiglio nelle parole, ma non per aver abolito la realtà o per averci portato via la causa del vivere, quando ha denominato le cose divenute cose divenute e non, come invece fanno costoro, cose che sono'" (ibidem).
Nell'universo dell'apparire dell'essere, l'essere è ciò che necessariamente appare; ma non ne è provata (alla maniera del matematico austriaco Godel e dei suoi teoremi d'incompletezza) l'esistenza; laddove invece è mostrata l'alterità (essere altro da) con la forma della non-esistenza. E dunque, riprendendo l'espressione di Platone dell'"immagine mobile dell'eternità", è nel divenire (secondo l'ordine del tempo) che la qualità dell'immagine diviene in base alle diverse sensazioni. A differenza dell'intelletto, che ha facoltà di comprendere e quindi comprende che l'essere "è", assumendo maggiori indizi - aggiunge Parmenide - che sia piuttosto uno, immobile ed eterno al tempo stesso (Parmenide, Frammento 7/8, vv. 7-16). Non a caso, infatti, G. de Santillana e H. von Dechend riportano ne Il mulino di Amleto l'opinione di Platone che Parmenide avesse finito con il congelare la realtà.
In conclusione, a noi pare così che il discorso di Parmenide mostri una coerenza che manca a ogni altro discorso, e tutti necessariamente inscritti nella logica del tempo; così che il discorso di Parmenide non si apra ad altro spazio che non sia lo stesso spazio - da Esiodo denominato nella Teogonia "Kaos", primigenio ed eterno - in cui l'essere in qualche modo diviene necessariamente secondo l'ordine del tempo.
Nell'attualità del tempo storico presente, il discorso di Parmenide (e del mancato parricidio) si apre invece alla virtualità, al fine piuttosto di poterne valutare l'impatto, e in particolare quanto alla formazione e allo sviluppo di una dimora (o ambito, nel senso ancora heideggeriano del termine) e di una mente artificiale. (Angelo Giubileo)