Una lunga pausa per cantare sotto il sole con la mente aperta, liberata dai pensieri. Eh sì, ammetto che la cicala che è in me ha preso il sopravvento per un po’, ma può bastare. È tempo per le cicaliche suburbane di riassettare la tana, riordinare le idee e raccogliere le forze, che l’inverno sarà lungo, freddo e buio. E le cose da fare e raccontare sono tante, per chi ancora crede che la cultura sia il più alto potenziale inutilizzato del nostro Paese. E, per fortuna, ogni tanto si trova conforto in persone non così diverse da noi, capaci di pensare in grande. Proprio oggi, mentre rimuginavo sui contenuti di questo post mi sono imbattuta in uno di quei pensieri esaltanti, di quelli che poi ho dovuto accendere il computer per raccontarlo. State a sentire se vi va.
Francesca è nata a Torino nel 1983, ci siamo conosciute a Roma, all’università. Una cicalica in piena regola, mai ferma, a saltare da una città all’altra, a fare i mestieri più strani, come imparare le tecniche di rivestimento delle suppellettili degli yacht, mentre si studiava per l’esame di storia della critica d’arte. Sempre in prima linea nell’organizzare cene tra amici e a confezionare regali improbabili con stracci acquistati ai Magazzini allo Statuto di Piazza Vittorio. Una tipa sveglia e brillante, cui bastava una notte sui libri per passare con 30 anche con il prof più esigente. Bella, sì, con quella chioma bionda e gli occhioni blu sempre spalancati, ma anche buffa e caciarona. Di quelle persone che pur lontane per anni le senti presenti quando hai bisogno di cullarti in un ricordo. Dopo l’università, un breve periodo ad Anversa, il rientro a Torino e l’incapacità di fermarsi. Francesca si trasferisce oltreoceano, trova casa a New York, insieme a un lavoro come corrispondente per il Sole 24 Ore. Un bel cambio di rotta, passare dallo studio dell’arte contemporanea allo scrivere di economia e politica. Ma forse no.
Francesca continua a immergersi nelle correnti artistiche, un giorno leggo con orgoglio una sua intervista a una curatrice del MoMA e, poco tempo dopo, la rivedo a Roma dove mi racconta che, appena può, prende una pausa dalla Big Apple per visitare altre città e altri stati americani. Mi ricordo il racconto di Detroit, “la città più incredibile che io abbia mai visto. Dove puoi solo spostarti in macchina tra un grattacielo e l’altro e mancano luoghi di incontro come le nostre piazze…”.
Come capita inevitabilmente, passano mesi in cui ci si perde di vista finché, oggi, non mi imbatto per caso in un post di facebook che la riguarda. Clicco sul link e finisco su una piattaforma di crowdfunding sulla quale la mia amica coraggiosa ha inserito una propria idea, con l’obiettivo di trovare dei sostenitori che la finanzino.
La ragazza sabauda, che una volta mi ha salutata sfrecciando lungo Corso Francia a bordo di una Fiat 500 nuova e già ammaccata, è rimasta così colpita dalla città di Detroit, il cuore dell’industria americana dell’automobile e della musica elettronica, che, quando ne è stato dichiarato il fallimento, poche settimane fa, ha iniziato a chiedersi cosa poteva fare per contribuire alla salvezza della città e di ciò che essa rappresenta per gli Stati Uniti.....C