Ferrara, Maratttin ricorda l'intellettuale libero G. Inzerillo


Nuova Ferrara di LUIGI MARATTIN*
La prima volta che ho sentito il nome di Giuseppe Inzerillo





avevo 15 anni, ed ero con un centinaio di studenti in manifestazione sotto le finestre del Provveditorato agli Studi, in Via Madama. Tutti urlavano il suo nome, contestandolo; mi avevano detto che era il simbolo della conservazione scolastica, e allora iniziai anch'io a urlargli contro. Non mi pento di quelle cose. Se a 15 anni non lasci sfogare - anche in modo irrazionale - quella fiamma di impegno civile che ti senti dentro, poi più tardi non avrai neanche quella maturità necessaria per comprendere, tra le altre cose, qualche sciocchezza che urlavi. Quella mattina accettò di incontrare una delegazione di studenti. Salii anch'io, e lo vidi per la prima volta. Mi colpii quell'espressione che aveva perennemente dipinta sul viso: a metà tra il divertito, l'ironico e il furbo, quell'espressione che solo i siciliani sanno avere. Ci fece parlare, e ci ascoltò dall'inizio alla fine. Ma ciò non impedì di identificarlo col "nemico" di cui avevamo ed avevo tanto bisogno. Quella mattina mi iscrissi al sindacato studentesco, e cominciai il mio percorso di impegno; col passare degli anni, ebbi sempre maggiori occasioni di confrontarmi con lui. Prima da coordinatore del sindacato studentesco, poi da rappresentante d'istituto del liceo Roiti e infine da Presidente della Consulta Studentesca Provinciale, le occasioni di incontro erano molto frequenti. Ci conoscemmo a fondo. Litigavamo spesso. Nel suo ufficio spesso perdevo la pazienza, e lo accusavo di tutti i ritardi che la scuola italiana aveva in quegli anni. Lui mi guardava, e rispondeva sempre con calma, e sempre prendendola alla larga, in quel modo in cui solo i siciliani sanno parlare. Col passare del tempo però il mio "nemico" mi incuriosiva sempre di più.
Mi incuriosiva quell'intellettuale dalla cultura enciclopedica che da giovane socialista rivoluzionario si divertiva ora a passare per un vecchio conservatore. Con me si definiva sempre un "passatista rivoluzionario". Lo invitai a parlare ad un'assemblea di istituto del Roiti, attirandomi gli strali di alcuni insegnanti perennemente in lotta (che tanti danni hanno fatto alla scuola e al Paese) che mi dicevano che il movimento studentesco non poteva confrontarsi col nemico. Il nostro dissidio più grande - che gli rinfacciavo pubblicamente ad ogni occasione e che lui non ha mai dimenticato - verteva sulla sua convinzione che la scuola doveva servire a insegnare a «leggere, scrivere e far di conto».
Io ero (e sono) convinto che doveva fare di più, che doveva formare cittadini di questa Repubblica. Solo col passare dei decenni ho capito che avevamo ragione entrambi, ma lui più di me: se la scuola non fornisce una solida, solidissima preparazione di base, allora tutto quello che si costruisce sopra (compreso l'essere cittadini) è un castello di carte che crolla al primo colpo di vento. Senza basi solide, si arriva dritti alla cultura formatasi via internet, a suon di blog.
Dopo l'esame di maturità e col passare degli anni, i miei rapporti col Provveditore si ridussero in quantità, ma si elevarono in qualità. Lo incontravo per caso in piazza, mentre passeggiava con quel sul fare lento e rilassato come solo i siciliani sanno riflettere. Le nostre conversazioni non duravano mai più di pochi minuti, ma erano sempre intense e ricche. Non ha perso mai di vista il mio percorso graduale di impegno nella politica locale, e commentava con me le notizie che leggeva sui giornali. Nel 1999 rimase sconvolto dal caso di un politico che, una volta scaduto il suo mandato, pretendeva una collocazione presso un'azienda pubblica: voleva quella che si occupava di trasporti, ma sarebbe andata bene anche quella di diritto allo studio. Inzerillo mi guardò con gli occhi stralunati e mi disse: «ma ti sembrano due mestieri equivalenti? Come si fa a scegliere per le aziende pubbliche degli amministratori indipendentemente dalle loro competenze, e solo perché hanno bisogno di un lavoro?». Chissà, forse ancor oggi qualche funzionario di partito più giovane di lui di mezzo secolo (ma solo anagraficamente) bollerebbe una frase del genere come "bieca anti politica" o come "modo per distruggere l'unità del partito".
Continuavamo ad essere in disaccordo su molte cose, ma parlare con lui era un raro piacere della mente. Quando sono diventato assessore, mi è venuto a trovare un paio di volte. Sempre in corrispondenza di momenti complicati, ma sempre un attimo dopo, per non essere troppo indiscreto, esibendo quel garbo ed eleganza che solo i siciliani sanno avere. Nel mio ufficio abbiamo parlato a lungo, e di tutto. In entrambe le occasioni mi ha portato un libro, ma mi regalava molto di più: il piacere di parlare con un uomo che non apriva mai la bocca a caso, mai. Come solo i siciliani sanno fare.
L'ultima volta che l'ho visto è stato qualche mese fa, sempre in piazza. Aveva promesso di venirmi a trovare in autunno.
Eppure io La aspetto ancora, Provveditore. Per insegnarmi l'ultima grande lezione. Che anche chi a 15 anni ti sembra un nemico, può diventare un pezzo importante della tua formazione. Di quelli che non si dimenticano.
. *Assessore al bilancio
del Comune di Ferrara