Ciechi nel secolo della conoscenza”.
di Giovanni Fioravanti
Sì, è quello che sembra accadere da noi. Società della conoscenza, città della conoscenza sono temi che si dibattono nel mondo e per i quali governi di diversi Paesi si stanno da tempo impegnando. Basta consultare il sito web delle knowledge cities per rendersene conto. Basterebbe essere un po’ meno provinciali di quanto siamo, soprattutto basterebbe non aver vissuto 20 tragici anni di accumulo di spaventosi ritardi (sic!). E il futuro non sembra migliore…
Dove abitiamo? Dove abita il nostro Paese, dove abitano le nostre città? È come se all’improvviso la cecità dei personaggi di Saramago avesse preso anche noi. Il mondo che ci sta intorno viaggia a una velocità decisamente diversa dalla nostra.
Te ne accorgi quando, occupandoti di città della conoscenza, scopri che esiste addirittura l’Official Web Site delle Knowledge Cities, ne fa riferimento Francisco Javier Carrillo, docente e ricercatore in knowledge systems e knowledge administration, nel suo libro, del 2006, Knowledge Cities, per altro mai tradotto in italiano.
A scorrere la lista dei settantuno tra Paesi, città e continenti che aderiscono al Knowledge-Based Development (Kbd), con l’intento dichiarato di fondare il loro sviluppo sulla conoscenza, c’è l’Europa, ma non c’è l’Italia e neppure una delle sue città. L’Italia non è tra le nazioni che hanno scelto di concentrare i loro sforzi o che intendono attivare programmi per porre la conoscenza alla base della propria crescita. Allora rivolgendo gli occhi alle vicende di casa nostra, a questo Paese che sembra aver preso le distanze dal lavoro, dall’intelligenza, dallo studio, dalla cultura e dalla ricerca, imboccando la disastrosa scorciatoia delle speculazioni finanziarie, della corruzione, del peculato e del malaffare, ti rendi conto che chi ha governato, per lo meno negli ultimi vent’anni, ci ha portati fuori strada, a sbattere contro un muro.
Doveva venirci il sospetto che il brain drain, la fuga all’estero dei nostri cervelli migliori, voleva dire che gli altri Paesi stavano investendo sulla cultura, sui saperi, sull’istruzione.
Si fa fatica a non pensare che le difficoltà, in cui ancora ci troviamo senza cavarci i piedi, in buona parte provengono dal grave deficit sul piano delle politiche culturali e dell’istruzione che abbiamo accumulato almeno da vent’anni a questa parte.
Il fatto, che le maggiori organizzazioni internazionali come la Commissione europea, la Banca mondiale, l’Onu e l’Ocse abbiano adottato il knowledge management come cornice dei loro orientamenti strategici per lo sviluppo mondiale, indica chiaramente l’esistenza di un nuovo collegamento tra gestione della conoscenza e crescita economica. La gestione della conoscenza è divenuta strategica non solo per il mondo degli affari, ma soprattutto per settori come l’istruzione, la pubblica amministrazione e la sanità.
Economisti quali Peter Drucker e Taichi Sakaiya, tra gli altri, avevano previsto già sul finire del secolo scorso l’avvento di un’economia della conoscenza, come base per la fondazione di quell’idea della società che l’Europa ha fatto propria. Secondo Sakaiya «stiamo entrando in una nuova fase di civiltà in cui il valore attribuito alla conoscenza è la forza trainante».
Per molti il ventunesimo secolo si va caratterizzando come il secolo delle città. Quella grande migrazione di masse contadine dalla campagna alla città, iniziata con la rivoluzione industriale, è un processo ancora in corso, del resto la sua esistenza è molto breve, se la consideriamo in una prospettiva storica. Un paio di secoli non sono altro che lo 0,5% dell’esistenza umana sulla Terra.
Ancora nel 1980, meno del 30% della popolazione mondiale era urbanizzata, ora più del 50% vive nelle città, e la quota è destinata a salire al 75% entro il 2025. Una percentuale che è già raggiunta dalla maggior parte dei paesi sviluppati. L’urbanizzazione definitiva dell’umanità sta avvenendo proprio in questo tempo, dopo quarantamila anni dalla comparsa della nostra specie.
Urbanizzazione globale e avvento della Società della Conoscenza, costituiscono ciascuno una realtà senza precedenti e complessa. Da qui emergono i limiti dei nostri tradizionali approcci disciplinari allo sviluppo urbano e alla creazione di valore sociale.
Entrambi, integrati nella società della conoscenza, costituiscono uno dei fenomeni più complessi mai affrontati dagli uomini e, probabilmente, il punto critico del nostro futuro.
È questo nuovo collegamento a creare un ambiente favorevole alla crescita della città della conoscenza, argomento oggi di grande interesse e discussione nel mondo. Molte città già si proclamano a livello mondiale come learning o knowledge city, mentre altre hanno elaborato strategie e programmi per diventarlo.
Il concetto di città della conoscenza è molto ampio, si riferisce a tutti gli aspetti della vita sociale, economica e culturale. Secondo i ricercatori in questo campo, tra cui il greco Kostas Ergazakis, esperto di knowledge management, una città della conoscenza è una città che mira allo sviluppo basato sul sapere, favorendo tra i suoi abitanti la continua creazione, condivisione, valutazione, rinnovo e aggiornamento delle conoscenze. Lo scambio di conoscenze e di cultura è il fulcro strategico della città di questo secolo, che deve essere alimentato e sorretto dalle sue reti e dalle sue infrastrutture.
Le previsioni per il futuro delle città sembrano dare per scontata la continuazione del modello industriale capitalista che ha dominato il ventesimo secolo. Ma le città amministrate sulla base di questo modello sono diventate sempre più grandi, con una domanda di consumi sempre maggiore e una esorbitante produzione di rifiuti. La prospettiva finale è inevitabilmente il collasso ambientale, sociale ed economico, appena esse avranno superato i limiti di una crescita gestibile. È evidente che questo modello di sviluppo non è più funzionale.
In questo contesto il vantaggio della città della conoscenza è nella sua stessa definizione, perché la sua esistenza ha le radici nei saperi diffusi, si fonda su uno sviluppo sostenibile per l’ambiente, economicamente equo e socialmente responsabile.
Il coinvolgimento attivo dei cittadini, la condivisione diffusa delle conoscenze innescano forti dinamiche di innovazione in tutti i settori, dalle attività economiche a quelle sociali, creano un ambiente tollerante verso le minoranze e i migranti, contribuiscono a far crescere e migliorare il funzionamento della democrazia, sono le condizioni senza le quali l’idea che la democrazia diretta possa sostituirsi alla politica, come l’abbiamo finora praticata, resta un puro, accecante inganno populistico.
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