IL GIORNALE M. PARENTE
Se l'avessero chiamata Legge del Lavoro i sindacati in piazza e gli scioperi generali sarebbero sembrati meno anacronistici. Invece Jobs Act fa pensare a una cosa moderna, fa pensare alla Apple e agli Stati Uniti.
Dove la meritocrazia non è solo uno slogan. Dove l'innovazione parte da ragazzi chiusi in garage e seminterrati. Invece se Steve Jobs e Bill Gates, tanto per citarne due a caso, fossero nati in Italia, nel garage nel migliore dei casi avrebbero aperto un'officina. Nel peggiore sarebbero diventati De Benedetti e avrebbero fondato e poi affondato l'Olivetti.
Per rendersene conto basta leggere il lungo saggio di Walter Isaacson intitolato Gli innovatori (Mondadori, pagg. 560, euro 25) che racconta la storia dell'informatica e dei suoi fantastici pionieri. A cominciare da Charles Babbage, un eccentrico matematico che a Londra, all'inizio dell'Ottocento, osservando i telai meccanici, si accorse che funzionavano a schede perforate, e pensò di usare il principio per costruire una macchina computazionale. Da lì ai primi transistor prodotti dal Laboratori Bell la strada è lunga e sono parecchi i luoghi comuni sfatati da Isaacson (un signore molto americano e altrettanto meritocratico: oltre a essere autore di una serie di biografie strepitose, da Eistein a Jobs, è stato caporedattore di Time e Presidente e amministratore delegato della CNN, mica pizza e fichi).
Tanto per citarne qualcuno: internet è di sinistra? È di destra? Da noi non si capisce, visto che Beppe Grillo e i suoi seguaci la usano per arrivare alla «decrescita felice». In realtà il grande salto della tecnologia, del computer, di internet, è il felice prodotto del capitalismo nella democrazia liberale negli Stati Uniti, e nasce dalla collaborazione tra governo, campus universitari e industria militare. Ma anche tra cultura hippy e cultura hacker.
Mentre in Italia il Sessantotto era solo straccione, comunista e fancazzista, lì qualcuno come Lee Felsenstain pensava: «Volevamo i personal computer per liberarci dal giogo delle istituzioni, statali o private che fossero». Tra i sessantottini c'erano i secchioni e i nerd. E il consumismo non era il male, anzi. Lo slogan di Timothy Leary, il guru dell'LSD, diventò: «Accenditi, avviati, connettiti».
Stewart Brand era un figlio dei fiori (e dei microchip) che riuscì a far scattare alla NASA una foto della Terra vista dall'esterno per suscitare un sentimento di fratellanza planetaria. Si faceva di LSD, come quasi tutti, ma proprio nel 1968 mise in piedi la più grande dimostrazione digitale mai organizzata, quella di Douglas Englebart. Il quale, tanto per capirci, tra le altre cose inventò il mouse. In quegli anni intanto Nolan Bushnell aveva fondato la Atari e il primo videogioco da sala: il mitico Pong .
Se poi pensate che Bill Gates sia diventato Bill Gates per culo, vi sbagliate. Era un vero genio. Alle medie dava dei deficienti ai professori (ne sapeva più di loro, ammissione degli stessi docenti) e alla mamma che vedendolo dondolarsi sulla sedia gli chiedeva: «cosa fai?», rispondeva: «Stai zitta, sto pensando. Hai mai provato a pensare?». In matematica era il numero uno, non ne sbagliava una o quasi: a sedici anni diceva che prima dei trent'anni avrebbe guadagnato un milione di dollari, mentre quando compì trent'anni il suo patrimonio era già di 360 milioni. Con il suo amico fidato Paul Allen sfruttava clandestinamente il computer del college per studiare il linguaggio macchina giorno e notte, per scriverci i primi programmi che avrebbe venduto presto a importanti aziende, fino all'IBM. Mantenendo la licenza del software, e fondando una società il cui nome forse vi dice qualcosa: la Micro-Soft, presto trasformata in Microsoft. Finì comunque di laurearsi a Harvard, per far contenti i genitori.
Un attimo, mi stavo dimenticando le donne, le quote rosa dell'innovazione. Che a differenza della Boldrini, la cui maggiore genialità intellettuale sta nell'impegnarsi per trasferire l'Africa in Italia e perché si dica ministra e non ministro, eccellevano in ben altre attività. Grace Hopper era l'ufficiale della Marina (ufficialessa nel dizionario Boldrini) che nel 1945 inventò la subroutine che rese programmabili i computer. E poi Marylin Wescoff, Ruth Lichterman, Betty Snyder e tante altre. In linea di massima, Gates a parte, l'uomo era hardware, la donna software.
E tornando alle origini, il succitato Charles Babbage aveva una grande allieva, Ada contessa di Lovelace. Capace di intuire meglio di lui dove sarebbero arrivati i computer. «La macchina analitica non ha lo stesso carattere delle semplici "macchine calcolatrici", ma ha una natura affatto a sé» scriveva Ada nel 1843. «Rendere un meccanismo capace di combinare simboli generali in sequenze illimitate per varietà e estensione, vuol dire avere trovato un punto d'unione fra le operazioni della materia e le operazioni astratte della mente». Elaborò il concetto di subroutine, poi sviluppato esattamente un secolo dopo da Grace Hopper. Una curiosità: Ada era la figlia di Lord Byron. Il quale, al suo confronto, occupato com'era a seguire il luddismo e distruggere le macchine, sembra uno scemo qualsiasi, un pioniere grillino.
Insomma, le vere eroine del femminismo dovrebbero essere queste, altro che quote rosa.
Per rendersene conto basta leggere il lungo saggio di Walter Isaacson intitolato Gli innovatori (Mondadori, pagg. 560, euro 25) che racconta la storia dell'informatica e dei suoi fantastici pionieri. A cominciare da Charles Babbage, un eccentrico matematico che a Londra, all'inizio dell'Ottocento, osservando i telai meccanici, si accorse che funzionavano a schede perforate, e pensò di usare il principio per costruire una macchina computazionale. Da lì ai primi transistor prodotti dal Laboratori Bell la strada è lunga e sono parecchi i luoghi comuni sfatati da Isaacson (un signore molto americano e altrettanto meritocratico: oltre a essere autore di una serie di biografie strepitose, da Eistein a Jobs, è stato caporedattore di Time e Presidente e amministratore delegato della CNN, mica pizza e fichi).
Tanto per citarne qualcuno: internet è di sinistra? È di destra? Da noi non si capisce, visto che Beppe Grillo e i suoi seguaci la usano per arrivare alla «decrescita felice». In realtà il grande salto della tecnologia, del computer, di internet, è il felice prodotto del capitalismo nella democrazia liberale negli Stati Uniti, e nasce dalla collaborazione tra governo, campus universitari e industria militare. Ma anche tra cultura hippy e cultura hacker.
Mentre in Italia il Sessantotto era solo straccione, comunista e fancazzista, lì qualcuno come Lee Felsenstain pensava: «Volevamo i personal computer per liberarci dal giogo delle istituzioni, statali o private che fossero». Tra i sessantottini c'erano i secchioni e i nerd. E il consumismo non era il male, anzi. Lo slogan di Timothy Leary, il guru dell'LSD, diventò: «Accenditi, avviati, connettiti».
Stewart Brand era un figlio dei fiori (e dei microchip) che riuscì a far scattare alla NASA una foto della Terra vista dall'esterno per suscitare un sentimento di fratellanza planetaria. Si faceva di LSD, come quasi tutti, ma proprio nel 1968 mise in piedi la più grande dimostrazione digitale mai organizzata, quella di Douglas Englebart. Il quale, tanto per capirci, tra le altre cose inventò il mouse. In quegli anni intanto Nolan Bushnell aveva fondato la Atari e il primo videogioco da sala: il mitico Pong .
Se poi pensate che Bill Gates sia diventato Bill Gates per culo, vi sbagliate. Era un vero genio. Alle medie dava dei deficienti ai professori (ne sapeva più di loro, ammissione degli stessi docenti) e alla mamma che vedendolo dondolarsi sulla sedia gli chiedeva: «cosa fai?», rispondeva: «Stai zitta, sto pensando. Hai mai provato a pensare?». In matematica era il numero uno, non ne sbagliava una o quasi: a sedici anni diceva che prima dei trent'anni avrebbe guadagnato un milione di dollari, mentre quando compì trent'anni il suo patrimonio era già di 360 milioni. Con il suo amico fidato Paul Allen sfruttava clandestinamente il computer del college per studiare il linguaggio macchina giorno e notte, per scriverci i primi programmi che avrebbe venduto presto a importanti aziende, fino all'IBM. Mantenendo la licenza del software, e fondando una società il cui nome forse vi dice qualcosa: la Micro-Soft, presto trasformata in Microsoft. Finì comunque di laurearsi a Harvard, per far contenti i genitori.
Un attimo, mi stavo dimenticando le donne, le quote rosa dell'innovazione. Che a differenza della Boldrini, la cui maggiore genialità intellettuale sta nell'impegnarsi per trasferire l'Africa in Italia e perché si dica ministra e non ministro, eccellevano in ben altre attività. Grace Hopper era l'ufficiale della Marina (ufficialessa nel dizionario Boldrini) che nel 1945 inventò la subroutine che rese programmabili i computer. E poi Marylin Wescoff, Ruth Lichterman, Betty Snyder e tante altre. In linea di massima, Gates a parte, l'uomo era hardware, la donna software.
E tornando alle origini, il succitato Charles Babbage aveva una grande allieva, Ada contessa di Lovelace. Capace di intuire meglio di lui dove sarebbero arrivati i computer. «La macchina analitica non ha lo stesso carattere delle semplici "macchine calcolatrici", ma ha una natura affatto a sé» scriveva Ada nel 1843. «Rendere un meccanismo capace di combinare simboli generali in sequenze illimitate per varietà e estensione, vuol dire avere trovato un punto d'unione fra le operazioni della materia e le operazioni astratte della mente». Elaborò il concetto di subroutine, poi sviluppato esattamente un secolo dopo da Grace Hopper. Una curiosità: Ada era la figlia di Lord Byron. Il quale, al suo confronto, occupato com'era a seguire il luddismo e distruggere le macchine, sembra uno scemo qualsiasi, un pioniere grillino.
Insomma, le vere eroine del femminismo dovrebbero essere queste, altro che quote rosa.