(1 Maggio 2013) De dignitate hominis by Paolo Melandri

De dignitate hominis

 

Davanti a noi il tutto,

celato e inaccostabile

e noi che ripetiamo sempre “io”,

disperati, incalzati da morte.

 

Noi che l’esilio abbiam gustatosempre,

noi – ora culminante

che mai si oblia nel sogno enell’ebbrezza:

di tanto in tanto trascinati via,

noi udiamo

di saghe di mari e di viaggi,

di un’isola che è come nei giorni

della creazione

e senza conoscenza.

 

Noi dell’esilio,

noi fiori del cranio:

a tratti guarderemo le paludi:

antichi fiumi perdonsi nelviaggio,

miti nella creazione

ci balenano davanti

con cesto e reti, con dighe ecanali,

con indicibile

dolore.

 

Apertasi la via

fra masse immense d’uominipreumani,

erra la specie tarda

da polo a polo,

sinché finisce in un giogo dirazze:

sinché dell’uomo l’“io” ch’èdetto “bianco”

come l’orso polare

ha lasciato il mondo,

e allora addio.

 

Addio agli antichi giorni

che di serene campagne in estate

colmi e felici stavano

nella mano sognante di quelbimbo.

Addio, tu grande divenire incorso,

su campi, lago e casa,

in temporali è esplosa ormai laterra

prendendosi il giusto potere.

Addio a quanti antenati

mi concepirono a un gravosoesistere

che ancora all’orbita del sole,

ancora nella notte, s’inchinava.

Da presto a tardi,

e le immagini tramontano –

addio, da grandi città

senza sogno e senza tomba.

 

Così parlò la carne in ognitempo:

esser sazii e felici, altro nonc’è!

Noi ci accompagni una parola“altra”

ché ciò che lotta entra nellacreazione.

 

Ma ciò che lotta e il bello ciabbandonano

e ciò che soffre e l’ombre eccoci avvolgono

e gli assetati da due coppebevono

e tutte e due son piene ditramonto.

 

L’avidità che invoca cibo ecopula

traverso i mondi, l’ultimo suogrido,

si decompone in passi, rughe edanni:

il putridume rovescia la tomba.

 

Ma ciò che soffre vince labattaglia,

il solitario, il tacito, che solo

sente le antiche forze che ciseguono:

e questo è l’uomo che non cessamai.

 

Sì, questo sarà l’uomo senzafine,

anche quando declina la suaestate,

quando il tocco dell’arpa,

i chiari canti del lieto raccolto

sono trascorsi:

grandi leggi

condussero dovunque le sueschiere,

a eterni suoni

si accordò la sua voce,

presaga vastità portò declino,

svolta nell’incessante,

nel senza età.

 

Ciò che non cessa fu declino esvolta

nell’echeggiar dei mari e nellaluce:

nell’eco dei mari

e nel baratro della luce,

illuni mondi acerbi.

Notte e giorno

la vita si trasmuta,

si nutre di semenza alta,immortale

da mare a mare.

 

Ciò che non passa tra lo spazio ei tempi,

alto dei cieli e fondo degliabissi:

in felici creazioni e nell’oscuro–

ignota a tutti la voce chechiama.

 

Affondan mondi e mondi ancoraemergono

da una creazione muta e senzanome,

gli dèi s’inchinano, già tace ilcoro

eterno nel mutare, in mutargrande.

 

Cosa dite dei flutti dellastoria:

prima vino e poi sangue: ecco ilbanchetto

dei Nibelunghi,

uccisioni e banchetti e tribunali–

di rose e tralci la sala è ancorcinta.

 

Che cosa dite dei frementieserciti,

delle pericolose spedizioni,

Merovingi alla fine: ecco Pipino

all’ultimo di loro dà una corte

da arare ed una coppia dimacerrimi

buoi per tirare il carro ognigiornata.

 

Anche gli dèi finiscono nell’onde

con pelli di pantere in unafesta,

piangono i cuori, godono ileopardi

e quello che ormai resta dellafede

non è che bestie magre per glidèi.

 

Il divenire: incendi e pestilenze

sul muso che divora le corone

e scorteccia regni,

paesi decaduti e senza guide

e greggi senza pastore

di vacche e di cavalle che lagrande

mammella rende magre e senzapace.

 

Cosa dite dei flutti dellastoria,

c’è un regno non sull’orlodell’abisso,

forse una stirpe in sempiternaluce,

o forse l’uomo, il suo poverospirito –:

 

lo spirito deve alitare in tutto,

il singolo perisce così presto

e così senza traccia, e il solosenso

succedersi di volti e di parole.

 

Il tripudio una parte e parte inlacrime,

in certe ore era luce e più cheluce,

in questi anni era il cuore e letempeste

in quelli – di chi tempeste – dichi?

 

Mai nella gioia e radi ormai icompagni,

velato agli antri l’intimoaccadere,

sempre più vasti scorrevano ifiumi,

l’esterno ti toccava sol didentro.

 

Chi ti vedeva duro, chi più mite,

chi fare ordine, chi fardistruzioni,

ma non vedevano che mezzeimmagini,

perché l’intero solo a teappartiene.

 

All’inizio più chiaro il tuovolere,

c’era una meta, eri vicino acredere,

ma quando poi scorgesti il tuodovere,

l’occhio di pietra dall’alto sultutto,

 

non c’era più una luce né più unfuoco

in cui il tuo sguardo estremo siirretisse:

un capo nudo, insanguinato, unmostro,

al cui ciglio una lacrimapendeva.

 

 

Paolo Melandri

27 aprile 2013