Ferrara-Galleria del Carbone: Ernesto Terlizzi "Derive" personale dal 4 maggio * a cura di A.P. Fiorillo

Immagine di copertinaDal 4 maggio alle ore 18.30 al 19 maggio alle ore 23.45

  • Derive dello sguardo
    Ada Patrizia Fiorillo

    È stato quasi perentorio Ernesto Terlizzi, nell’invitarmi a scrivere per questa mostra che egli allestisce presso la Galleria del Carbone di Ferrara, adducendo due ordini di motivi. Il primo dettato dal mio legame con la città per le abituali e note frequentazioni che vi intrattengo da oltre tre lustri; il secondo, dal silenzio protrattasi per più tempo, a suo dire, dalle ultime note a lui dedicate, il che è in parte vero. Ciò che intendo, non per smentita, è che ...al di là delle occasioni più o meno generatesi di dar corso a testimonianze (l’ultima risale effettivamente al 2004), esiste tra noi un antico rapporto di amicizia che ha tenuto viva quella forma di dialogo che non concede distrazioni, derivandone quindi un costante aggiornamento sul suo percorso. Sono quindi ben felice di ‘ritrovarlo’ in questa cornice, a rinsaldare, senza deroghe, un vincolo che mette in campo geografie di appartenenza (per entrambi le radici campane) e di adozione (per me con questo ospitale territorio), rinverdendo tracce, mai sopite, di storie intrecciate e, perché no, anche resesi indipendenti.
    Dicevo cornice che, nello specifico, accoglie infatti questa esposizione in uno degli angoli più affascinanti della culla estense, posta, come è la galleria, nel cuore della Ferrara medievale, quella che pulsa della sua storia e delle sue tradizioni ebraiche stratificatesi nelle arterie del ghetto che si innervano intorno all’omonima piazzetta da cui prende il nome. Nei suoi dimensionati spazi Lucia Boni e Paolo Volta si dedicano da decenni, con instancabile continuità, alla promozione delle arti visive, attenti a dare voce al composito scenario che il contemporaneo offre, senza preclusioni di sorta rispetto ai linguaggi o alle fasce generazionali, sebbene, guardando alle scelte ed ai programmi che essi attuano, mi sembra sia più incisiva una propensione per le esperienze della pittura. Di pittura si tratta anche nel caso di Terlizzi che vi propone un ciclo di opere realizzate nei primi mesi di quest’anno dedicate al tema dell’acqua ed in particolare del mare con il fascino, il mistero, i segreti che esso racchiude. Si tratta di lavori di varie dimensioni, grandi tavole e più piccole carte, tutti però legati, come è proprio ad una serie, da un filo di omogeneità formale quanto di contenuti. Ciò che vi emerge guardando alle singole opere è una particolare tensione narrativa che l’artista è arrivato a raffinare, sondando con forte senso estetico, le potenzialità che l’alchimia della pittura permette. Cerco di spiegarmi meglio entrando nel merito della sintassi che presiede a queste tecniche miste, per le quali l’artista si serve di carte, cartoni, pietre, frammenti di legno, china. Materiali sapientemente indirizzati ad una sintesi compositiva, direi proprio un amalgama del processo di fusione spinto fino alla scelta di azzerare alquanto il colore che egli riconduce difatti al binomio del bianco e nero. Una matrice questa che viene da lontano, più precisamente dagli avvii del suo percorso, ricucendo in una circolarità alcune costanti linguistiche che Terlizzi ha saputo di in volta in volta rinnovare. Spicca tra esse il segno, come traccia grafica che sorregge il dettato delle forme, liberatesi − ciò in verità fin dal sorgere del 2000 − dai limiti di quella griglia che in passato racchiudeva l’immagine in un corpo centrale geometrico, per fluire in un libero andamento pronto a lambire l’intera pagina pittorica. È un segno che asseconda lo scorrere della narrazione sposando le materie che, anche quando offerte nella loro reale consistenza, Terlizzi rastrema, tale da renderle difatti organiche alla pittura. Un segno corsivo, funzionale dunque al configurarsi delle forme che in parte sommerso, sul finire degli anni Ottanta, negli spessori del collage giunto ad arricchire il tessuto pittorico di nuove emergenze tattili, si fa avanti con più evidenza, dalla seconda metà dei Novanta, quando in esso entrano in gioco nuovi elementi sottratti al mondo della natura quali pietre e pezzi di legno. In sostanza materie vive, assunte, continuativamente fino ad oggi, come reperti di memoria aggettanti dalla superficie. Un’assunzione che però non credo traduca per l’artista né la coscienza, né tanto meno la necessità di giungere al corpo scultoreo e ciò al di là dei tentativi avanzati verso un’autonomia plastica della quale sono prova i ‘legni’ realizzati tra il 1999 ed il 2000. In tal senso ed a maggior ragione per questi ultimi dipinti, più che di sculto-pittura, interpretazione alla quale ricorrono diverse tra le esegesi che lo hanno riguardato negli ultimi anni, maggiormente calzante mi sembra la lettura di Renzo Margonari che parla di un «ibrido espressivo» in ragione del quale – specifica – l’artista è indotto a trattare con «cura puntigliosa ogni sostanza utilizzata». Questa “cura” grammaticale e, di conseguenza, sintattica, portata ad una soglia di elevato controllo proprio con il piacere di non celare alcun passaggio, non deve però fuorviare dallo scorgere nelle sue opere un’esigenza narrativa che si propone con pari rilevanza. Si direbbe anzi, e forse ciò è ancora più vero per il ciclo odierno, che Terlizzi cerchi di trasmettere qualcosa di impegnativo sul piano emozionale confondendolo dietro l’evidente sapienza del fare. Corre su queste superfici, perché di superfici si tratta pur con i rilievi materici che le attraversano, un sommesso grido di allarme per una condizione umana che turba la sua sensibilità di uomo e di artista. Veste quest’ultima cui ovviamente egli si affida puntando sulle immagini come forza veicolatrice, al pari illusiva ed allusiva. Da queste due ‘sponde’, per fare anche il verso al titolo della grande tavola in mostra, il suo sguardo muove dunque oltre i confini della realtà, tuffandosi alla deriva nel ‘mare’ dei sentimenti che lo attraversano. È un processo di introspezione che accoglie in senso lato il fascino primordiale dell’acqua, la sua forza fecondante e, addentratamente, l’immensità del mare, la sua motilità fluttuante che avvolge, ondivaga, tutto ciò che di organico o di non organico vi è immerso, fino a scorgervi il senso drammatico che lo inquadra nella complicità di un esodo disperato. A questa condizione di incertezza e di transitorietà fa il verso l’uso della china come il deposito di carte sagomate, partecipi di un’inquietudine amplificata dal contrasto luce-ombra, profondità-superficie, trasparenza-saturazione. Un dialogo serrato che Terlizzi è attento a calibrare nei minimi passaggi per i quali, quasi come un incisore, addensa e sottrae segni fino a svelare lacerti di immagini che rifluiscono dal fondo della sua coscienza. Penso a Carretta del mare, Fuori dall’acqua, Sotto, Fondale, i cui titoli si fanno referenti di emergenze sociali che non lasciano scampo al dolore, se non nel portato esorcizzante ed illusivo della pittura. È la soglia dalla quale egli cede al racconto, arrendevole al naufragio che lo porta ad immergersi nel mistero, nelle onde che sobillano le pulsioni più intime. Ne sono testimonianza Frammenti d’acqua, Implosione, Il mare dentro, esiti di grande intensità e forza immaginativa attraverso i quali lancia un sasso all’ascolto.