De dignitate hominis
Davanti a noi il tutto,
celato e inaccostabile
e noi che ripetiamo sempre "io",
disperati, incalzati da morte.
Noi che l'esilio abbiam gustato sempre,
noi – ora culminante
che mai si oblia nel sogno e nell'ebbrezza:
di tanto in tanto trascinati via,
noi udiamo
di saghe di mari e di viaggi,
di un'isola che è come nei giorni
della creazione
e senza conoscenza.
Noi dell'esilio,
noi fiori del cranio:
a tratti guarderemo le paludi:
antichi fiumi perdonsi nel viaggio,
miti nella creazione
ci balenano davanti
con cesto e reti, con dighe e canali,
con indicibile
dolore.
Apertasi la via
fra masse immense d'uomini preumani,
erra la specie tarda
da polo a polo,
sinché finisce in un giogo di razze:
sinché dell'uomo l'"io" ch'è detto "bianco"
come l'orso polare
ha lasciato il mondo,
e allora addio.
Addio agli antichi giorni
che di serene campagne in estate
colmi e felici stavano
nella mano sognante di quel bimbo.
Addio, tu grande divenire in corso,
su campi, lago e casa,
in temporali è esplosa ormai la terra
prendendosi il giusto potere.
Addio a quanti antenati
mi concepirono a un gravoso esistere
che ancora all'orbita del sole,
ancora nella notte, s'inchinava.
Da presto a tardi,
e le immagini tramontano –
addio, da grandi città
senza sogno e senza tomba.
Così parlò la carne in ogni tempo:
esser sazii e felici, altro non c'è!
Noi ci accompagni una parola "altra"
ché ciò che lotta entra nella creazione.
Ma ciò che lotta e il bello ci abbandonano
e ciò che soffre e l'ombre ecco ci avvolgono
e gli assetati da due coppe bevono
e tutte e due son piene di tramonto.
L'avidità che invoca cibo e copula
traverso i mondi, l'ultimo suo grido,
si decompone in passi, rughe ed anni:
il putridume rovescia la tomba.
Ma ciò che soffre vince la battaglia,
il solitario, il tacito, che solo
sente le antiche forze che ci seguono:
e questo è l'uomo che non cessa mai.
Sì, questo sarà l'uomo senza fine,
anche quando declina la sua estate,
quando il tocco dell'arpa,
i chiari canti del lieto raccolto
sono trascorsi:
grandi leggi
condussero dovunque le sue schiere,
a eterni suoni
si accordò la sua voce,
presaga vastità portò declino,
svolta nell'incessante,
nel senza età.
Ciò che non cessa fu declino e svolta
nell'echeggiar dei mari e nella luce:
nell'eco dei mari
e nel baratro della luce,
illuni mondi acerbi.
Notte e giorno
la vita si trasmuta,
si nutre di semenza alta, immortale
da mare a mare.
Ciò che non passa tra lo spazio e i tempi,
alto dei cieli e fondo degli abissi:
in felici creazioni e nell'oscuro –
ignota a tutti la voce che chiama.
Affondan mondi e mondi ancora emergono
da una creazione muta e senza nome,
gli dèi s'inchinano, già tace il coro
eterno nel mutare, in mutar grande.
Cosa dite dei flutti della storia:
prima vino e poi sangue: ecco il banchetto
dei Nibelunghi,
uccisioni e banchetti e tribunali –
di rose e tralci la sala è ancor cinta.
Che cosa dite dei frementi eserciti,
delle pericolose spedizioni,
Merovingi alla fine: ecco Pipino
all'ultimo di loro dà una corte
da arare ed una coppia di macerrimi
buoi per tirare il carro ogni giornata.
Anche gli dèi finiscono nell'onde
con pelli di pantere in una festa,
piangono i cuori, godono i leopardi
e quello che ormai resta della fede
non è che bestie magre per gli dèi.
Il divenire: incendi e pestilenze
sul muso che divora le corone
e scorteccia regni,
paesi decaduti e senza guide
e greggi senza pastore
di vacche e di cavalle che la grande
mammella rende magre e senza pace.
Cosa dite dei flutti della storia,
c'è un regno non sull'orlo dell'abisso,
forse una stirpe in sempiterna luce,
o forse l'uomo, il suo povero spirito –:
lo spirito deve alitare in tutto,
il singolo perisce così presto
e così senza traccia, e il solo senso
succedersi di volti e di parole.
Il tripudio una parte e parte in lacrime,
in certe ore era luce e più che luce,
in questi anni era il cuore e le tempeste
in quelli – di chi tempeste – di chi?
Mai nella gioia e radi ormai i compagni,
velato agli antri l'intimo accadere,
sempre più vasti scorrevano i fiumi,
l'esterno ti toccava sol di dentro.
Chi ti vedeva duro, chi più mite,
chi fare ordine, chi far distruzioni,
ma non vedevano che mezze immagini,
perché l'intero solo a te appartiene.
All'inizio più chiaro il tuo volere,
c'era una meta, eri vicino a credere,
ma quando poi scorgesti il tuo dovere,
l'occhio di pietra dall'alto sul tutto,
non c'era più una luce né più un fuoco
in cui il tuo sguardo estremo si irretisse:
un capo nudo, insanguinato, un mostro,
al cui ciglio una lacrima pendeva.
Paolo Melandri
27 aprile 2013