LE GIOIOSE BOMBARDE DI GIOVANNI TUZET
A.
Non mi sono mai divertito a capodanno. I motivi li ricordo esattamente: una volta non stavo bene, un'altra sono rimasto a piedi, un'altra era scappato il gatto e l'ho dovuto cercare fra i cespugli in mezzo ai botti che mi scoppiavano sulla testa, un'altra ancora avevo litigato con la fidanzata. Poi una ero triste, una ero completamente stordito, un'altra si era spaccata la caldaia e si gelava. Ieri sera? Non è successo niente. Di praticare l'amore non se ne parla: credo che in fondo porti sfortuna, per cui da molti anni in questa notte gioiosa me ne astengo. Anche stamattina, che mi era venuto malditesta – uno di quelli da mettersi a letto e non fare altro.
Invece sono andato al cimitero. C'era un'aria bella – credetemi – tanto umida, tutta in grigio, spessa ma pungente sulle orecchie, con i cipressi rigonfi, i mazzi di fiori nei cassonetti, un aroma molto intenso e una specie di saggezza, i sassi lucidi. Ho detto più preghiere del solito pensando agli antenati che ho visto solo in fotografia. Me li immagino sempre anziani, mai che li veda nel fiore degli anni. Chissà se la loro anima sottile svolazza un po' irrigidita da qualche parte e sorride quando rendo visita alla buca. Uno di loro ha servito durante la Grande guerra nelle uniformi dell'Imperatore: lui sì che ha passato dei momenti seri. A confronto, le mie chiacchiere senza scopo sono frutti avvizziti e indecorosi.
Ora mi è venuto un desiderio di pioggia, che sembri Pasqua almeno, e si beva un vino dal sapore di trifoglio, un po' commossi.
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B.
A Pasqua ho visitato il Cimitero degli eroi ad Aquileia. È dietro alla basilica, vi si accede entrando in un cancello di ferro, passando il campanile e inoltrandosi fra i cipressi nell'ombra. Ci sono le spoglie dei primi caduti della Grande guerra. Sono in file ordinate: ognuno in una piccola aiuola ben curata e il metallo della croce con il nome inciso. Alcuni sono ai lati in più grandi sepolcri, di marmo e con frasi celebrative a ricordarne il grado e a volte il gesto. Nel mezzo riposano i militi ignoti in un ossario comune più solenne, ma anche più freddo. Non amo fermarmi lì, ma camminare lungo i cipressi, nei vialetti fra le tombe dei soldati, godere la luce che filtra sui rosai, fissare qualche volto che da tanti anni svanisce. Sul muro della basilica, in faccia alle croci, si vede alzando gli occhi una lapide. Chi se ne accorge può ancora sussurrare i versi di d'Annunzio celebranti le 'primizie della forza nei tumuli di zolle'. Una cedevole forza. Oltre i cipressi si stende una verde campagna, striata di giallo e di macchie più scure, con un piccolo e lento fiume che l'attraversa, la Natissa.
Interrompono il silenzio dei richiami d'animali che non so riconoscere, degli uccelli che si lanciano delle cose a me incomprensibili e che per qualche ragione trovo incantevoli e giuste, anche dei polli in qualche vicina fattoria si uniscono al vociare.
A volte arrivano dei turisti italiani, spesso distratti, a volte in gruppi, con dei cappelli sportivi e degli zaini a colori indecenti o qualche panino a metà, che rimangono stupiti e commentano rumorosi. A volte hanno un accento romano o del Sud. Mi chiedo se provino qualcosa. Se sappiano che tanti, più giovani di me, più forti di me, più generosi di me, salirono dai loro paesi lasciando le famiglie, i loro amori, gli amici, le case, venendo a combattere qui, a soffrire, a colpire e uccidersi in uno sfacelo di proporzioni mai viste. Per cosa? Per questa buffa e graziosa nazione? Ne valeva una goccia di sangue? Ne valeva una sola goccia di quel sangue?
Più composti sono gli austriaci, passano di qua cercando il mare a cui non sapranno abbandonarsi. Ne sono entrati due l'ultima volta, mentre ero lì, intorpidito, fra le trame di luce ad ascoltare gli uccelli invisibili. M'ha scosso una maglietta bianca. Si aggiustavano gli occhiali dalla montatura fine. Cercano i loro? Non li troveranno qui. Ma chi sono i loro e i nostri? Guardate quegli ovali che sbiadiscono… Chi sono più? Sono i martiri delle trincee, i San Sebastiano da baionetta, i fucilati, quelli aperti dalle bombe? Vorrei andare loro incontro e senza una parola, così, abbracciarli. Forse potrei piangere. Ma so che per primo non lo farò e che loro non capirebbero. Che sarebbe un gesto esagerato, velleitario. Che sarei preso per pazzo, un debole, un vinto, un mentitore, un giuda. E allora niente. Lasciate che siano gli uccelli a parlarsi, anche senza capire o trattare una resa.
Ora mi è venuto un desiderio d'estate e di afa, di caldo asfissiante, dove si possa dimenticare…
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C.
Ho avvertito la mia ragazza che una sera saremmo andati a Torre Viscosa. A fare che? In effetti è un posto dove non c'è niente, a parte le fabbriche orribili e gli stradoni desolati. Ma avevo dei motivi molto seri per andarci.
Una domenica avevamo deciso di mangiare il pesce in una trattoria che c'è da anni su un isolotto, a Porto Buso. Non avendo una barca nostra c'eravamo andati con un taxi acquatico attraversando la laguna, approdati come gli attori che arrivano a Venezia per il festival. La ragazza di mio cugino aveva delle scarpe rosse con un tacco vertiginoso, che non sono le calzature indicate per salire e scendere dalle barche, ma il tassista non se ne preoccupava. Anzi, sembrava ben contento di avere una clientela insolita come la nostra, con mio cugino che disquisiva di champagne, il sottoscritto che proferiva dei motti filosofici e le fanciulle a ridere come oche. Nelle domeniche d'agosto i tavoli sotto il pergolato sono sempre pieni ma con un po' di pazienza c'eravamo seduti e nutriti a sazietà di branzini, polipi e scampi.
Qualche giorno dopo, mentre ero a casa, mi capita di leggere degli scritti di Marinetti e un poema ambientato in un paesaggio lagunare fra le canne. Ha un'aria familiare e a un certo punto menziona un Porto Buso. Possibile? Che sia proprio quello? Proseguo la lettura, controllo le note e scopro che sì, è proprio quello e che il titolo originale del lavoro era 'Il poema di Torre Viscosa'. E che cavolo di posto è Torre Viscosa? Oggi il nome è contratto in 'Torviscosa'. Ci sono nei pressi degli allevamenti con molte mucche, dove si producono latte e latticini, c'è un Bar Bianco dove il gelato è a quanto pare molto buono. Voglio andarci a mangiare un cono? Niente affatto. Perché mai allora? Torre Viscosa venne fondata in era fascista, per creare in quella zona di campagne e acquitrini un orgoglio industriale, un grande faro di produzione in epoca di autarchia. Il poema di Marinetti ne canta il nascere, tutto il fervore e il dinamismo, rinvigorendo la mitologia futurista della macchina e della velocità, coniugandola a un motivo vitale: la sintesi di natura e artificio, la prodigiosa alchimia con cui dalla terra dall'acqua dalle canne sorgono beni per il popolo la guerra la nazione. Un miracolo d'ingegno. Crescere e moltiplicarsi di beni gioia tessuti attraverso gli operai i nastri trasportatori le macchine meravigliose. Oggi ancora ci sono le fabbriche. Voglio vederle, voglio vedere cos'è rimasto.
Allora una sera andiamo. Prendo il vecchio Maggiolone rosso, la vecchia Volkswagen ovvero la macchina del popolo. Passo a prendere Sara e lei mi guida, verso la mitica Torre Viscosa.
Dopo dieci minuti siamo in zona, estraggo dal cassetto un raro nastro di musica elettronica e lo faccio partire: ora ci siamo. Io sono molto eccitato, Sara mi prende in giro. Ecco! La vedo, vedo all'orizzonte, a sinistra dello stradone, ergersi nel buio una torre verde illuminata, uno stelo esile e miracoloso e una gonfia corolla, come un faro per imbarchi sconosciuti e spaziali, poi altri edifici illuminati di viola e la distesa immensa delle fabbriche con le piccole luci bianche sui dorsi infinite. È lei, la mitica, italiana, simultanea Torre Viscosa.
Possiamo inoltrarci nel suo lampo? Sara mi indica la via principale d'accesso, il gas del Maggiolone è alle stelle ed entriamo con energia! Non c'è nessuno. Percorriamo dei viali immensi, vuoti, sovrastati dalle masse architettoniche, attraversiamo piazze imponenti, passiamo accanto a un grandioso teatro per il popolo, chiuso da luci leggere sul frontone, vediamo un profondo viale per le marce, bordato di statue e limitato da una possente catena. Non c'è nessuno. Intanto la musica del mangianastri è scandita e ossessiva. Raggiungiamo con la macchina la grande torre illuminata di verde e attraversando più volte in modo concentrico un parcheggio ai suoi piedi mi torco il collo per guardare con la massima attenzione il corpo della torre e le sue cifre luminose. Mi sembra che celino un segreto inumano, un presagio. Sara non vuole che ci fermiamo e usciamo dalla macchina. Non c'è nessuno neanche qui. Continuiamo a girare e i ripetuti sibili della musica iniziano a inquietarci. Intanto m'accorgo che la pelle degli edifici non è tesa, fatica a conservare il turgore. Le vernici sono sfogliate in più punti, la grande torre verdastra ha delle parti screpolate, come rughe, forse ha delle crepe invisibili da qui. I grandi corpi delle fabbriche sono attaccati da ruggine, la vedo oltre il filo e i cancelli, mentre ci passiamo accanto con i finestrini ben chiusi… e quante fra le piccole luci sono spente o rotte, chissà quante ancora, dentro i muri protetti, sono le infiltrazioni, i nidi di ragno, le falle, nere putrefazioni. Non è più in sé, inizio a credere, non è più questa. L'elettrica, imperiale, simultanea Torre Viscosa ora vive in un'altra fibra dello spazio, in una diversa regione del tempo.
Ci allontaniamo dal nucleo della città e lungo strade meno larghe vediamo gli alloggi seriali degli operai e delle loro famiglie. Sara, che è cresciuta qui vicino, mi racconta di certe mattine in cui andando a scuola si vedeva nel cielo una nuvola abnorme, salire di qua, l'aria era strana e pungente e i bambini tossivano, i più deboli avevano una febbre costante, ad alcuni si producevano macchie in viso o sulle braccia. Intanto le autorità democraticamente elette non mancavano di tranquillizzare le popolazioni ed esibivano certificati di sicurezza. Poi il gelato del Bar Bianco è eccellente, il latte delle mucche è sopraffino, il pesce a Porto Buso è saporito, saporitissimo. Ma la musica sta diventando intollerabile e Sara mi prega di spegnerla. Lo faccio e restiamo in silenzio, si sente solo il rombo della macchina del popolo. – È finita, andiamo.
Ci seguono gli estremi bagliori della torre verdastra lasciata alle spalle, li sorveglio nello specchietto retrovisore.
Mentre torniamo sono pensieroso; mi chiedo cosa ne direbbero oggi, cosa ne penserebbero, Marinetti e i futuristi, di questo sfacelo avanzato e delle conseguenze di quel volo. Delle guerre atomiche e dei campi di sterminio, dei tumori nei petti degli operai, del sangue leucemico nelle madri, delle malformazioni sul corpo dei figli. Di ogni grande male in ogni piccolo esistere. Prima di rincasare ci fermiamo vicino alla basilica in paese, parcheggiamo e scendiamo a mangiare un gelato nei nuovi locali aperti accanto al museo. Ci sediamo su una panchina con i nostri cucchiai di plastica colorati. Ora m'è venuto un desiderio di freddo.
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D.
All'abbazia di Novacella, presso Brixen, ho seguito una messa in tedesco, nella chiesa dell'abbazia, il mattino. Era una messa cantata e suonata, con musiche di Haydn per voci, piccola orchestra e organo.
La chiesa è curiosamente barocca in contrasto al rigore di tutto ciò che la circonda. I tedeschi seguivano la cerimonia con partecipazione ed esattezza. Non capivo quasi nulla di quanto detto dall'officiante, ma l'architettura, la musica, i gesti, mi facevano sentire al cuore di qualcosa di mio, di conosciuto, di profondamente intimo. Ho iniziato a fantasticare, a chiedermi che cosa provassi in quel momento, per quale emozione e sentimento mi sentissi felice e partecipe di qualcosa. I tedeschi non parevano accorgersi del mio stato, nessuno se ne curava e distoglieva i propri sensi dalle formule.
Così il sottoscritto, un italico dai capelli crespi e la barba nera, un calcolatore avvezzo al vino, vuole provare ad essere preciso ed elencare i pensieri che ha avuto in quel momento:
(a) quanto fu grande l'Impero romano che ci ha uniti, ce ne sono ancora le rovine da Istanbul alla Spagna, alla Tunisia, all'Inghilterra;
(b) quale superbo fiore il Rinascimento – a Ferrara, a Firenze, in tante magnifiche città;
(c) che scoppio salutare la Rivoluzione scientifica, a liberarci dalle superstizioni medievali e passatiste!
(d) noi abbiamo avuto l'Illuminismo e i rinnovati costumi giuridici e filosofici; ma anche
(e) le guerre di religione, di Stato, di razze e di cazzate;
(f) l'orrore dei campi di prigionia e di morte; e ora
(g) le bombe, il terrorismo, le minacce alla libertà conquistata a tanto prezzo…
Mentre pensavo al terrorismo mi sono accorto che un bambino accanto a me, non visto dai genitori, si infilava le dita nel naso. Loro non si distoglievano dall'altare, lui si stropicciava le narici sotto il banco, pensando a chissà cosa. Mi è venuto da sorridere ma non ho voluto abbandonare il filo dei miei ragionamenti. Mentre il sacerdote apriva le braccia, chiedevo a me stesso toccandomi la barba:
(h) bisogna dimenticare le pagine nere, per unirsi contro il nuovo pericolo? O invece non bisogna dimenticare, ma
(i) capire freddamente poi unirsi in uno slancio?
Con la coda dell'occhio ho guardato il bambino, che continuava il suo lavoro di esplorazione. Dicevo:
(j) sorridere a chiunque s'avvicini, pensare che è una parte di bene, un fratello? Anche se ricambia il sorriso con i denti? Anche se c'è chi ti pugnala?
Intanto la messa era avviata a concludersi. I fedeli accanto a me avevano iniziato a sollevarsi diretti all'altare per la comunione. Li osservavo, uno dopo l'altro, fra le volute zuccherose della navata, in fila, ricevere il sacramento, ruotare di centottanta gradi, tornare al loro posto. Il bambino ha approfittato del momento per ultimare il lavoro e appiccicare a un inginocchiatoio il risultato della ricerca. Appena conclusa la sua impresa liberatoria ha alzato gli occhi e ha visto i miei. Si è come spaventato, voltato subito dall'altra parte a vedere se tornassero i genitori. Prima che fosse troppo tardi mi sono sforzato di formulare questi altri pensieri, tirandomi la barba:
(k) se si debbano tollerare gli intolleranti;
(l) se si possa restringere la libertà di chi vuole soffocarla.
Poi hanno iniziato le campane e l'orchestra vaporosa con la musica finale. Confezionata per bene l'ultima nota, i teutonici dalle mille guerre hanno iniziato a salutarsi fra i fiocchi rosa e azzurri uscendo a gruppetti. Sono rimasto con la mia lista interrotta di pensieri, mentre le campane non smettevano e altre domande si aggiungevano. Il bambino, uscendo in braccio al padre, mi ha guardato per un istante, come per chiedermi di tenere il segreto, di non dirlo a nessuno.
Uscito, sono rimasto a fissare una porta di pensate legno scuro e ho sentito con le dita il muschio verde che si infoltisce fra le pietre della corte, dal lato dove non batte il sole. Ogni fine ha un inizio.
www.este-edition.com (autori Giovanni Tuzet)
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