Angelo Giubileo: L'isolamento dell'essere in Parmenide


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Questo articolo ha preso spunto da un articolo del prof. Gavin Rae (American University in Cairo, Egypt) dal titolo: Heidegger's influenceon posthumanism: The destruction of metaphysics, technologyand the overcoming of anthropocentrism

Nell'introduzione alle sue lezioni su Parmenide, tenute all'Università di Friburgo nel semestre invernale 1942/43, Heidegger dice che:
Per sapere che cosa è detto e pensato nelle parole di Parmenide, scegliamo la via più sicura, seguiamo il testo. La traduzione allegata ne contiene già l'interpretazione. Tale interpretazione ha bisogno tuttavia di una delucidazione. Eppure, né la traduzione né la delucidazione hanno un peso fintanto che ciò che è pensato nella parola di Parmenide non ci tocca direttamente. Tutto dipende dal nostro prestare o meno attenzione al richiamo proveniente dalla parola pensante. Solo così, prestando attenzione al richiamo, conosciamo il detto (M. Heidegger, Parmenide, Adelphi 2005).

Consideriamo allora alcune diverse traduzioni del testo dei frammenti di Parmenide e in particolare prestiamo attenzione ad alcune forme di coniugazione del verbo essere e quindi al modo in cui l'una o l'altra forma del verbo essere cambi a seconda del tempo di riferimento. Dire "è" equivale a coniugare la forma del verbo essere al tempo presente, ma anche la forma verbale del participio presente del verbo essere, e cioè "essente", sta a indicare un'azione modulata per l'appunto nel presente.

Così che, traducendo i testi dei frammenti di Parmenide dal greco, riferendo la modalità verbale al soggetto, talvolta sottinteso, così che sia l'Essere, possiamo affermare tuttavia che sia indifferente l'uso che Parmenide fa del verbo all'indicativo piuttosto che al participio o viceversa? Assolutamente, no. Inoltre, nel testo unico dei frammenti, talvolta compare in qualità di soggetto della frase il termine essere medesimo, mediante l'uso del verbo (einai) all'infinito. E dunque, un motivo ci sarà.

In effetti, il modo indicativo (è) svolge la funzione verbale di indicare un evento come certo, tanto da essere chiamato il "modo della realtà". Il participio (essente) è invece la forma nominale del verbo che, oltre a conservare la categoria del tempo (presente o passato), essenzialmente partecipa, prende cioè parte (in latino, partem capit) al sostantivo o all'attributo a cui è legato. A differenza dell'infinito, che si caratterizza proprio per il fatto di costituire un modo verbale indefinito, e quindi non categoriale, completamente estraneo a ogni, potremmo dire, misura, peso o valore.

Al Frammento 7/8, vv. 6-11, Giovanni Cerri traduce nel modo seguente:

Allora di via resta soltanto una parola, che "è". Su questa ci sono segnali molteplici, che senza nascita è l'Essere e senza morte, tutto intero, unigenito, immobile, ed incompiuto mai è stato o sarà, perch'è tutt'insieme adesso, uno, continuo.

In Diels-Kranz, il brano è invece tradotto in quest'altro modo:

Non resta ormai che pronunciarsi sulla via che dice che è. Lungo questa sono indizi in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro, tutt'intero, unico, immobile e senza fine. Non mai era né sarà, perché è ora tutt'insieme, uno, continuo.

Potremmo citare altre traduzioni, tantissime altre succedutesi nel corso dei millenni, ma ritengo che sia piuttosto il caso di prestare attenzione al richiamo proveniente dalla parola pensante di Parmenide.

Il termine che Cerri traduce al verso 7 con "è" è il termine greco "estin" (indicativo terza persona singolare del verbo essere). Viceversa, il termine che Cerri traduce al verso 8 con "l'Essere" è il termine greco "eon" (participio presente del verbo essere). Letteralmente, dovremmo allora tradurre il termine "eon", in forma neutra, con "essente" o anche "l'essente" (anche se la forma distinta "to eon" è a esempio riportata ai versi 24, 37 e declinata al genitivo ai versi 40, 42).

Nelle note esplicative alla sua traduzione, Cerri scrive che:

"to eon", "l'Essere" (è qui importante anche annotare che il traduttore trascrive qui e altrove il termine essere con la E maiuscola, nient'affatto in uso nel testo e considerato anche che Parmenide riserva la maiuscola ad altri termini ma mai, è bene ribadirlo, al termine "essere"). Nominato per la prima volta al v. 8, rimasto soggetto sottinteso di tutti gli enunciati successivi, è di nuovo nominato esplicitamente (…) Il discorso di Parmenide riguarda qui l'Essere nella sua totalità: sta dunque dicendo che appunto esso, l'eon, non può perire, non può essere annientato.

E invece, a mio parere, il termine eon non fa riferimento affatto all'essere nella sua totalità, e quindi potremmo anche dire all'essere-intero, bensì all'essere-parte.

Per intendere meglio ciò, lego tale assunto a un altro breve frammento dell'intero testo (frammento 1, vv. 30-31), che lo stesso Cerri traduce nel modo seguente:

Saprai tuttavia anche questo, perché le parvenze dovevano plausibilmente stare in un tutto, pur tutte restando.

Nel frammento in greco, sono presenti sia il termine essere coniugato all'infinito (einai) sia il termine essere reso in forma oggettivale e coniugato al participio (panta … onta). Così che non sembra possano esserci difficoltà ad accostare la prima forma a ciò che il traduttore indica come "tutto", e noi invece, alla stregua di Plutarco, diciamo "intero", e la seconda forma a ciò che il traduttore indica come "le parvenze … tutte", e noi invece, sempre alla stregua di Plutarco, diciamo "parti".

Così che diremo piuttosto che l'espressione "è" del verbo essere al verso 7 per Parmenide indica piuttosto l'"ignoto" o il "divino" o l'"intero" di cui ci parla soprattutto Plutarco nell'adversus Colotem, "ciò da cui", dice Anassimandro, e ciò di cui non è possibile dire altro che una parola, che: "è". Ed è questa la via (cosiddetta) della verità.

Invece, l'essere del verso 8 è l'essere-che è parte e di cui viceversa è possibile farsi e rendere un'opinione. E' questa la via dell'opinione e su questa, lungo di essa, segnali molteplici (vi sono) che senza nascita è l'Essere e senza morte, tutto intero, unigenito, immobile, ed incompiuto mai è stato o sarà, perch'è tutt'insieme adesso, uno, continuo. Ma si tratta pur sempre di opinioni o parvenze plausibilmente in un tutto pur tutte restando.
                                                                                                          Angelo Giubileo

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