fonte LA REPUBBLICA
Il 29 dicembre 1961, al microfono di uno studio radiofonico di Chicago, lo scrittore afroamericano James Baldwin rifletteva su cosa significasse essere nero negli Usa. «Tutto quello che ti viene sempre detto qui è che essere nero è terribile», erano le parole di Baldwin. «Per sopravvivere, devi scavare dentro di te e ricreare te stesso secondo un'immagine che ancora non esiste in America». L'«afrofuturismo» è una delle risposte più affascinanti all'esortazione di Baldwin. Trova un'immagine inedita in galassie lontane - nel misticismo africano, nella mitologia egizia, nell'estetica sci-fi - e la trasporta negli ambiti culturali e nelle forme artistiche più diverse: musica, moda, cinema, design, fumetto, arte digitale, pratiche di meditazione o d'azione sociale.
LA TEORIA «L'afrofuturismo proietta le persone di discendenza africana nel futuro, in una dimensione dove il concetto di razza non è altro che una creazione», spiega Ytasha Womack, autrice di Afrofuturism: The World of Black Sci- Fi and Fantasy Culture, libro che già nel 2013 tracciava la storia di questo movimento culturale e sociale. Quando, a 10 anni, si travestiva da principessa Leila, l'eroina di Guerre Stellari, Womack dimenticava di essere una bambina afroamericana cresciuta a Chicago: era una principessa galattica. E lo è tutt'ora, una ventina di anni dopo (Womack non crede all'importanza dell'anagrafe e non fornisce dati precisi), seduta su una poltrona di Blue 1647, uno spazio coworking e centro di sperimentazione tecnologica in un quartiere latino di Chicago. «La cultura americana è costruita intorno a un'amnesia», dice riferendosi allo schiavismo e al fatto che la storia di milioni di persone affondi le radici nei campi di cotone, nel suono di fruste e catene. Un'immagine perpetuata dalla cultura bianca predominante, ancora viva nelle incarcerazioni di massa e uccisioni di uomini neri da parte della polizia, di cui negli ultimi anni sono circolati video-shock che hanno attirato l'attenzione dei media. «L'afrofuturismo è un corto circuito che può smuoverci da questa condizione, connettendo il passato remoto dell'Africa con la fantascienza e il futuro», racconta Womack.
PROFETI Proiettarsi in dimensioni spazio-temporali lontane, popolate da antichi miti, diviene così un rituale di liberazione. Uno strumento di resistenza culturale e politica che non si fonda sull'opposizione tra le razze, e dunque sull'odio, ma sul superamento del concetto di razza. Sebbene il termine afrofuturismo sia apparso per la prima volta in un saggio del critico Mark Dery nel 1994, negli anni '70 era già attiva una delle sue grandi icone: il poeta e compositore jazz Sun Ra. Nato in Alabama, ma a detta sua originario di Saturno, già ne interpretava l'estetica avvolgendosi in mantelli dorati e indossando copricapi che parevano antenne per la ricezione di energie cosmiche. Negli anni '80 un gruppo di ragazzini neri di Detroit si dava appuntamento nei mondi immaginari di Alvin Toffler per inventare la musica techno. Gli anni '90 hanno invece visto il successo dei libri raffinati e spietati di Octavia Butler, tra i principali riferimenti letterari del movimento, e la riscoperta di vecchie composizioni della pianista Alice Coltrane (seconda moglie di John) nell'album Astral Meditation. A cavallo tra i due millenni, l'uso del termine si è poi disperso, e con esso il dibattito che lo riguardava. Ma una nuova generazione lo ha ora riportato in auge. Non può sfuggire allo sguardo dei fan di Rihanna e Beyoncé, apparse di recente nelle vesti di dee e regine cosmiche, rispettivamente sul magazine W e agli Mtv Video Music Awards. E neppure a quello di chi, a New York nel periodo natalizio, abbia visitato i nuovi spazi del Metropolitan Museum con una retrospettiva dedicata al pittore Kerry James Marshall, tra le fonti di ispirazione del movimento. «Grazie al web e alla tecnologia, gli artisti neri hanno un controllo sulla loro immagine senza precedenti», sostiene Womack. Siti come AfrofuturistAffair.com o profili Instagram come quello dell'artista Joshua Mays esprimono questo movimento di riappropriazione, anche se sono i fumetti i più efficaci mezzi di espressione.
INDUSTRIA CULTURALE La serie Iron Man ha appena dato vita a una nuova eroina, Riri Williams, prodigiosa studentessa di Ingegneria con capigliatura afro, mentre lo scorso anno Marvel ha pubblicato una nuova serie dedicata a Black Panther, il personaggio di Capitan America la cui missione è proteggere Wakanda, una nazione africana di pura invenzione. La scrittura della serie è stata affidata a Ta-Nehisi Coates, giornalista e autore di Between the World and Me, libro che descrive la paura con cui è costretto a vivere chiunque in America abbia un corpo nero. Sotto forma di una lunga lettera al figlio 15enne, Coates racconta anche di quando iniziò a studiare la storia della civiltà nera, all'università. «Lessi della regina Nzinga, che ha governato nell'Africa centrale nel XVI secolo, resistendo ai portoghesi», ricorda Coates. In risposta a un diplomatico portoghese che si rifiutava di porgerle una sedia, Nzinga aveva dato prova del proprio potere ordinando a uno dei suoi consiglieri di mettersi a quattro zampe e offrirsi come sedile umano. «La storia della nostra regalità è un'arma», scrive Coates. «L'elemento da cui ha origine la mia gente è l'acqua e i miei discendenti sono arrivati qui dalla Siria: suona meglio che dire che erano schiavi, no?», chiede con un sorriso Ingrid LaFleur, curatrice e teorica dell'afrofuturismo, nata e cresciuta a Detroit. «Dobbiamo guardare al passato più remoto: solo così inizieremo a vedere lo schiavismo come una deviazione di una storia molto più complessa e ricca di significato». LaFleur ha i capelli come la supereroina di Iron Man, ricci e naturali. «Stirarsi o no i capelli per un'afroamericana è una questione culturale», racconta LaFleur. La generazione delle trentenni sta perdendo l'ossessione della lisciatura, ma «per molto tempo è stata una pratica molto comune e importante». L'assimilazione, spiega, «rende la vita più facile e ti fa credere che puoi aspirare al sogno americano. Che a noi però è stato reso inaccessibile». LaFleur organizza circoli di lettura e cinefestival a tema, con una missione: aiutare la gente di Detroit a reimmaginare la storia, riappropriarsi della propria identità. E del controllo sul futuro nella più grande metropoli black d'America. Mettendo in discussione il concetto di razza, l'afrofuturismo scardina anche le gerarchie di genere. Per Alondra Nelson, docente alla Columbia University, «Afrofuturismo è femminismo ». Womack e LaFleur precisano: non è sfida di genere. «È uno spazio di liberazione per le donne, non in contrasto con gli uomini», dice Womack. «Nell'afrofuturismo non c'è un modo giusto di apparire. C'è solo quello che ancora non esiste» .
http://d.repubblica.it/attualita/2017/01/30/news/movimento_afro_neri_usa_sci-fi_miti_storia_antica_fumetti_rihanna-3396396/
Il 29 dicembre 1961, al microfono di uno studio radiofonico di Chicago, lo scrittore afroamericano James Baldwin rifletteva su cosa significasse essere nero negli Usa. «Tutto quello che ti viene sempre detto qui è che essere nero è terribile», erano le parole di Baldwin. «Per sopravvivere, devi scavare dentro di te e ricreare te stesso secondo un'immagine che ancora non esiste in America». L'«afrofuturismo» è una delle risposte più affascinanti all'esortazione di Baldwin. Trova un'immagine inedita in galassie lontane - nel misticismo africano, nella mitologia egizia, nell'estetica sci-fi - e la trasporta negli ambiti culturali e nelle forme artistiche più diverse: musica, moda, cinema, design, fumetto, arte digitale, pratiche di meditazione o d'azione sociale.
LA TEORIA «L'afrofuturismo proietta le persone di discendenza africana nel futuro, in una dimensione dove il concetto di razza non è altro che una creazione», spiega Ytasha Womack, autrice di Afrofuturism: The World of Black Sci- Fi and Fantasy Culture, libro che già nel 2013 tracciava la storia di questo movimento culturale e sociale. Quando, a 10 anni, si travestiva da principessa Leila, l'eroina di Guerre Stellari, Womack dimenticava di essere una bambina afroamericana cresciuta a Chicago: era una principessa galattica. E lo è tutt'ora, una ventina di anni dopo (Womack non crede all'importanza dell'anagrafe e non fornisce dati precisi), seduta su una poltrona di Blue 1647, uno spazio coworking e centro di sperimentazione tecnologica in un quartiere latino di Chicago. «La cultura americana è costruita intorno a un'amnesia», dice riferendosi allo schiavismo e al fatto che la storia di milioni di persone affondi le radici nei campi di cotone, nel suono di fruste e catene. Un'immagine perpetuata dalla cultura bianca predominante, ancora viva nelle incarcerazioni di massa e uccisioni di uomini neri da parte della polizia, di cui negli ultimi anni sono circolati video-shock che hanno attirato l'attenzione dei media. «L'afrofuturismo è un corto circuito che può smuoverci da questa condizione, connettendo il passato remoto dell'Africa con la fantascienza e il futuro», racconta Womack.
PROFETI Proiettarsi in dimensioni spazio-temporali lontane, popolate da antichi miti, diviene così un rituale di liberazione. Uno strumento di resistenza culturale e politica che non si fonda sull'opposizione tra le razze, e dunque sull'odio, ma sul superamento del concetto di razza. Sebbene il termine afrofuturismo sia apparso per la prima volta in un saggio del critico Mark Dery nel 1994, negli anni '70 era già attiva una delle sue grandi icone: il poeta e compositore jazz Sun Ra. Nato in Alabama, ma a detta sua originario di Saturno, già ne interpretava l'estetica avvolgendosi in mantelli dorati e indossando copricapi che parevano antenne per la ricezione di energie cosmiche. Negli anni '80 un gruppo di ragazzini neri di Detroit si dava appuntamento nei mondi immaginari di Alvin Toffler per inventare la musica techno. Gli anni '90 hanno invece visto il successo dei libri raffinati e spietati di Octavia Butler, tra i principali riferimenti letterari del movimento, e la riscoperta di vecchie composizioni della pianista Alice Coltrane (seconda moglie di John) nell'album Astral Meditation. A cavallo tra i due millenni, l'uso del termine si è poi disperso, e con esso il dibattito che lo riguardava. Ma una nuova generazione lo ha ora riportato in auge. Non può sfuggire allo sguardo dei fan di Rihanna e Beyoncé, apparse di recente nelle vesti di dee e regine cosmiche, rispettivamente sul magazine W e agli Mtv Video Music Awards. E neppure a quello di chi, a New York nel periodo natalizio, abbia visitato i nuovi spazi del Metropolitan Museum con una retrospettiva dedicata al pittore Kerry James Marshall, tra le fonti di ispirazione del movimento. «Grazie al web e alla tecnologia, gli artisti neri hanno un controllo sulla loro immagine senza precedenti», sostiene Womack. Siti come AfrofuturistAffair.com o profili Instagram come quello dell'artista Joshua Mays esprimono questo movimento di riappropriazione, anche se sono i fumetti i più efficaci mezzi di espressione.
INDUSTRIA CULTURALE La serie Iron Man ha appena dato vita a una nuova eroina, Riri Williams, prodigiosa studentessa di Ingegneria con capigliatura afro, mentre lo scorso anno Marvel ha pubblicato una nuova serie dedicata a Black Panther, il personaggio di Capitan America la cui missione è proteggere Wakanda, una nazione africana di pura invenzione. La scrittura della serie è stata affidata a Ta-Nehisi Coates, giornalista e autore di Between the World and Me, libro che descrive la paura con cui è costretto a vivere chiunque in America abbia un corpo nero. Sotto forma di una lunga lettera al figlio 15enne, Coates racconta anche di quando iniziò a studiare la storia della civiltà nera, all'università. «Lessi della regina Nzinga, che ha governato nell'Africa centrale nel XVI secolo, resistendo ai portoghesi», ricorda Coates. In risposta a un diplomatico portoghese che si rifiutava di porgerle una sedia, Nzinga aveva dato prova del proprio potere ordinando a uno dei suoi consiglieri di mettersi a quattro zampe e offrirsi come sedile umano. «La storia della nostra regalità è un'arma», scrive Coates. «L'elemento da cui ha origine la mia gente è l'acqua e i miei discendenti sono arrivati qui dalla Siria: suona meglio che dire che erano schiavi, no?», chiede con un sorriso Ingrid LaFleur, curatrice e teorica dell'afrofuturismo, nata e cresciuta a Detroit. «Dobbiamo guardare al passato più remoto: solo così inizieremo a vedere lo schiavismo come una deviazione di una storia molto più complessa e ricca di significato». LaFleur ha i capelli come la supereroina di Iron Man, ricci e naturali. «Stirarsi o no i capelli per un'afroamericana è una questione culturale», racconta LaFleur. La generazione delle trentenni sta perdendo l'ossessione della lisciatura, ma «per molto tempo è stata una pratica molto comune e importante». L'assimilazione, spiega, «rende la vita più facile e ti fa credere che puoi aspirare al sogno americano. Che a noi però è stato reso inaccessibile». LaFleur organizza circoli di lettura e cinefestival a tema, con una missione: aiutare la gente di Detroit a reimmaginare la storia, riappropriarsi della propria identità. E del controllo sul futuro nella più grande metropoli black d'America. Mettendo in discussione il concetto di razza, l'afrofuturismo scardina anche le gerarchie di genere. Per Alondra Nelson, docente alla Columbia University, «Afrofuturismo è femminismo ». Womack e LaFleur precisano: non è sfida di genere. «È uno spazio di liberazione per le donne, non in contrasto con gli uomini», dice Womack. «Nell'afrofuturismo non c'è un modo giusto di apparire. C'è solo quello che ancora non esiste» .
http://d.repubblica.it/attualita/2017/01/30/news/movimento_afro_neri_usa_sci-fi_miti_storia_antica_fumetti_rihanna-3396396/
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