ETNOLOGIA....FERRARESE
NUOVA FERRARA
La geografia ferrarese? È sul muro delle sagre (L’editoriale del direttore STEFANO SCANSANI de LA NUOVA FERRARA)
Per capire com'è commestibile la patria ferrarese, dalla Stellata fino a Mesola, bisogna che contempliate un muro per affissioni. Sembra fatto apposta per chi si ferma al rosso del semaforo e deve decidere che cosa fare stasera, ultimo segmento di via Piangipane che sfocia in piazza Travaglio. Un parato di manifesti. Salama, lumaca, cinghiale, macedonia, arrosticino, cotoletta. Stop. Vongola, storione, tartufo, cappellaccio. Stop. Rana, stop. Una selva di sagre. Una tappezzeria della divorazione felice delle identità (nostre, più o meno). Il muro delle sagre è la carta geografica del Ferrarese festante, mangereccio, delle Pro Loco e dei volontariati vari, del liscio e della panca, dell'umidità e dell'appartenenza. Per chi arriva da fuori e ha naso, occhi e pancia per siffatte feste paesane, la scoperta dell'atlante delle sagre ferraresi è una stupefazione. Un attentato al metabolismo. E, dico la verità, la sensazione è che qui, fra il Po, il Reno, il Panaro, l'Adriatico funzioni tutto l'anno l'ingranaggio del bengodi. Duecento sagre tematiche, sostenute da squadre grembiulate di volontari che lavorano a tutta randa. Mezzo milione di porzioni di cibi impiattati nei 365 giorni di un'annata, perché spesso le manifestazioni hanno due versioni stagionali. I commercianti vedono tutti questi arrosti come il fumo negli occhi. Vado usando un lessico zeppo di metafore gastronomiche perché la disfida e la polemica fra le tensostrutture pop e i ristoratori di mestiere issano il mangiare ad economia. Mercoledì la Nuova aveva titolato "Troppe sagre, così ci rovinano", per portare in sugo ristretto la questione: da una parte le feste di paese con le loro rappresentanze sovraprovinciali e da quell'altra l'Ascom di Cento che ha irradiato il problema a tutto il territorio. Il caso ferrarese - sono franco - è assolutamente interessante, perché raro. Mentre in zone vicine sussiste la sagra connessa al patrono che poi si è più o meno trasformata in fiera d'ordine mercantile che in parallelo cuoce, frigge e griglia, da noi il parallelo è andato a farsi benedire. Ogni cantone della provincia estense, superando il calendario del santo martire dottore della Chiesa, in questi ultimi anni è andato cercandosi un nuovo blasone alimentare collettivo. E' un fenomeno antropologico singolare. In un paese che grandissimo non è come Casumaro impera la lumaca che s'è fatta in due in altrettante distintissime feste. Da un'altra parte, a Codrea, è vivido un pezzo d'Abruzzo con la sagra dell'arrosticino, mentre Final di Rero ha inventato la sagra della macedonia. E Berra, che non è da meno, esibisce la sagra della zanzara, che non si mangia ma imperversa come insetto creativo nella lista delle vivande. E' una gustolandia dove il nostrano, il foresto, l'invenzione, l'impossibile e l'estero carburano tutt'insieme un menu infinito e finito. Qualcuno potrebbe cominciare con gli antipasti al Gavello e, viaggiando, atterrare e atterrarsi con i dolci a Renazzo (per dire) nella stessa giornata. Senza contare che l'autostima è altissima e calorica. Mi viene in mente il bell'esempio di Mirabello dove ha casa la sagra della cotoletta. Che non vi venga in mente di obiettare che la verace e sacrosanta è quella milanese che già battaglia per origini e perfezione con l'austriacante wienerschnitzel. I mirabellesi vi diranno che la loro è unica, che la ricetta è autoctona, che i meneghini e gli asburgici c'entrano un'acca. La loro è la meglio. E qui sta la chiave culturale della sarabanda delle sagre ferraresi. Barbara Bonazzi, presidente della Pro loco sfila dalla memoria comunitaria la maniera delle trisnonne di vivificare la carne della gallina sobbollita che già aveva dato tutto al brodo della festa. Riciclo. La polpa ormai denaturata ritrovava un quid gustoso e attraente con una giusta concia e l'impanatura con Grana, latte e uova. Di seguito la gallina vecchia si fece porcello perché il benessere allontanò dal nostro tempo le braghe di tela e la fame atavica. E' una storia di teste, più che di stomaci, estratta dal passato e trasfigurata in festa di paese da solo l'anno scorso. Se le sagre sono o fossero così possono vantarsi d'essere figlie della storia, e le trattorie e i ristoranti locali trarre vantaggi dalle stesse radici per il resto dell'anno. Ma la disparità fra la ristorazione volontaristica e quella d'impresa è irrisolvibile, anche con accordi contro gli sconfinamenti e patti di non aggressione. Perché è il consumatore va dove lo porta il cuore (con l'appetito e il portafoglio).... C