Valentino Tartari "Io sono Calipso" Este Edition (prefaz. Claudio Cazzola) recensione di E. Diedo

Valentino Tartari

Io sono Calipso

Prefazione di Claudio Cazzola

In copertina Nike di Samotracia, attribuita a Pitocrito, Museo del Louvre di Parigi

Este Edition srl, Ferrara 2012, pp. 48, € 8,00

 

Visto l’introduttivo prologo tipicamente monologico ed il conclusivo epilogo, che ne costituiscono gli estremi poli, questo testo del giovanissimo Valentino Tartari (classe 1993) respira l’aria d’una prosa pertinente alla musa Talia, secondo l’impostazione della rappresentazione teatrale greca, nella sua fattispecie tipicamente drammatica. Proiettandosi perciò oltre l’apparente, riduttiva inquadratura narrativa che la pubblicazione vorrebbe suggerire. Tra l’altro, pensandone una drammatizzazione, le sue intermedie sette sequenze, emule d’una più congeniale diversificazione in capitoli, ben fungerebbero da singole ‘scene’, data la loro esemplare malleabilità rappresentativa. Tali innegabili affinità teatrali naturalmente non possono sfuggire alla meticolosa, quanto specialistica, attenzione del prefatore Claudio Cazzola.

Non passi inosservato che, per quanto giovane sia, l’autore non è nuovo ad impegnative pubblicazioni letterarie: si considerino almeno un paio di suoi saggi usciti nel 2009 e nel 2012.

Io sono Calipso è titolo eloquente che denota un imperituro parlare, appropriatissimo nel riferimento alla ninfa Kalypso d’omerica invenzione. Mitologica creatura, esplicativa d’una divinità minore, coinvolta in un eterno esistere, sorta d’impenitente ‘demone del tempo’, dimorante nell’isola di Ogigia, presumibilmente coincidente all’odierna isola di Gozo, dislocata nell’arcipelago maltese. Di fatto Io sono, nel suo predicato indicativo irreprensibilmente presente denota, nell’allegorica accessione dell’opera, il parlare sempre attuale, eternamente vivo, dell’autoreferente deità, interprete d’un ipotetico, fantastico diario. Uno scrivere, quello della ninfa, che, avendo quale punto di riferimento storico (prima scansione del libro) il quadriennio dall’approdo, ad Ogigia, di Ulisse, re d’Itaca decantato da Omero nell’altrettanto immortale poema Odissea (è risaputo: Ulisse = per l’appunto a Odisseo), giunge, ripercorrendo la storia, per altrettanto contestuali scansioni, agli anni nostri.

Il luogo è, dall’inizio alla fine, sempre un’Ogigia, che, nella proiezione temporale finale (Epilogo), che ne colloca ai giorni nostri la storia, è frequentatissima meta di turismo. Cosicché al posto d’un sito originariamente solitario e desolato che, esclusa l’oasi-gabbia della protagonista Calipso, era misera sabbia ed esclusivo parco di flora e fauna marina, ormai è un pullulare di genti provenienti da tutte le parti del mondo.

Prologo ed Epilogo a parte, le scansioni del libro sono, già s’era anticipato, esattamente sette come sette furono gli anni di permanenza di Ulisse ad Ogigia.

Sette parti che scannerizzano, come bagliori di fotografici flashback, ma con intensità metaforica e poetica, la permanenza e poi la partenza di Ulisse (1183 a.C.), nonché le immaginarie presenze del cartaginese Annibale (218 a.C.); di Scipione Emiliano, che sconfisse appunto Annibale ed il suo elefantesco esercito (134 a.C.); di Giulio Cesare e del persiano Serse, sedicente “re dei re” (46 a.C.); di Cesare Adriano (117 d.C.); ed infine, prima dell’assoluta attualizzazione del tempo supportata nell’Epilogo, richiamante lo scenario delle intraprendenti spedizioni in capo al mondo dei primi viaggiatori, navigatori, esploratori, nonché il passaggio definitivo dal culto politeistico a quello monoteistico, concretizzantesi in erezioni di grandiosi, imperiosi templi a livello pressoché mondiale (1205 d.C.).

Sorta di pièce che, accanto alla sempre seducente finzione legata all’eternità del personaggio ed eroina Calipso, disvela in primis la ricerca d’un grande amore perduto. Appare alquanto palese che il suo sia un inappagato vagare nei meandri di Spes, nell’impossibilità della riconquista d’un Ulisse in verità mai suo, ma del quale se ne sarebbe nutrita per sette anni. Non a torto Valentino Tartari appone quale sottotitolo (cosa che avviene però solo all’interno del libro, a p. 3) L’eterna ricerca dell’amore perduto.

Scritto innegabilmente classicheggiante, vibrante, vitalmente poetico e, per la giovane individualità dell’autore, propedeutico, a mio modo di vedere, ad una crescita letteraria improntata ad avvincenti epos.

 

 

 

Emilio Diedo

 

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