mercoledì 18 febbraio 2015

La questione shakespeariana

 Pierluigi Casalino

Tra le numerose questioni letterarie, non prive anche di valore storico, sorte lungo i secoli, che hanno occupato e occupano ancora le menti degli studiosi e le considerazioni della critica, ma anche la passione del pubblico e dei lettori, ve ne sono tre che restano a tutt'oggi profondamente aperte. E soprattutto si staccano sulle altre, per l'importanza complessiva dei contributi che incessantemente ne arricchiscono le bibliografie: la questione omerica, l questione dantesca e la questione shakespeariana. E, circostanza singolare, per quanto l'interesse di tali questioni non possa essere condizionata solamente dalla grandezza di quei poeti, pure, come per caso, le tre figure attorno alle quali è nato e si e sviluppato una tale quantità di discussioni storiche, biografiche, estetiche ed etiche, ideologiche, critiche e altre ancora, per cui senza fine si è disputato e si disputa ancora (e si disputerà in futuro), sono, per universale e tradizionale consenso, le più alte che l'umanità, nella sublimazione di sé stessa e dell'arte poetica, abbia fino ad ora saputo esprimere. Non con questo che le rimanenti siano da giudicarsi inferiori, ma nessuna raggiunge i vertici che queste hanno raggiunto e che continuano a raggiungere nell'esperienza di esse e nella loro rappresentazione. Se le prime due questioni sono vive da secoli, peraltro, quella relative al Grande Bardo è venuta crescendo da quasi un secolo e mezzo. Non è qui il momento di affrontare il senso della questione shakespeariana in relazione alle sue opere maggiori, che impiega già gran parte dello studio dedicato all'Autore inglese. Anche su questo punto - quello dei Sonetti - qualcuno in modo ricorrente ha voluto contestarne la paternità. Né vogliamo addentrarci sull'insidioso terreno di fantasiose congetture o spingersi verso lidi improbabili che ne rigettano il genio originale. E infatti l'unico modo di conoscenza diretta dei Sonetti è quello costituito  da un testo del 1609, dato alle stampe, vivente ancora lo stesso Shakespeare, anche a riprova che in quell'epoca era possibile pubblicare un libro senza il consenso dell'autore. Shakespeare era all'apice della carriera e della notorietà teatrale e non pare tuttavia che queste opere minori abbiano incontrato analogo favore. E ciò al punto che queste preziose antologie saranno nel tempo quasi dimenticate. la cosa rilevante resta, comunque, che salvo qualche elemento dubbio, esse sembrano veramente farina del sacco di Shakespeare. Ricche di lirismo e di fascino suggestivo ed  accattivante, pochi oggi mettono in dubbio l'autenticità di esse. Ancor meno augurabile è stato e sarebbe invischiarsi nel problema dell'ordine di esse. Cero in esse si ritrova solo in parte lo Shakespeare poeta e drammaturgo, ma non manca quello spirito creativo che attraversa l'opera omnia. si coglie in esse la risonanza dell'animo segreto di Shakespeare, la giovanile preziosa parentela con quest'ultima, se ne sente la vibrazione ed il carattere costitutivo originario. in ultima analisi quelle costanti rintracciabili nel resto dei lavori del genio di Stratford-on-Avon. In queste pagine minori si ritrovano esplorazioni e rivelazioni dell'anima dell'uomo - e poco importa se si tratti dell'uomo Shakespeare o semplicemente, come è stato scritto, dell'Uomo - In esse possiamo riconoscerci e rinnovarci.
Casalino Pierluigi, 10.02.2015           

martedì 17 febbraio 2015

ANTEREM Notizie Premio di Poesia Lorenzo Montano





Ai poeti che negli ultimi tre anni hanno pubblicato un libro di poesie e ai loro editori

Gentile lettrice, caro lettore,
se Lei ha pubblicato un libro di poesie negli ultimi tre anni, potrà partecipare alla sezione "Opera edita" del Premio di Poesia Lorenzo Montano (XXIX edizione).
Al poeta vincitore sarà attribuito un premio in denaro.
Il volume sarà inoltre presentato in autunno nell'ambito di una grande manifestazione pubblica nella Biblioteca Civica di Verona.
Troverà indicazioni precise per la partecipazione sul sito
www.anteremedizioni.it/xxix_edizione_premio_lorenzo_montano
In attesa di leggere il Suo libro – che potrà essere inviato al Premio anche via e-mail in formato PDF –, La salutiamo con cordialità.

Flavio Ermini
 

LA RUSSIA DI PUTIN OVVERO LA RUSSIA DI SEMPRE

C'è stato un momento in cui Putin citava il Trattato della Pace Perpetua di I. Kant, ora, pur di fronte ad una crescente e preoccupante congiuntura economica, mostra i muscoli al mondo. Impegnato nella crisi di Crimea (un déjà vu nella storia russa) e soprattutto nel Donbass al fine di riaffermare "l'unità spirituale con gli ucraini", sfidando l'Occidente e la sua credibilità di nuovo zar. E anche questa non è una novità per la Russia. Alla testa di una crociata per riorganizzare il postsovietismo e riorganizzare la Russia come interprete e guida panslavista (cioè la Santa Russia di sempre), cavalca la diversità del suo Paese. Putin incontra così il consenso dell'80% dei suoi concittadini, agitando l'antiamericanismo e la sua missione salvifica. Una missione che coinvolge e ed usa l'intelligenza russa verso esiti di nuovo imperialismo russo. Putin fa il verso a Stalin? Forse, ma se lo fa lo fa con rinnovate prospettive globali. Della Russia, diceva sempre mio padre, Michele Casalino, il protagonista del mio IL TEMPO E LA MEMORIA, tutto sorprende e nulla sorprende:la Russia è sempre la Russia. Questo è anche il senso di un saggio recente Tempo di Seconda Mano sulla Russia contemporanea, la cui autrice, Svetlana Aleksievic. Ma come si diceva la vera sorpresa è che nella mente di Putin c'è un disegno o visone di ben più ampio respiro. Le citazioni a getto continuo del leader russo testimoniano la sua adesione alle idee di un autore russo a molti poco noto, Ivin Ilin, diventato il pensatore di riferimento di Putin. Putin è certamente, dati suoi trascorsi, è un sovietico di base, ma ha sposato la sua via russa alla rigenerazione del mondo secondo un simbolismo bianco ed autoritario da "dittatura democratica" o "nazionale", anzi" internazionale" o meglio "internazionalstica", Il sogno euroasiatico di Putin è quello dello zarismo più ancora di quello sovietico, però. E nel nome di questi principi avversi a quelli di un'Occidente ipocrita difensore di una libertà e di una democrazia false, Putin chiama a raccolta l'Europa di Joseph De Maistre. Si tratta di un'ambizione verticale che fa riflettere, nel bene e nel male, Il fatto che in Putin convivano Ilin, Berrdiajev e Stalin rinvia a sviluppi storici tutt'altro che decifrabili a breve. E tutto ciò aldilà della crisi mediorientale, destinata come tutte le altre a non lasciare il segno se si allargano orizzonti finora impensabili. Qualcosa che sa d'antico, quando La Russia era un pilastro della Santa Alleanza scaturita del Congresso di Vienna.

lunedì 16 febbraio 2015

1918. Dall'armistizio tra Alleati e tedeschi al trattato di pace.

Come si è detto, l'armistizio del 1918 fu più che una cessazione del fuoco. Le sue clausole furono accuratamente formulate in modo da garantire che la Germania non potesse riprendere la guerra. I tedeschi dovettero cedere grosse scorte di materiale bellico, ritirare le loro forze al di là del Reno, e consegnare la flotta perché venisse internata. Gli Alleati occuparono la riva sinistra del Reno e le teste di ponte al di là del fiume. Queste clausole servirono al loro scopo: nel giugno del 1919, quando i tedeschi discutessero se firmare o no l'armistizio, il loro Stato Maggiore dovette, se pur riluttante, riconoscere che una ripresa della guerra era impossibile. Ma l'armistizio rivestiva un altro aspetto: mentre vincolava i tedeschi per l'immediato, vincolò gli Alleati per il futuro. Questi erano ansiosi di ottenere che la nazione tedesca riconoscesse la propria sconfitta; e perciò l'armistizio fu firmato con rappresentanti del governo germanico, non con una delegazione militare. I tedeschi riconobbero debitamente la loro sconfitta; in cambio - e quasi senza senza rendersene conto - gli Alleati riconobbero il governo tedesco. Alcuni intraprendenti francesi cercheranno poi di far entrare il separatismo dalla porta di servizio; alcuni storici dalle grandi idee lamenteranno che non venisse disfatta l'opera di Bismarck. Ma fu invano. Per quanto riguardava la prima guerra mondiale, l'armistizio sistemò la questione dell'unità tedesca. La Monarchia Asburgica e l'Impero Ottomano sparirono; il Reich tedesco continuò ad esistere. Di più: non solo gli Alleati riconobbero il Reich tedesco, ma la sua conservazione  divenne per loro indispensabile se si voleva mantenere l'armistizio. Gli Alleati si trovarono così mutati, senza consapevole proposito, in alleati del Reich contro tutto quello che ne minacciasse la distruzione, contro cioè il malcontento popolare, contro il separatismo, contro il bolscevismo ed altro. Tutto questo fu portato ancora più avanti dal trattato di pace, sempre senza deliberata volontà. Tutto il resto è un'altra storia.
Casalino Pierluigi, 8.02,2015

domenica 15 febbraio 2015

ARABESCHI per la modernità islamica?

 Casalino Pierluigi

Sul non ancora compiuto ingesso dell'Islam nella modernità e nel razionalismo operativo, secondo un processo avviato da Ibn Rushd (l'Averroè latino) si è discusso e si discute a lungo anche alla luce di una perdurante manifesta divaricazione tra l'Islam intellettuale e quello tradizionale. Uno, invece, degli auspici più ricorrenti e non solo nel mondo arabo, è quello che si riaffermi l'autonomia e la specificità dell'Arabismo rispetto al generale contesto islamico.al fine di non esserne coinvolto in un generale appiattimento ideologico. Tale tentativo, iniziato nel XIX secolo proprio durante il dominio coloniale europeo, si andò progressivamente affievolendo al sorgere del contrasto modernità-tradizione. Le idee liberali di origine occidentale, peraltro, e la scoperta dell'identità araba nel quadro del movimento del riscatto nazionale dei popoli dell'Africa e dell'Asia, suscitarono nelle genti di lingua araba, in particolare contro l'imperialismo turco, favorita dagli eventi maturati intorno alla prima guerra mondiale, e dal delinearsi dei nuovi equilibri internazionali, si intensificò nel secondo dopo guerra. L'avvio della fase post-coloniale e l'ascesa delle due superpotenze vincitrici, gli USA e L'URSS, incoraggiò lo spirito nazionalistico arabo e la spinta al rinnovamento di quelle società. L'appesantimento del clima politico generale, conseguenza della guerra fredda, l'esplodere del conflitto palestinese e la reazione neo-islamica alle riforme civili e sociali promosse dalle élites laiche nazionalistiche, provocarono tuttavia una battuta d'arresto e un conseguente arretramento del processo rinnovatore. La crisi e l'eclissi dell'ordine dell'ordine di Yalta e la generale incertezza della situazione geopolitica, con sempre più evidenti segni di disagio e di contestazione nei confronti del disegno della globalizzazione, hanno finito per riacutizzare i rapporti tra le diverse  culture e ad aprire inquietanti orizzonti per la sicurezza e la libertà dell'umanità. Gli effetti dell'approfondirsi del divario Nord-Sud del mondo e il permanere di endemici ed irrisolti problemi di giustizia hanno avuto sui popoli arabi una ricaduta negativa non paragonabile a quella di altre aree della Terra. Il senso di frustrazione e di risentimento verso l'Occidente, il deficit democratico e il riemergere incontrollato dei fantasmi dell'intolleranza e del fanatismo hanno condizionato in  termini drammatici l'opinione pubblica araba. Ciò nondimeno intellettuali e personalità arabe si interrogano sulla capacità di quei popoli di uscire dallo stato profondo di malessere in cui versano da tempo. La crisi della cultura araba non può certo essere affrontata con il ricorso ad un islamismo militante e regressivo o con un sensibile ripiegamento nazionalistico, né con una meccanica trasposizione di regole e di forme di governo secolare nel tradizionale ambiente permeato di pregiudizi anti-moderni, viste spesso come un'imposizione esterna. L'attuale aspro confronto inter-islamico tra la concezione messianico-imperiale dello shiismo iranico e la differenziata e inquieta comunità sunnita araba spinge a spezzare il pesante condizionamento confessionale sul destino degli arabi, risolvendolo in una guerra ben più spietata. Ibn Khaldun, il più grande grande sociologo di tutti i tempi, scriveva nelle su Muqaddimmat (Introduzioni) già nel XV secolo di fronte al declino dell'Arabismo classico, quanto influisse sul crollo del califfato e sulla fine dell'indipendenza araba, con il prevalere di dinastie musulmane non arabe , il venir meno della credibilità delle istituzioni a causa della corruzione e dell'incapacità di affrontare un serio progetto di cambiamento. In "Maometto e le conquiste arabe", il grande arabista italiano scomparso Francesco Gabrieli, già sessant'anni fa, in proposito commentava con parole profetiche il mancato rinascimento arabo:" E' il torbido presente dei popoli arabi:", che della conquistata indipendenza non sembrano fare buon uso, logorati come sono da piaghe economiche, da un complesso di frustrazione e di xenofobia e da sterili rancori nazionalistici (oggi, diremmo,non di rado sfociati nel fanatismo religioso). Una volta constatati irrealizzabili i sogni di rinnovata potenza dovrebbero agire su di essi con l'ispirazione a risalire in modo degno questa china pericolosa". E aggiungiamo noi liberandosi dai demoni che ne continuano a sottomettere la libertà di pensiero e l'aspirazione al progresso civile.
, 2.02.2015