domenica 22 marzo 2015

Marinetti 70, Ferrara Italia intervista Antonio Saccoccio

Per il settantesimo anniversario della morte di Marinetti (1944-2014) è stato anche edito da poco il volume “Marinetti 70. Sintesi della critica futurista”, a cura di Antonio Saccoccio e del futurista ferrarese Roberto Guerra, pubblicato da Armando editore. Nel libro, inserito nella collana Avanguardia 21, figurano alcuni dei principali storici e critici del Futurismo (E. Crispolti, G. Berghaus, G.B. Guerri, G. Di Genova, P. Valesio ecc.). Lo stesso Marinetti – episodio poco noto, segnalato da Giovanni Antonucci nel suo contributo al volume – fu protagonista a Ferrara, nel 1929, per le celebrazioni ariostesche con una conferenza in stile futurista sull’Ariosto.
Ad Antonio Saccoccio  di Roma (Università Tor Vergata di Roma) abbiamo chiesto un approfondimento.
Cosa successe a Ferrara alle Mura degli Angeli? Perché venne scelto proprio quel luogo?
Il 7 luglio 1929, in occasione delle celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto, F.T. Marinetti tenne un discorso pubblico sulle Mura degli Angeli di Ferrara. Precisò tre anni dopo lo stesso Marinetti: “improvvisai all’enorme pubblico seduto o sdraiato sull’alto bastione fiorito e ombroso di Ferrara una lezione di Futurismo estratta precisamente dall’Orlando Furioso”. Nella prima parte del suo discorso Marinetti si scagliò contro il “feticismo passatista” nemico dell’ottimismo futurista. Successivamente elencò gli “insegnamenti ultrafuturisti” contenuti nell’opera dell’Ariosto, di cui ricordo qui i più significativi: compenetrazione tra arte e vita, velocità, aggressività eroica, passione sportiva, gioia distruttiva e creazione dell’effimero, “senso trasformista della vita”, ottimismo assoluto, sintesi, simultaneità, instancabilità, “giocondità goliardica beffatrice” e “senso aviatorio”. La conferenza si concluse sorprendentemente con il ricordo di un momento di vita familiare, in cui la “pupa Vittoria”, figlia primogenita di Marinetti, diventava il simbolo della spontaneità iconoclasta che anima bambini e poeti.
Quali influenze futuriste/marinettiane ci furono a Ferrara? Attualmente, resiste qualche eco in città?
Quando si parla di Futurismo a Ferrara non si può non ricordare Corrado Govoni, uno dei poeti più originali del gruppo futurista. Voglio ricordarvi il testo di una lettera che Govoni scrisse a Marinetti nel 1910, una lettera da cui emerge in poche righe il suo complesso rapporto con il futurismo e al tempo stesso con la città estense: “Oh il divino sopore, la deliziosa pigrizia che hanno invaso tutto il mio essere al mio giungere a Ferrara! Vi assicuro che a Ferrara solo si può realizzare il sogno di Buddha, il nirvana profondo con annientamento di pensiero e cure moleste e inerzia sensitiva. So bene che il nirvana non fa per voi; ma perché non dovrebbe essere l’ideale di un futurista distruttore come siete voi? Io credo che ogni opera di distruzione dovrebbe avere lo scopo di non più ricostruire. Allora tanto vale lasciare intatte le costruzioni esistenti, non vi pare? Dunque, distruggendo senza l’intenzione di rifabbricare, dove si arriva? Al nirvana sublime suddetto. Tutto questo per farvi conoscere che anche a Ferrara si può vivere una vita importante e amabile”. Come si può intendere, Ferrara è descritta come una città sonnolenta e passatista, ma per Govoni anche una città siffatta può avere qualcosa di amabile.
E Ferrara è anche la città di un futurista contemporaneo…
Sì, attualmente vive a Ferrara uno dei futuristi contemporanei più noti, il poeta Roberto Guerra, che conduce un’instancabile attività editoriale e promozionale. Non a caso l’instancabilità è tra le qualità futuriste da me ricordate a proposito del discorso marinettiano sull’Ariosto. E non a caso Guerra è co-curatore con me proprio dell’ultimo libro su Marinetti.

FERRARA ITALIA


FUTURI a Roma



FUTURI a Roma
22 marzo 2015 - Italian Institute for the Future



sabato 28 marzo alle 19.30, l'Italian Institure for the Future (Napoli) tornerà a parlare di scenari futuri a Roma alla Libreria Café "N'Importe Quoi" (via Cenci 10).   un'occasione importante per incontrarai...  soci e follower romani e rip rendere il discorso lanciato con il quarto numero della rivista FUTURI, in vista della pubblicazione del prossimo numero.

Ne parleranno
  • Carolina Facioni, sociologa e ricercatrice all'ISTAT
  • Emmanuele J. Pilia, curatore della collana di Transarchitettura di Deleyva
  • Fabiola Riccardini, economista e prima ricercatrice all'ISTAT
  • Francesco Verso, direttore di "Future Fiction".
Presenterà l'incontro il presidente dell'IIF, Roberto Paura.

Troverete gli ultimi numeri di FUTURI e la ristampa del libro "Futuro in progress" a prezzo scontato. In omaggio per tutti i partecipanti - fino a esaurimento scorte - la speciale bag dell'IIF.

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sabato 21 marzo 2015

Recensione/resoconto su Giovanni Sessa, Itinerari della Tradizione

Itinerari della Tradizione. L'origine e il sempre possibile, di Giovanni Sessa (Solfanelli) è uno dei libri del 2015 probabilmente più interessanti e rilevanti: appena uscito è già ampiatemente discusso e presentato.  Ancora recentemente, ad esempio (gennaio) a Milano da cui questa recensione-resconto dello stesso Sandro Giovannini, poeta e saggista Urfuturista che ne segnala, tra diversi punti, forse certà sua novità peculiare, come fare Tradizione 2.0, creatività transtemporale perfettamente al passo con le vette ancora in penombra, forse, del nostro tempo, nelle nuove rotte del fare bellezza e "spirito" quantomai urgente, oltre la falsa dicotomia, avanguardia e appunto Tradione o Tradizionalità o Protofuturo.. nota di R.G.

di Luigi Sgroi
Di fronte ad un interessato pubblico e con la cortese ospitalità della libreria milanese Odradek, che ancora qui si ringrazia, abbiamo presentato il bel libro di Giovanni Sessa, con una premessa di Sandro Giovannini, una sintetica introduzione di Davide Bigalli ed una altrettanto significativa rilettura complessiva dell'autore.

Giovannini ha richiamato l'effetto duraturo della precedente monografia di Giovanni Sessa, dedicata alla figura di A. Emo, come la cornice entro la quale anche questi saggi qui raccolti in volume, si sono determinati, pur nella differenziazione delle rispettive specifiche indagini, sottolineando la precisa caratterizzazione fattane dal Prof. Bigalli nella Presentazione che coglie la sostanza complessiva del libro di Sessa. Illuminanti due passaggi della stessa Presentazione:

" ...Ebbene, è proprio nella misura in cui la Tradizione si pone come polo dialettico, come elemento di un complesso dinamico insieme alla rivoluzione, che essa si denuncia come posizione culturale decisamente non reazionaria, come strumento di un progresso che è finalmente sottratto alla egemonia dello sviluppo, cioè alla dimensione meramente quantitativa, materialistico-produttivistica del cammino dell'umanità.  Torna forse opportuno ricordare come in altra area culturale dell'Occidente, la coppia di tradizione e rivoluzione ritorna nelle posizioni programmatiche del saudosismo di Teixeira de Pascoaes, nel programma della Renascença Portuguesa  A indicare come, proprio a partire dalla Rivoluzione francese, nella cultura dell'Occidente si viene formulando una proposta alternativa, che denuncia e intende sottrarsi all'egemonia dell'Ulisse giacobino, alla lettura mercantilistico-capitalistica del progresso, a una democrazia che, fin dalle sue prime formulazione teoriche in Rousseau, non riesce a occultare la sua natura dispotica. È il costituirsi di un pensiero dissidente.
(...)
In un mondo come l'attuale, dove il termine "altro" e i suoi derivati viene visibilmente impiegato in tutti gli ambiti e serve a dare una dimensione auratica alla banalità del quotidiano borghese, viene rimossa la reale alterità, quell'alterità che è scaturigine della umanità, l'elemento stabile che accompagna il percorso dell'uomo lungo i corridoi del tempo..."

Tale seconda rilettura sarà ripresa anche nel successivo dibattito con il pubblico, che verterà sulla necessità del superamento definitivo della visione dicotomica, spostando proprio nel Soggetto, nuovamente responsabilizzato, la ricerca del vero e del giusto.  Nel libro comunque si richiama insistentemente il contesto filosofico, ancora pienamente ricco di effetti ed in realtà aggravato nella crisi ma non mai risolto in definitive soluzioni epocali che ha caratterizzato tutta l'epoca della modernità, nelle grandi figure dell'idealismo, nelle due versioni jenese ed heidelbergeriana, e soprattutto in quella sorta di suprema mediazione e sintesi di Schelling, fino allo scatenamento nihilista, che riattraversato nella dimensione del transattualismo emiano e dell'ultraidealismo evoliano, ambedue sui generis, trovano poi in tutte altre voci, ben diverse per corpo e tonalità, le grandi lezioni di Jung ed Hillman e quelle, mai ben accolte e mai d'altronde fortunatamente superate, di Colli e di Zolla, tutte sempre comunque attente al grande lavoro fatto dalla Scuola di Vienna ed a quella sorta di obbligata postumità: «L'uomo postumo non è soltanto l'uomo che sopravvive come mero fantasma alla fine del Soggetto. È anche l'uomo che inizia l'ascolto dell'Ab-grund»  come già a suo tempo repertava Cacciari in Dallo Steinhof...  Giovannini ha insistito proprio sulla differenza di linguaggi riconducibili però (per vie del tutto interne, ma se comprese, ben risalibili), ad una sostanziale unità di visione del mondo che non è materia divisiva se non per i letteralisti di ogni scuderia e per i pervicaci sostenitori delle divisioni dettate dal tronfio mercatismo universalista e dal feroce globalismo del pensiero unico, sotto le spoglie pecorine d'irreversibile e parcellizzato consumismo e di disgregato umanitarismo disidentitario. 

Bigalli ha poi riaffermato, nel suo veloce intervento,  la necessità di una lettura dialettica, non nella pratica di riduzione, comunque operata dalla materialità progressiva o dallo spiritualismo parolaio, quanto in una giusta applicazione della "coppia degli opposti", con insistite e pertinenti citazioni che ora, nella modernità più estrema, ci supportino ad una responsabilità:

"...di critica non reazionaria del moderno, di tentativo di coniugare tradizione e socialità. Un mondo nel quale c'è ancora  tanto da scavare, per riuscire a dare un volto plausibile al Novecento, aldilà  degli  anatemi e delle immaginette.  In questo compito, Giovanni Sessa è prezioso aiuto..."

Giovanni Sessa ha poi ripercorso velocemente il dettato di tutto il suo libro che, pur dividendosi in cinque saggi di diverso tema, ha una compiuta univoca direzione di significante, prima ricordandoci alcuni esempi di metodo tradizionale, direttamente od indirettamente esplicato, nei casi di Spann, Heinrich, Bachofen, Evola e Zolla e poi riconducendoci, nella lettura anassimandrea di Heidegger ed in quella sempre anassimandrea di Colli, al centro di tutta la sua ricerca filosofica, cioè  alla esegesi dell'Arché, come originario e sempre possibile, con le giuste puntualizzazioni rispetto ad ogni tipo di montante scolastica.

Il  lavoro complessivo di Sessa risulta come il più spinto tentativo attuale, compiuto con un rigore  massimo di  rispetto dei testi ed una contemporanea massima capacità di visione, di  ricomprensione di tutta una ricerca filosofica e di tutta una temperie spirituale, che ora chiede una nuova udienza proprio a fronte della massima caduta delle attese e delle speranze, nell'ottica di un pensiero di tradizione, capace per forza e retaggio di non perdersi ed anzi di ritrovarsi pienamente, fuori dall'atomizzazione e dal narcisismo.                  

Il futuro anteriore di Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri * di Pierfranco Bruni

 

 

                  

In un tempo di sradicamenti Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri sono i profeti da rileggere oltre la cronaca della politica

 

di   Pierfranco Bruni

 

 

          

    Non illudiamoci ancora. La nostra epoca ha dimenticato l'identità culturale e ha perso le eredità filosofiche. Occorre rileggere e proporre. Gioacchino da Fiore è una presenza costante nella storia della cristianità. Utopia, eresia, viaggio nella religiosità. Un viaggio profetico che ha tante avventure da raccontare. Ma Gioacchino è un modello che caratterizza tutti i processi culturali che ha poi l'identità cristiana e di fede in tutti i secoli successivi in una dimensione in cui ricerca della fede significa anche ricerca di una centralità dei valori della profezia.

   Ernesto Buonaiuti in un suo saggio dedicato al De articulis fidei di Gioacchino da Fiore ha sottolineato: "E se i pontefici romani si sbarazzarono del gravoso onere della potestà politica e ne delegarono il mandato agli imperatori, lo fecero unicamente per non mescolare la milizia di Dio alla burocrazia temporale. Ma il gesto di Costantino, innalzante il pontificato dalla condizione di soggetto e di minorato a dignità di potenza e di comando, fu, oltre tutto, un meraviglioso gesto simbolico, prefigurante il momento in cui, alla fine del mondo, il Signore Gesù avrebbe trionfalmente e definitivamente sottoposte tutte le nemiche autorità della terra, ai propri piedi".

   In un quadro in cui le tragedie dominano lo scenario si ha bisogno di ritrovare l'identità del sacro. L'uomo deve superare le burocrazie temporali e i popoli non hanno soltanto la necessità di affidarsi alla democrazia o alle democrazie ma devono recuperare la solidarietà dell'unione che significa legittimare un futuro grazie ad una eredità che non può che leggersi nel testo messianico della rivelazione.

   Viviamo un passaggio epocale che viene ad essere contrassegnato da un rapporto tra il contemporaneo e il moderno. In questo rapporto si inseriscono le tracce tematiche che hanno caratterizzato il tempo delle civiltà e lo hanno innescato nelle evoluzioni delle culture. Il contemporaneo e il moderno ormai fanno parte della nostra esistenza del presente e nel presente. Si riscoprono i luoghi e i personaggi si rileggono nella loro storica fisionomia.

   L'intellettuale è un giocoliere che sa stare al gioco e i filosofi esteti ridisegnano il cerchio mentre i teologi discutono sull'avventura di Dio e i religiosi pongono la questione della riappropriazione del mistero. In questo nostro tempo c'è una leggerezza delle idee che va di pari passo con il pensiero debole. Il moderno e il contemporaneo si servono di questi modelli che sono i testimoni della stagione delle ideologie.

   Siamo attratti dal crepuscolo delle ideologie perché veniamo attraversati costantemente dalla debolezza o dalla necessità del contemporaneo. Il senso religioso è senza ideologia perché è nel di dentro dei segreti che il mistero si rivela. Rivelandosi ci permette di scoprire o riscoprire il valore della vita, i sentieri che si intrecciano nelle culture, i significati del sacro.

   Un interlocutore che ritorna a dialogare tra il moderno e il contemporaneo, pur essendo antico, è Gioacchino da Fiore. Perché, ci si chiederà, riproporre Gioacchino da Fiore in un clima di confusioni radicali e di post – determinismo ideologico? Questo tempo che consuma tutto come potrà dialogare con l'abate cistencense che

visse tra il 1135 e il 1202?

   Nella cultura occidentale l'abate calabrese resta una figura centrale. Ed è tale  sia per gli scritti che ha lasciato sia per i suoi comportamenti che sono sempre oscillati

tra l'eretico e l'utopico. E' certamente uno dei filosofi che ha fatto da apri pista per le problematiche che ha messo in moto una temperie di conflitti e di contraddizioni etiche, morali ed esistenziali.

      Il tempo della ciclicità è in Gioacchino da Fiore  una motivazione storica e culturale che ha dei presupposti profondamente religiosi. Le sue tre grandi età sono una manifestazione che caratterizzerà tutto lo svolgersi della filosofia vichiana e i relativi orientamenti della critica sul mito, sul tempo della memoria, sulla rivelazione mistica.   


 

   Gioacchino da Fiore nel Liber concordiae Novi ac Veteris Testamenti offre la meditazione sulla ciclicità. Le età sono gli "stati del mondo". E' proprio in questo libro che l'abate dichiara: "Il primo è quello in cui siamo vissuti sotto la legge; il secondo è quello in cui viviamo sotto la grazia; il terzo, il cui avvento è prossimo, è quello in cui vivremo in uno stato di grazia più perfetta".

    E l'analisi continua su una triplice valenza. E si ha: scienza, sapienza, intelletto.  Così di seguito sino ad arrivare agli ultimi stati che ci danno questo quadro: "Il primo riguarda il periodo di settuagesima, il secondo quello della quaresima, il terzo le feste pasquali. Il primo stato appartiene dunque al Padre, che è autore di tutte le cose; il secondo al Figlio, che si è degnato di condividere il nostro fango; il terzo allo Spirito Santo, di cui dice l'Apostolo: 'Dove c'è lo Spirito del Signore, ivi  è la libertà'".

   Infatti le tre età sono riassumibili in questa sfera: l'età del Padre, l'età del Figlio, l'età finale dello Spirito. Nel corpus di questo viaggio c'è l'intelligenza spirituale la cui figura dell'angelo assurge a simbolo. Anche qui si dimostrano e si manifestano gli intrecci ciclici. Nell' Expositio in Apocalypsym  si legge: "Nella terra, che è l'elemento inferiore, si designa la lettera dell'Antico Testamento, nel mare la lettera del Nuovo Testamento, nell'iride, che compare in mezzo alle nuvole del cielo, il significato spirituale, che scaturisce dall'uno e dall'altro".

   La terra e il mare sono non solo elementi partecipativi nella ciclicità del confronto tra tempo e civiltà. Sono portatori di identità e di appartenenza. E proprio per questo Gioacchino da Fiore costituisce il "proposito" di un radicamento che trova nell'Antico e nel Nuovo Testamento la Redenzione che ci farà approdare ad nuova Era. La religiosità senza il mistero non avrebbe senso. Ma lo stesso viaggio messianico si legge nelle metafore della terra e del mare. Ovvero dell'acqua e del deserto. Sono questi i due principi fondanti che ci conducono verso una rivelazione che non può essere soltanto storia ma soprattutto fede. Lo svolgersi di questa attesa

messianica ci avvicina non alla realtà storica ma alla memoria che è lo svolgersi di una rivoluzione cristiana. In questa dimensione di fede il dibattito tra modernità e contemporaneismo è una chiave di lettura fondamentale per afferrare l'importanza del cristianesimo nell'età attuale e diventa necessaria alla luce dell'offerta problematica che ne fa Gioacchino da Fiore. Una chiave di lettura che deriva da due riferimenti centrali. Il simbolo e il sacro.


 

    Ha scritto giustamente Ernesto Buonaiuti: "Impazientemente proteso verso la veniente libertà dello spirito, Gioacchino intende così il mondo delle realtà trascendentali, come il passato rivelato e storico, quali immense e dense parabole, di cui occorre cogliere i significati riposti e i valori tipici. Tutto, nella parola di Dio affidata alla Scrittura… deve essere inteso come una tessitura prodigiosa di simboli e di sacramenti, la cui realtà non velata sarà posseduta unicamente nel nuovo regno Spirito, mentre finora è rimasta oscura e indecifrata".

   I simboli e le metafore circondano tutta l'opera dell'abate calabrese. Alla incombente visione di attualizzare il moderno, nel suo contesto storico e nella nostra realtà epocale, si contrappone la visione del "sempre" attraverso il messaggio della evangelizzazione che Gioacchino propone costantemente anche alla luce dei continui sdradicamenti che hanno attanagliato tutte le civiltà e tutte le età. Ci sarebbe bisogno di ridare voce al pensiero metafisico della contemplazione per riconquistare il senso che manca a questo tempo di perdute memorie e di facili euforie.

   La profezia non è un miraggio. E' la metafora che si racconta nella nostalgia del futuro. Pietro De Leo in Gioacchino da Fiore Aspetti inediti della vita e delle opere ha sottolineato: "Modello o no, Gioacchino fu l'abate asceta di un ordine profetico, proiettato nei tempi escatologici, più che in quest'età che li precede. Gioacchino abate appare per questo un precursore, anche se per molti aspetti la sua vita e il suo messaggio costituiscono ancora oggi un problema".

   Forse fu un eretico. Ma di una eresia di cui questo nostro tempo ha perso il valore. Le sue utopie sono state sconfitte dalla burocrazia del potere. Come avvenne per Dante, di cui il legame con l'abate è una testimonianza spirituale ed etica, l'eresia e l'utopia rappresentarono un modello di vita. Ma sia Dante che Gioacchino oggi non sono moderni o contemporanei o attuali. Sono i profeti che hanno disegnato le immagini nelle quali ci perdiamo.  Restano i profeti oltre la cronaca della storia.




Birdman recensione del film con Emma Stone






 recensione di Daniela Rispoli

Birdman
USA 2014
Regia: Alejandro González Iñárritu
Un attore nella morsa dei rimorsi di una profonda crisi d’identità al culmine di un’esistenza scandita tra l’essere e l’essere stato.  Uno snodo di vicende tra la voce di Riggan che è, e la voce off di Birdman che è stato. Una voce, quest’ultima, roca e polemica e che esordisce su un’inquadratura dello stesso Riggan di spalle che levita come il migliore dei fachiri  lamentando odore di palle sudate (odore di Broadway per intenderci, o meglio quell’angolo che Riggan riesce a ritagliarsi di Broadway), non paragonabile di certo al profumo di dollari di Hollywood di cui Birdman è stato un’icona che ha radunando un esercito di seguaci innamorati di un mucchio di penne. L’ansiolitica voglia di ribalta di Riggan rifiuta, o meglio condanna la frivolezza del personaggio Birdman e di quello che ha rappresentato, e tra la fantasia (di levarselo di torno) e la realtà (di fallire nell’impresa di dimenticarlo), prova a tutti i costi a dimostrare che non può essere una maschera di piume e un becco, che non può essere un uomo-uccello che si libra in cielo a decretare la grandezza di un attore. Un super eroe, l’ennesimo inventato da quella macchina delle meraviglie che è il cinema statunitense d’effetto e spettacolarità; una maschera che attira perché ha il volto nascosto dalle fattezze di un volatile (emulando quello più famoso, quello nero, gotico, col mantello e la super macchina, interpretato dallo stesso Riggan/Keaton), attira perché ha un migliaio di visualizzazioni sul suo canale youtube, orde scatenate di followers su  twitter o una pagina facebook con almeno un milione di likes. Può definirsi ,dunque, serietà questa per un attore? No di certo. E allora basta uccelli che volteggiano in aria, basta esplosioni, basta palle di fuoco volanti e via del buon vecchio teatro ripercorso e indagato nelle viscere da un persistente perfetto piano-sequenza, fra quei corridoi e quelle stanze popolate da figlie strambe ma al passo coi tempi, da attrici che, stufe degli uomini sbruffoni e incapaci di tenere a bada un’erezione, si lasciano intenerire da un lieve tocco saffico. Uno sfondo di teatro, vita reale, e cinema. Mondi paralleli quello del grande schermo e quello del palcoscenico che si intersecano proponendo un dialogo interessante e confondente tra il vecchio e il nuovo, tra la follia e l’equilibrio, tra l’essere e l’interpretare. Un Edward Norton irresistibile, un Michael Keaton che fa sentire tutta la crisi del Riggan di turno, e anche di più. Una Emma Stone forse più presente di Naomi Watts. Da Oscar? L’Academy Award dice di sì.

DA.RI.
Bologna 19 febbraio 2015