giovedì 6 giugno 2013

Ecopolitica a Ferrara: fanfaroni e fanfaronate

 

Le fanfaronate dei fanfaroni


Non casca il mondo se icittadini ignorano che le centrali elettriche “turbogas” nonpossono esser usate come biciclette condotte secondo i gusti delciclista. È necessaria solo agli addetti ai lavori la consapevolezzache le turbogas debbono erogare cospicue potenze minime (anche il 60%della potenza massima), al di sotto delle quali è impossibilerispettare i valori limite di emissione di NOx e di CO e restareentro la convenienza economica. È ovvio quindi che il ferraresemedio sia all’oscuro delle limitazioni dei due mastodontici gruppi(400+400 MW) della turbogas SEF che il Comune ha autorizzato entro ilpetrolchimico (in pratica a km 0 da Ferrara), per le quali nonpossano assolutamente funzionare col solo carico del petrolchimico,che abbisogna di 2-3 decine di MW elettrici. Ma casca l’asino seignora quel dettaglio tecnico anche chi ha consentito, favorito emagnificato, la furbata di privare il petrolchimico di autonomiaenergetica in cambio della turbogas. Non gliel’ha ordinato ildottore, all’amministrazione, di vivere culturalmente di renditacol pochino imparato a scuola e, basandosi su quella miseriaformativa, gestire una realtà complessa a suon di propagandaparolaia senza tentare di colmare lacune. Nel caso in questione, ilimiti delle turbogas sono reperibili facilmente su internet. Chesuccede ora, quando la turbogas SEF dovrebbe rimanere spenta? Da dovespillano il vapore indispensabile ai reparti senza far girare leturbine? A dispetto di annosi trionfalismi, l’amministrazione hadovuto prendere atto che nel petrolchimico l’energia elettricacosta perfino più cara del 15% rispetto alle tariffe pubbliche! Perforza! Visto che la centrale è costretta ad andare anche quando nonconviene! Una debacle immane per il petrolchimico già in affanno disuo, che se avesse ancora la propria autoproduzione (come ènell’ortodossia degli stabilimenti importanti) pagherebbe l’energiache gli serve al solo costo del combustibile impiegato.

Fra i tanti aspetti dicui l’amministrazione si deve profondamente vergognare, subito dopoil disastro dell’ospedale di Cona (la sanità a km 15 mentre siauspica la verdura a km 0), c’è la crassa ignoranza con cui hagestito la questione turbogas. Eppure, vediamo consiglieri comunalidi maggioranza che invece di indossare cilici si esibiscono infanfaronate. L’ultimo dei quali, e non solo in ordine diapparizione, è il Tafuro, impiegato del Petrolchimico palesatosi inun pistolotto dal titolo “Sullo sviluppo sostenibile del polochimico”. Che scriva in un italiano claudicante, passi. Cheparli del “consigliere comunale che per anni ha sprecatoenergie cercando in ogni modo di far chiudere il petrolchimicoferrarese” (senza far nomi, sennò Tavolazzi lo portadritto in tribunale), provando a spacciare per una trionfa il due dicoppe sotto bastoni, è scusabile: gli immigrati non conoscono iltrionfo, peculiarità ferrarese come la sala da sugo. Ma nell’impetomeridionalistico al Tafuro scappa detto pubblicamente quello chepoliticanti e sindacati è meglio che tacciano per non dimettersi:“la turbogas del nostro petrolchimico deve marciare per darevapore agli impianti”. Siamo alla Sagra Paesana delRendimento Energetico.

Oltre a palesarel’incredibile noncuranza per un mostruoso handicap elargito alpetrolchimico, il nostro eroe sembra non comprendere che a togliereil tappo di sentina ad una vecchia barca che fa acqua, questaaffonda. Chi glielo fa fare alla barca PD di tenersi elementi similifra l’equipaggio?


Paolo Giardini

Paradossologia: Piero Sansonetti... la sinistra è di destra? *by Fondo Magazine

QUALE FUTURO?
Piero Sansonetti 


 
 
(PIERO SANSONETTI, estratto)
 
La sinistra si trova in una selva oscura, senza bussola, e deve trovare la via d'uscita. Le abitudini che ha preso nell'ultimo ventennio la spingono a cercare un aiuto che venga da fuori. Il vecchio vizio: Stalin, l'armata rossa, la Resistenza, Moro, le brigate rosse, Craxi, Blair, i giudici e infine Monti. Se non supera questo riflesso condizionato, se non rinuncia al Deus ex macchina, è spacciata. Morirà.
È immaginabile un Occidente – o comunque un'Europa ‒ senza sinistra, interamente piegato sul liberismo, privo di conflitti consistenti, guidato da una oligarchia incontrastata? Diciamo che è difficile immaginare una simile "stasi" in una situazione di pieno funzionamento della democrazia. La democrazia è un meccanismo che rifiuta l'assenza di conflitti e che comunque produce idee e alternative. Sono cose che stanno nel suo Dna e sono ineliminabili.
L'impressione però è che l'Europa sia entrata in una fase della sua storia nella quale la democrazia è sospesa. Da una parte la velocità imprevista della globalizzazione, dall'altra la quasi scomparsa delle funzioni degli stati nazionali hanno provocato un divorzio talmente rapido tra sovranità popolare e potere di decisione da provocare un vero e proprio collasso della democrazia. È saltato il percorso tradizionale che conduceva dal meccanismo elettorale al potere di Stato, perché è saltato il potere di Stato ed è uscita di scena la politica (esautorata dalla globalizzazione e delegittimata dall'attacco concentrico delle borghesie e della macchina dell'informazione). Con la democrazia in mora, per la prima volta nella storia recente, la scomparsa della sinistra dalla scena è una eventualità tutt'altro che impossibile. La sinistra non sempre produce democrazia ma la sinistra non può vivere senza democrazia.
Perciò è inutile sperare ancora una volta in un aiuto esterno, e cioè nella certezza che siccome in politica non esiste il vuoto, comunque vada una sinistra esisterà sempre. Non è così: il rischio scomparsa è consistente. E la possibilità di evitarlo non è nelle mani del destino ma solo ed esclusivamente nelle mani della sinistra stessa.
Cosa si può fare? Innanzitutto bisogna cercare di individuare gli elementi essenziali che negli ultimi due decenni hanno "tarpato le ali". Credo che uno di questi sia stato la divisione. E cioè l'accettazione, da parte di tutti i gruppi dirigenti della sinistra, dell'idea che è bene che le sinistre siano due. La sinistra radicale e la sinistra moderata. E che di volta in volta queste due sinistre possano allearsi o invece combattersi. Sulla base di che cosa? Di due visioni diverse del mondo, della società e dell'economia. L'idea che ha prevalso è che questa diversità era la ricchezza della sinistra. Perché le permetteva di tenere al suo interno, pur nella sua articolazione partitica, "pezzi" di società molto diversi.
La convinzione che l'Italia avesse bisogno di due sinistre, naturalmente, ha sempre avuto una motivazione, per così dire, "storica". Visto che è dal 1956 che le sinistre in Italia sono due e molto importanti. La sinistra comunista, rappresentata per mezzo secolo dal più forte partito comunista di tutto il mondo libero; e la sinistra socialista, più vicina alla sinistra europea, molto attiva ma sempre con la "zavorra", come si è visto, della sua scarsa forza elettorale. Lo schema delle due sinistre, che ha dominato l'ultimo ventennio, è in gran parte eredità della vecchia diarchia di comunisti e socialisti. Solo che la divisione ha perso la sua forza di origine. Nel senso che la ragione della divisione tra socialisti e comunisti era evidentissima, sin dall'atto di nascita di questa divisione, e si chiamava Urss, Mosca, comunismo reale, culto della libertà. I socialisti non accettavano la dipendenza del Pci da un mondo illiberale che aveva portato all'invasione dell'Ungheria. E infatti la rottura tra Pci e Psi nacque in quei giorni, mentre i carrarmati russi occupavano Budapest per stroncare una ribellione operaia liberale, arrestavano il presidente Imre Nagy, comunista dissidente, e lo impiccavano. La concezione totalitaria della politica che era molto forte nel Pci, specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta, era un motivo assai robusto di divisione in due della sinistra. E a rappresentare le due sinistre c'erano due parole fortissime e piene di contenuti, e di storia, e di teorie politiche: riformista e rivoluzionario.
La divisione in due della sinistra, successiva alla caduta del muro di Berlino nell'1989, francamente, è stata assai più fragile. In gran parte era una contrapposizione di nomi, di parole, di bandiere, di gruppi dirigenti. Naturalmente questo non vuol dire che non ci fosse anche una sostanziosa differenza di linee politiche. Chiaro che c'era e che c'è ancora, e riguarda essenzialmente il giudizio che si dà sul liberismo. Ma una differenza di linee politiche si affronta con gli strumenti della politica, e non può essere messa sullo stesso piano della vecchia incompatibilità ideologica, insuperabile, che c'era tra Pci e Psi.... C
http://www.mirorenzaglia.org/2013/05/piero-sansonetti-la-sinistra-e-di-destra/

Politologia: Quando la Russia era l'URSS

 

A  metà degli anni Settanta nella serie delle sue essenziali e suggestive narrazioni dedicate alle vite di uomini illustri o Paesi lontani, Enzo Biagi, giornalista ora scomparso, pubblicò "LA RUSSIA VISTA DA VICINO", libro illuminante sulla società sovietica brezneviana, che stava vivendo una stagione di stalinismo senza lacrime, dopo l'effimera e tormentata primavera krusceviana. "Quando dico che vado in URSS", Biagi precisava, "non posso che dire vado in Russia". L'URSS non era dunque altro che la Russia e come sempre non era tutta feste e caviale, nonostante le trionfalistiche gesta dei cosmonauti e delle sonde spaziali verso la Luna, Venere e Marte. Esce in questi giorni un interessante saggio destinato ad evocare proprio quelle atmosfere, 1961-1964, L'Unione Sovietica che ho conosciuto" dell'ex comunista e funzionario di partito Camillo Ferrari ed edito da De Ferrari, Genova, al prezzo di 14 euro. La Russia sovietica del disgelo e dell'impresa di Yuri Gagarin, del confronto con l'Occidente e del crescente dissenso ideologico e geopolitica con la Cina di Mao, emerge dalla viva ricostruzione di Ferrari, che anticipa quei segnali di progressiva disaffezione al sistema e il manifestarsi delle contraddizioni e delle disillusioni che ne portarono al crollo nel 1989-1991. La condivisione degli ideali comunisti non impedì a Ferrari di cogliere i limiti di un mondo che, proprio all'inizio del lungo inverno brezneviano, stava mostrando sempre di più il carattere russo che non comunista. Il Marx sovietico parlava un linguaggio grande russo e stentava a stare al passo con una realtà internazionale che andava complicandosi, mettendo in crisi il modello uscito da Yalta, con l'irrompere di nuovi ed imprevedibili protagonisti. La scena interna ed esterna alla Russia recepiva gli echi di un mutamento d'accento degli equilibri scaturiti dalla seconda Guerra Mondiale. La stessa successiva esperienza gorbacioviana porrà in luce la progressione di tale processo, con la disintegrazione del socialismo reale. Le sensazioni e le atmosfere della Russia di Kruscev e di Breznev, attraverso gli occhi e il racconto di Ferrari ci riportano indietro nel tempo, ma parimenti ci consentono di leggere le vicende di quei giorni non solo alla luce delle considerazioni dell'epoca, ma anche dell'attualità.
Casalino Pierluigi, 6.06.2013 

Postfuturismo- la rosa esatta di Munari

 

***VIDEO

 
Nel 1963, cinquant’anni fa, venne pubblicato per la prima Good Design di Bruno Munari, riproposto nel 1998 dalla casa editrice Corraini. È un piccolo libro di 31 pagine che analizza tre oggetti naturali – l’arancia, la rosa e i piselli – come fossero oggetti di design. In questo modo, per esempio, l’arancia diventa «un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione e consumo» mentre la rosa è definitva un oggetto «inutile», «complicato da usare», «perfino immorale».
Bruno Munari nacque nel 1907 a Milano, dove morì nel 1998. È stato una figura centrale del design del Ventesimo secolo e si è occupato anche di pittura, grafica, pubblicità, fotografia, arte programmatica e cinetica. Da giovane frequentò il Futurismo, negli anni Trenta progettò le macchine inutili (come il «motore a lucertola per tartarughe stanche» o «l’agitatore di coda per cani pigri») e nel 1948 fondò il Movimento Arte Concreta (MAC), che promuoveva un tipo di astrattismo geometrico. Munari continuò a sperimentare anche nel secondo dopoguerra (per esempio con le sculture da viaggio in cartoncino pieghevole, le sperimentazioni cinematografiche e le performance artistiche), e il suo pensiero e le sue opere ottennero sempre maggior fama internazionale. Nel 1977 creò il primo laboratorio per bambini in un museo, nella Pinacoteca di Brera a Milano. Realizzò la sua ultima opera a 91 anni, a Milano, pochi mesi prima di morire.

***

La forma segue la funzione
Gian Battista Lamarck

Una razionale concezione della funzione sociale dell’Industrial Design, non può che rinnegare quella produzione, purtroppo molto diffusa, di oggetti assolutamente inutili all’uomo.
Oggetti nati da mere ipotesi, con scopi legati soltanto al più banale senso di decorazione, gratuiti e ingiustificati, se pure, in alcuni casi formalmente coerenti.

Si sa però che la coerenza formale, da sola, non basta a giustificare oggetti prodotti senza alcuna analisi preventiva delle possibilità di mercato, anzi favorisce una dinamica sociale di tipo emulativo invece di suscitare un interesse diretto per il prodotto qualificato.

Un'illustrazione della rosa in Good Design

Uno di questi oggetti è la rosa. Oggetto di grandissima produzione (produzione invero caotica e disordinata dove l’economia non è tenuta in alcun conto) formalmente molto coerente e piacevolmente colorato, con i canali di distribuzione della linfa ben calcolati e distribuiti con precisione eccessiva anche nei punti dove non sono in vista. Nervature in vista nelle foglie dentate. I petali dalla curva elegante (si pensi a un Pininfarina, mentre il calice ricorda la linea Venini 1935), la chiara disposizione imparipennata delle foglie e la loro razionale disposizione lungo il ramo, non sono elementi sufficienti a giustificarla come oggetto d’uso, a grande diffusione.... C
 
http://www.ilpost.it/2013/06/03/bruno-munari-rosa-good-design/
 
http://futurismoroma2013.blogspot.it/2013/04/miroslava-hajek-bruno-munari-condizione.html

mercoledì 5 giugno 2013

Futurismo storico: Marcello Francolini, La città che sale di Boccioni

Boccioni.jpg

La città che sale: Quadro notissimo di Umberto Boccioni, opera fondante, insieme al Manifesto di Fondazione del 1909 del pensiero complesso del Futurismo. Una città che sale, che si erge espandendosi verso il cielo. Il suo muoversi in un insieme vorticoso, quelle folle agitate, maree multicolori o polifoniche, diventano un mare di onde-forza astratte create dalle groppe dei cavalli che spingono, folla di muscoli che si scontrano, si intersecano, si compenetrano. Sono architetture balenanti al sole con un luccichio di coltelli, tutto è strutturato fin dentro la materia, finanche lo spazio si solidifica nella sua struttura atomica, il corpo è colto nel pieno della sua plasticità, appunto una città che sale, una gloria plastica del salire.

Si vede in quest'opera già una simultaneità delle immagini; questa plastica forza astratta esplodente da un corpo in moto o da una intera emozione vissuta; la plastica della velocità e la compenetrazione della figura con l'ambiente.

Non più pittura della rappresentazione ma pittura dello stato d'animo.

Appunto di sensibilità si parla, ma non una sensibilità esclusiva, mirante solo al senso artistico; quest'opera è un occasione per Boccioni di teorizzare visivamente un pensiero sulla società, della quale intuisce un cambiamento, uno squilibrio della normale routine classica, un movimentismo d'azione che genera un tumultuoso divenire. In quest'opera non possiamo soffermarci solo a constatare la forma; è ovvio che ci troviamo ancora in una primissima fase del futurismo giacché abbiamo ancora a che fare con un opera sostanzialmente pittorica, ma che sembra già protesa verso una automizzazione genetica e strutturale dell'immagine, non più condizionata da un rapporto rappresentativo ma costruita in una propria autonoma dimensione progettuale. Dobbiamo tenere conto del contenuto sotteso, del giudizio ontologico dell'opera, per dirla alla Crispolti. C’è la pre-visione del pensiero futurista verso la società da venire, a partire proprio dal connubio tra scienza e tecnologia che dalla II° Rivoluzione industriale aveva iniziato ad accelerare il processo di trasformazione del vivere quotidiano. Nasce la città-cantiere, l'industria si potenzia, la tecnologia militare si affina nella sua perfezione meccanica, si sviluppa la fotografia, la telegrafia, nasce la cinematografia, la chimica entra prepotentemente nell'industria generando i prodromi di quella produzione di realtà artificiale, riprodotta in laboratorio. Proprio quella sensibilità chimica che i futuristi utilizzeranno come base per una più vasta sensibilità lirica della materia. In questa visione non c'è differenza tra natura e artificio, non è l'uno a sfavore dell'altro e tanto meno il secondo sostituisce il primo, è semplicemente la costatazione di una natura diversa, che ha guadagnato dei valori aggiunti, positivi o negativi che siano, e così si è trasformata ponendosi ai nostri occhi come un mondo nuovo. Quest'intuizione sta alla base della complessità del pensiero futurista, l'arte-vita come necessità storica.

Il mondo per i futuristi è uno spazio vitale non determinato né determinabile a priori e di conseguenza l'arte che ne risulta è essa stessa indeterminabile, aperta (nel senso semantico della significanza). Forse è leggibile così la frase famosa “noi siamo i primitivi di una nuova arte” giacché i futuristi aprono a un immaginario nuovo. Se è vero che il Futurismo nasce sin da subito come movimento poetico, la poesia come ci ricorda Platone, anticipa nuovi scenari, ha in ciò un carattere universale.

Il pensiero futurista coglie il cambiamento in atto, la comunicazione, le reti, i mercati, i trasporti, i rapporti sociali, l'arte, tutto subirà un cambiamento di stato, rinnovandosi. Ciò scatena un entusiasmo ottimista nel pensiero futurista, che spesso è stato superficialmente ridotto ad una fiducia incondizionata nel progresso scientifico, ma esso è solo la punta dell'iceberg, obbligo nostro è smettere di guardarlo dalla superficie, metterci la muta e scendere al disotto per sondare ciò che è oltre l'apparenza, oltre la prima vista, a un metro di profondità, a cento, duecento metri, fino al fondo. Quel fondo che nel Futurismo è la costruzione del mondo, che passa necessariamente per l'affermazione dell'uomo come essere indeterminato, “un animale non fissato una volta per tutte (Nietzsche)”. I Futuristi in ciò vanno oltre, non è discorso confinato all'arte, ma alla vita appunto, ma non la vita quotidiana, una vita possibile all'interno di un mondo in continuo cambiamento, un vivere in divenire. L'arte-vita è un concetto fondante del pensiero futurista, ma spesso è stato travisato per giustificare qualsiasi esperienza artistica nel Novecento. All'estremo opposto dell'arte-vita c'è il pointing duchampiano, quella pratica per cui anche un semplice gesto di puntare il dito verso un grattacielo diventa un momento artistico. Ulteriore avanzamento del concetto di ready-made che già prevedeva la possibilità di prelevare estratti di quotidianità per elevarli ad opere d'arte combinandole a proprio gusto, il pointing in un certo senso compie quel processo di santificazione dell'artista, inteso come artista genio, per questo essendo i suoi geni immutabili e radicati in lui tutto ciò che fa assume valenza artistica. Quest'intendere così l'arte-vita ha generato nel tempo, ieri ed oggi non poca confusione di ciò che i futuristi volevano intendere, non certo parlavano di esclusività genetica, anche perché in geni non si trasformano nell'arco della vita, restano immutabili. Questo è necessariamente un pensiero individualista, che poco si confà alla pratica movimentista del futurismo, la creatività nasce in contrasto e sintonia coll'esterno, e quindi non è certo un chiudersi nell'arte, ma un aprirsi alla vita. In definitiva non si pratica un arte-vita perché si è artista a priori, al di sopra degli altri. La questione genetica al Futurismo non interessa, del resto sarebbe come possedere uno spazio definito, e i futuristi volevano arrivare alle stelle, e poi tutto diventerebbe una essenza fissata una volta per tutte, rassicurante, (che è anche una permanenza immutabile, proprio come i geni). Al contrario, per i futuristi possedere uno spazio vitale indeterminato indica la mancanza di una simile essenza, non in senso letterale, bensì nei termini per cui la peculiarità di un tale essere è il non essere fissato una volta per tutte. Il Futurismo risulta così un eccedenza, una fatale tensione a proiettarsi al di là del semplice dato delle condizioni naturali, tentando di modificare la sensibilità tutta, riunendola nel dualismo di corpo e mente. Un'arte che si sviluppa a partire dalla sensibilità che non è altro che il modo più diretto per interagire con lo spazio della vita, e che a suo modo non può che richiedere una partecipazione diretta tra l'artista, il suo operare e gli altri, tutti. Una pratica collettiva, questa è l'arte-vita, l'utopia di una società che attraverso l'arte trova se stessa. Non è certo l'arte che genera i significati all'interno di se stessa per darli poi ad una società pronta a raccoglierli in modo passivo (un Duchamp ad esempio sembrerebbe vincolato ad un dato oggettivo, la cui pratica è quella di limitarsi a mostrare diversamente il presente, e riqualificare così la realtà senza possibilità di confronto) non un arte-vita vista dall'arte ma vista dalla vita e quindi non un arte relegata nel proprio ambiente, ma un arte come ambiente non ambiente, cioè mondo. Una città che sale.

 

MARCELLOFRANCOLINIcorpocomune