giovedì 19 marzo 2015

Ernest Hemingway, Cesare Pavese nella letteratura che è vita? Oltre il realismo c’è sempre la realtà del magico? di Pierfranco Bruni


Perché non smette di far sentire la sua voce il mio  Ernest Hemingway  stretto al mio Cesare Pavese nella letteratura che è vita?
Oltre il realismo c'è sempre la realtà del magico?
di Pierfranco Bruni                 


      C'è un viaggio mai esplorato. Pur se si concretizza nella dimensione dell'onirico. La letteratura. Ernest, Cesare, Marylin, Costance, io e altro…Quando Ernest Hemingway si uccise aveva la mia età. Ernest è nella mia vita da anni antichi. Quel "vecchio"  il "mare" che lessi  in quegli anni del liceo ora è diventato il libro del destino. Gli addii, le solitudini, la consapevolezza che la morte è nella vita. Sono i viaggi che hanno accomunato la mia scrittura a quella di Ernest. Sono passati anni dal giorno in cui lessi quelle pagine. Raccontando Ernest racconterei il mio rapporto con la sua "storia"…
Gli addii sono ciò che non capì Moravia. La solitudine e la morte sono i percorsi mai compresi dal vuoto letterario di Calvino e sempre catturati da Pavese. Ernest non è lo scrittore della leggerezza. È lo scrittore del labirinto soprattutto con il tocco della campana. Se si dovesse raccontare Ernest Hemingway, in un rapporto tra vita e letteratura, non basterebbe un solo romanzo di quelli che sono stati pubblicati in vita.
Romanzi che, a volte, richiamano il "diario" nel senso delle annotazioni del suo essere, del suo sentire e del suo vivere che si trasformano in immagini narranti. Ma che lasciano un tracciato in cui l'avventura, pur non essendo parossistica, diventa deflagrante in termini letterari. Non solo romanzi. Anche poesia. Le 88 poesie sono il segmento del legame morte vita e vita suicidio. Comunque in Hemingway resta nevralgico il rapporto tra vita e letteratura. E non è soltanto una chiave di lettura per comprendere, nei suoi virtuosismi e nei suoi vizi o nei suoi malesseri, l'uomo. E' piuttosto un intreccio caratteriale che contraddistingue lo scrittore – uomo o l'uomo – scrittore. Hemingway sapeva benissimo che senza scrittura il suo stesso quotidiano non aveva ragione di esistere. Trasformava ogni passione (dall'amore al viaggio, dalla frenesia che lo colpiva in quella incostante inquietudine alla morte) in avventura dello scrivere. Pur tuttavia non si può considerare uno scrittore – diario ma uno scrittore – avventura. Ma anche un avventuriero che aggrediva il tempo fino a quando il tempo non lo aggredì.
      Ebbene, 21 luglio 1899. Nasce nell'Illinois a Oak Park. La sua biografia lo fotografa senza mezzi termini come un avventuriero dunque. Ma non uso questo termine in funzione dispregiativa. Avventuriero qui sta come ricerca di un superamento che va oltre i limiti del destino. Incocciò la vita convinto di superarla in ogni aspetto, in ogni esplosione. Convinto di vincerla la vita attraverso l'avventura che si trasformava però nella scrittura. Scrivere, come già si diceva, era vivere. Ma scrivere era raccontare la vita nella storia e nel tempo.
Non ho altro a cui pensare se non al mare di Ernest Hemingway  e al vecchio che lacerava il tempo. Ma il mare è sempre quella dimensione dell' esistere che inquieta lo spazio del nostro tempo come ci ricorda Cesare Pavese.
Cosa accomuna Hemingway e Pavese? La quarta parete. Certamente. E poi quella necessita di fermare il tempo e di scendere nel gorgo. La parola che resta vitale in entrambi si chiama suicidio. Hemingway, marinaio e stanco di vivere la vita nella scrittura. Ovvero di attraversare la scrittura raccontando le vite. Forse solo Marilyn è stata il suo sogno. Poi le palme e gli azzurri di Cuba.
Pavese ha vissuto i suoi Mari del Sud tra una donna dalla voce roca e quella venuta dal mare. Constance. Quella donna che "detterà" a Cesare Verrà la morte…
E sì verrà sempre la morte… 
      Indubbiamente creò uno spaccato nella letteratura europea. Pavese definì il suo vivere letteratura – vita e i suoi codici stilistici ed esistenziali come "monellesche e impassibili birbanterie". Anche se lo considerò un classico insieme ad altri scrittori come Lee Masters, Anderson, Faulkner.
      Sopravvalutato più del dovuto o meno: non è questo che interessa. Ma Pavese, insieme a quella generazione compreso Vittorini, non ne fece un emblema certamente. Parlò della letteratura americana come ricerca e come conoscenza di un mondo altro rispetto alla formazione letteraria europea e italiana tanto da fargli dire che: "Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti".
      Era l'America sul piano culturale e storico che interessava più che i singoli scrittori anche se gli scrittori erano poi parte integrante di un modello soprattutto di vita. Non mancarono anche in quel clima le diffidenze, tanto che Italo Calvino il 13 novembre del 1954 su "Il Contemporaneo" dà una sfilzata di  fioretto e riferendosi a Hemingway sottolinea: "quella sua vita e filosofia di vita di cruento turismo cominciò ad ispirarmi diffidenza e perfino avversione e disgusto".
      Giornalista, ideatore cinematografico, personaggio. Tre aspetti che si integrano. Perché ideatore cinematografico? Molti dei suoi romanzi sono un apripista per sceneggiature cinematografiche. Film che hanno segnato un particolare momento. Film tratti dai suoi romanzi. 

Il suo realismo non è magico, oltre il magico, ma nello sciamanico, ma ha sempre "i piedi per terra". Ancora Italo Calvino dopo quelle sottolineature aggiunge in tono più pacato: "Hemingway scrive a secco, non sbava quasi mai, non gonfia, ha i piedi per terra". Ma non lo capì, perché Calvino non capì mai il senso del destino dello scrittore destino. Pavese sì. Mentre Giansiro Ferrata nel 1956 in Il romanzo del Novecento afferma: "Perseguì la nuda eloquenza delle cose, il ritmo dei fatti, il rapporto con un sistema di cose carico di realtà quotidiane ma intime, organiche nella propria naturalezza: uno stile positivo, a suo modo".
Il contatto con la realtà, per Hemingway, diventa indispensabile. Lo si avverte sin dai primi scritti. In quel romanzo, primo riferimento, del 1926 Fiesta e poi in Addio alle armi del 1929 passando per i racconti Uomini senza donne del 1927 e Torrenti di primavera del 1926. I testi di ricerca, dove si tenta una sperimentazioni stilistica ma anche di intreccio di contenuti, restano i primi lavori del 1923 e del 1954: Tre racconti e dieci poesie e Nel nostro tempo. Un itinerario che, comunque, finalizza già lo scrittore che ha bisogno dell'avventura per creare storia e personaggi. I quali personaggi costituiscono la coscienza della storia che si veste appunto di realismo.
In Hemingway la letteratura è nel dialogato che è parola. La parola è il parlato dei personaggi. Hemingway "Fascia le cose con un ripetuto contatto verbale". Ritorna così il rapporto tra linguaggio e realtà. Ovvero tra la cronaca dei fatti, che si traduce in piccole storie e grandi passioni, e la capacità del linguaggio nell'offerta della comunicazione.
Quel "contatto verbale" di cui parla Mario Praz è un contatto con le cose del linguaggio il cui linguaggio è la comunicazione dei personaggi. Appunto Mario Praz su "La Stampa" del giugno del 1929, eravamo ai primi romanzi, scrive: "Il suo stile aderisce ai contorni delle cose con una fermezza che ha dell'impersonale. Se c'è uno stile obiettivo è il suo". E prima aveva cesellato: "… si limita a ripetere i discorsi quasi seccamente, a delineare gli aspetti circostanti col minimo di parole possibile".
Gli anni Trenta sono anni ricchi di impressionanti avventure alle quali si intrecciano i desideri della scrittura. Il giornalista e lo scrittore sembrano comunicare.
Molti soggetti giornalistici si decodificano nel narrato dei suoi racconti e dei suoi
romanzi. Nel romanzo c'è dunque la vita. La vita con la sua allegria e soprattutto con i suoi rischi. Ma scrivere e vivere sono costantemente un rischio. La vita va incontro alla morte. La scrittura va incontro al dissolvimento.
D'altronde un "avventuriero" come Hemingway non può aver timore dei rischi che gli si presentano. Ma la morte dell'uomo è come se fosse causata dal dissolvimento dello scrittore. Il non poter scrivere significa il non poter comunicare. E il non poter comunicare vuol dire il non saper esprimere emozioni, il non saper catturare passioni, il non poter amare con l'intensità degli amori.
Lo scrittore che calava nella scrittura tutta la sua tensione, questa tensione costituiva un gioco infinito tra il dare e l'avere. Il dare e l'avere della parola – vita era la vita che assorbiva la tentazione dell'eros che il raccontare sprigiona. Quel raccontare in cui l'avventura non conosce limiti e orizzonti.
Si pensi a Morte nel pomeriggio del 1932. Il soggetto di questo libro è la corrida. Significa il pericolo, il rischiare la vita, la morte, le tentazioni del vivere e del morire. E sono sempre tentazioni di passione. Si pensi ai racconti del 1933 Chi vince non prende nulla. Testi che non vanno segnalati certamente per la loro importanza letteraria ma per la loro fase sperimentale anche se nel testo del 1932 questo frammisto tra vita – rischio e morte sono ben collegate con la metafora – realtà della corrida.
Uno scrittore che usa il linguaggio per denudarsi completamente e in questi anni insieme al suo impegno pubblicistico intreccia il realismo letterario ad una denuncia della società americana. Va ricordato, a tal proposito, il volume Avere e non avere pubblicato nel 1937. L'anno seguente vede la luce la sua opera teatrale, la sola che abbia composto, dal titolo: La quinta colonna. Il romanzo che lo fa popolare e lo porta al successo è indubbiamente Per chi suona la campana edito nel 1939. La Spagna, la guerra civile, la rivoluzione. Ma non è un romanzo a tesi. E' piuttosto un romanzo di avventura con tutte le categorie di quei romanzi di avventura nei quali il fascino dell'impresa è più esaltante di qualsiasi altra condizione esistenziale stessa.
I quarantanove racconti sono una sintesi di una dimensione creativa che raccoglie gli arcobaleni dello scrivere raccontando la vita, le storie e i personaggi. Questo testo racchiude i racconti pubblicati dal 1921 al 1938. Un'altra testimonianza che va letta come una perenne forma di sperimentazione. Un andare alla ricerca delle parole per mettere su le storie che sono già dentro il cuore. O un andare alla ricerca delle storie per raccordare le parole?
Hemingway stesso nella Prefazione a questo testo del 1938 parlando dello "strumento con cui scrivi" dirà: "… io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire, o lustro e ben oliato nel ripostiglio, ma in disuso". Un passaggio che diventa fondamentale sia sul versante stilistico che su quello della condizione tematica. La voglia di scrivere era per Hemingway come la voglia di possedere, di amare, di vivere.
Dall'avventura all'intimismo. C'è una analisi di Nemo D'Agostino apparsa nel 1956 su "Belfagor", quando aveva già pubblicato Di là dal fiume e tra gli alberi nel 1950 e nel 1952 Il vecchio e il mare, che dovrebbe far meditare. In questo stesso anno ottiene il premio Pulitzer e due anni dopo gli viene conferito il Nobel. Due testi, questi ultimi, che appartengono alla fase finale della sua stagione creativa ma che si spostano dai precedenti periodi.
Ma cosa dice D'Agostino? Così scrive: "Qualcosa ad un certo momento è accaduto ad Hemingway. La vita o il successo o il suo logorio interno e forse la caccia ai simboli che la critica muoveva intorno a lui hanno cambiato Hemingway in peggio".
D'Agostino catechizza l'opera dello scrittore americano in due periodi. "Il primo ebbe il coraggio di affrontare il nulla, il che non sempre è un atteggiamento negativo. Il secondo, quello che ha scritto Morte nel pomeriggio e il resto (compreso il molto sopravvalutato Il vecchio e il mare) ha voluto celebrare l'affermazione. Come l'uomo stanco di affrontare un abisso si è ritirato nel mondo alquanto scontato del misticismo estetico e dei miti nebbiosi, per celebrarvi la bellezza dell'osso bianco nella coscia lacerata del torero, il moderno eroismo della disperazione, l'umanitarismo mistico della bellezza dell'amore e della morte". Una sollevazione di natura critico – letteraria che va ad incidere su tutta l'opera di Hemingway. Certo, ci sono situazioni e condizioni letterarie che purtroppo si lasciano pesare proprio in riferimento a quel rapporto a cui si accennava: letteratura – vita. Ma ciò non dovrebbe toccare la sfera puramente letteraria.
Ci sono romanzi che sono stati, certamente, sopravvalutati ma ce ne sono altri che andrebbero chiaramente riletti magari con un metro di comparazione critica che esula da impostazioni manichee. Hemingway, nel bene e nel male, resta sì un personaggio ma resta sostanzialmente uno scrittore. Uno scrittore che, volente o nolente, si è costantemente confrontato con la vita ma soprattutto con la morte. Il suo suicidio, se lo si va a valutare sia sul piano letterario che esistenziale, è il suicidio di un personaggio che sapeva di indossare una maschera.
Lo scrittore, il più delle volte, è una maschera. Una maschera tragica come qualcuno direbbe. Una maschera ironica. Una maschera che maschera l'indefinibile o l'inverosimile ma dietro ognuna di queste maschere ci dono le debolezze, le angosce, il "logorio" dell'uomo che affronta la tragedia del vivere.
La sua maschera era la morte. Una morte che nascondeva ma che poi ha fatto esplodere all'improvviso in un giorno di luglio del 1961. Si suicida e il suicidio, per Hemingway, sembra essere l'estremo rimedio per difendere il personaggio e difendendo il personaggio cerca di salvare lo scrittore.
Tra i suoi scritti postumi vanno ricordati Festa mobile e Isole nella corrente. Di questi giorni è Vero all'alba. Di questi tre libri quello che ha una maggiore venatura poetica è Festa mobile pubblicato nel 1964. Lo considero, nonostante la incompiutezza, un romanzo fresco. Un romanzo che lascia trasparire un'agilità di pensiero, un ricordare che si fa sogno, un recuperare, anche attraverso forme simboliche. Continua ad accompagnarmi. La sua scrittura. Il suo vecchio che ha bisogno del mare ma anche le sue poesie. Continua ad essere in me. La sua solitudine, la sua morte, la sua dissolvenza.
Una memoria che non è quella giornalistica ma profondamente letteraria. Si respira la Parigi dei bei tempi quando quei tempi erano vissuti con la giovinezza e la vita era una festa. Appunto una festa mobile. Quella festa fatta di incontri, di bevute, di donne, di trasgressioni.Parigi e giovinezza sono una meteora nel cielo dello scrittore. Che, dico nel cielo dell'uomo – scrittore. Ecco perché tutto è una festa. Ed essendo una festa, la vita, è mobile. Nonostante tutto è il romanzo scritto da uno scrittore che sa che il mestiere dello scrivere è anche saper ricordare e afferrare il ricordo per imporlo come linguaggio.
In una intervista ad Hemingway il cui tema dominante è l'arte di scrivere e narrare, curata da George Plimpton (ora in una nuova edizione de I quarantanove racconti, editi da Einaudi la quale rimanda alla fonte originaria) si legge: "Con quel che ci è accaduto, quel che succede, quel che conosciamo e quel che non possiamo conoscere, inventiamo un qualcosa che non è una semplice rappresentazione ma una creazione totalmente nuova e più reale di qualsiasi cosa reale ed esistente, e se la rendiamo viva e il risultato è buono, diventa immortale. Ecco perché ci ritroviamo a scrivere, senza altre ragioni di cui siamo consapevoli. Ma chissà quanti altri motivi ci sono e non lo sappiamo".
Scrivere è raccogliere, dunque, la fantasia che non ha motivazioni ma che diventa mistero e forse destino. Ancora la passione, la tentazione, la sensazione, l'eros, l'andare e tornare: da Cuba alla Spagna, da Venezia a Parigi. Un viaggio nella letteratura dei luoghi delle metafore e dei personaggi che si raccontano da soli.
Non so se sia stato un "grande" scrittore. Hemingway. Forse per alcuni libri non lo è stato. Per altri, forse sì. Ma smettiamola di riproporre i soliti scritti. Quelli cosiddetti famosi e popolari. Rileggiamo, invece, Festa mobile. Chissà se ripartendo da questo incompiuto si potranno afferrare quelle realtà – memoria che sono i segreti di quella festa che è appunto la vita e che Hemingway ha trasformato in avventura. L'avventura è il cerchio del destino. Come in Pavese. Come in Antonia Pozzi, come in quel viaggio di una letteratura che non svela la descrizione, ma si radica nel senso di morte. La letteratura porta il sottosuolo nella propria anima e soltanto il Cristo in Croce può dare voce. Non è riuscito a schiodarsi quel Cristo per Ernest. O la Pietra è rimasta bloccata sulla ferita della roccia. Io ed Ernest. Forse un romanzo. Ma tutto può essere il nulla del romanzo quando la solitudine incontra la morte sul fiume o sul mare e quando si va alla ricerca dei porti i porti sono viaggi o sono luoghi in partenza. Così per Ernest.
 
Quale viaggio altro ci sarebbe stato se Ernest non si fosse suicidato?  E con quale Leuco' si sarebbe ancora incontrato il mio Cesare?
Hemingway, i mari del Sud li ha vissuti e li ha abitati nella metafora e nella geografia della esistenza. Pavese li ha custoditi con il pensiero diventato sogno. Entrambi non dimenticando mai che l'amore e la morte provengono dal mare che ha la dimensione del tempo.
La letteratura è anche sapersi confrontare con la morte.
E ora giunge un uomo vestito di bianco e non porta più parole, ma sorriso e con il suono di un ballo sudamericano osserva il passare del tempo lungo le attese che non si chiuderanno più tra le parole e neppure nel ritorno di Marilyn o di Constance.
Perché lo scrittore che è scrittore, ogni oltre pavida leggerezza, scrive sempre la vita che vive? Sì vive la vita che scrive…Ma no, scrive la vita che vive… che avrebbe voluto… che non vivrà… Ernest e Cesare lungo il fiume e tra lo sponde del mio mare…








Recensioni scientifiche di Roby Guerra per Meteo Web

Azione Futurista Ferrara  L'Asino Rosso 3.0 giornale blog (dal 2008)


Da qualche tempo, Roby Guerra, futurista ferrarese firma recensioni scientiche per il sito magazine Meteo Web.Eu, tra i principali nel web  per la divulgazione scientifica e per le previsioni meteoriogiche, prossimo alla comunità dei geologi italiani (INGV...).  Nello specifico, Guerra ha recensito la collana Frontiere della Scienza, ovvero diversi volumi editi da Le Scienze/La Repubblica, dedicati alla conoscenza scientifica contemporanea, i suoi sviluppi più recenti. Collana curata da M. Cattaneo e ogni volume con interventi saggi dei principali ricercatori scientifici contemporanei, scienziati e anche giornalisti scientifici esperti in divulgazione.  " I problemi dell'energia",  " I problemi del tempo",  "Fisica estrema",  La Medicina del Futuro" , alcuni dei titoli recensiti da Guerra (circa una decina).  Nato come poeta, Roby Guerra, via via si è specializzato in futurismo e dinamiche futuribili, membro attivo del movimento transumanista e futurologico italiano (Network+ ecc.), culminate ora con certa significativa divulgazione scientifica di ampiezza nazionale.
Info: http://www.meteoweb.eu/2015/03/medicina-futuro-staminali-terapia-genica-nanotecnologie/412903/
http://www.meteoweb.eu/2015/01/problema-riflessioni-quarta-dimensione/378244/

mercoledì 18 marzo 2015

Cristiano Rocchio, La crisi di fine ’800 e la rivoluzione futurista


La crisi di fine ’800 e la rivoluzione futurista
*Conferenza di Padova, 10 Marzo, Univ. Pop.

1. Contesto culturale
Durante l’Ottocento, soprattutto nel trentennio precedente il Quarantotto, il pensiero filosofico, politico, letterario, la produzione artistica e l’azione degli intellettuali manifestarono una tendenza rivoluzionaria comune, ma la pace fu mantenuta in modo consapevolmente controrivoluzionario: la classe dirigente europea reagì in modo uniforme al dinamismo della rivoluzione borghese e neutralizzò gli ideali di libertà, fraternità ed uguaglianza. Gli intellettuali si battevano anche con le armi per le loro idee liberali, anarchiche e socialiste ed avvertirono l’energica pressione delle forze popolari come elemento decisivo della storia moderna1. L’arte e la letteratura riflettevano questa realtà, espressione attiva del popolo2, e miravano all’evidenza e all’impegno, rappresentando i problemi della vita e le preoccupazioni della storia in atto3. La realtà storica diventa contenuto attraverso la creatività dell’artista, determina la forma dell’opera4 e mostra oggettivamente il movimento tendenziale rivoluzionario delle forze borghesi e popolari. Mentre si diffondevano in tutta Europa gli ideali democratici e patriottici, le forze politiche e culturali più aperte prepararono il Quarantotto e lottarono contro tutte le forme di governo autoritario e di diritto divino. Nacque il socialismo scientifico e si diffusero lo spirito della scienza ed il progresso della tecnica: questi fattori, come la nuova estetica, ruotavano intorno all’uomo5.
L’unità storica, politica e culturale delle forze borghesi e popolari culminò intorno al Quarantotto, entrò in crisi a metà dell’Ottocento6 e definitivamente dopo il 1871, quando fu sciolta la Comune di Parigi e si concluse l’epoca in cui intellettuali ed artisti partecipavano direttamente alla vita sociale e politica. Da questa rottura ebbero origine le avanguardie artistiche7, i cui manifesti e capolavori evidenziano la crisi nella concezione dell’uomo e l’esigenza di nuovi codici, per interpretare e rappresentare la vita modificata dal progresso scientifico e tecnologico. Veniamo all’avanguardia del Futurismo, analizzandone alcuni manifesti degli anni dal 1909 al 1918.

2. Manifesti
La Fondazione e manifesto del futurismo8 del 1909 ha il tono di un percorso iniziatico e descrive la formazione dello spirito futurista. Vi troviamo l’orgoglio della propria consapevolezza storica, l’esortazione al superamento della mitologia, il rifiuto della dialettica. La pazzia, ciò che si allontana dal buon senso, è la nuova e potente facoltà razionale, contrapposta alla matematica. Il manifesto descrive l’addomesticamento della mentalità borghese, tendente a ridurre ogni innovazione a categorie preesistenti, e la rinascita nella melma come officina del nuovo spirito, che appena formato proclama le volontà futuriste a tutti gli uomini vivi: il disprezzo del passato e della donna; l’esaltazione della velocità; la motorizzazione dell’anima9 nell’automobile condotta dall’autista, che è simbolo dell’auriga platonico; il compito del poeta, esaltare il fervore degli elementi primordiali; la lotta coincidente con la bellezza; l’invito a superare l’Impossibile; l’identificazione dell’Assoluto con l’eterna velocità onnipresente; la guerra come salvezza del mondo. Basato su questi stessi ideali, il Manifesto dei pittori futuristi10 del 1910 è un programmatico grido di ribellione rivolto ai giovani artisti. Contrappone la libertà dell’uomo contemporaneo alla docile schiavitù degli antichi e critica i pigri esaltatori del passato; concomitante al Risorgimento politico esalta il Risorgimento culturale dell’istruzione, dell’industria, dell’arte; disprezza il passato, elogia l’originalità, la pazzia degli innovatori, la vita trasformata dalla scienza come fonte di ispirazione per l’arte11.
La nuova concezione dell’uomo viene presentata in L’uomo moltiplicato e il regno della macchina del 1910, in cui Marinetti indica il principale obiettivo futurista, abolire l’ideale tedioso di bellezza tradizionale: il paradigma letterario romantico celebrava l’assalto eroico del maschio bellicoso e lirico alla BellezzaDonna; a questo Marinetti sostituisce la nuova idea di bellezza meccanica ed esalta l’amore dell’uomo per la macchina, confidando che, scoperte le leggi della sensibilità meccanica, si potrà spiegare il capriccioso funzionamento dei motori. Con la successiva imminente ed inevitabile identificazione tra uomo e motore verrà perfezionato lo scambio incessante di intuizione, istinto e disciplina metallica tra uomo e macchina, ottenendo12 il tipo non umano e privo di affetti morali, i veleni corrosivi dell’inesauribile energia vitale e della possente elettricità fisiologica. Per il numero incalcolabile delle potenziali trasformazioni umane è possibile anche quella che giudichiamo l’utopia futurista: l’uomo prolungherà fuori di sé la sua volontà come un immenso braccio invisibile, il Sogno e il Desiderio governeranno lo spazio e il tempo ed il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo, avrà organi adattati all’ostilità dell’ambiente e sarà educato dalla macchina. Bisogna diminuire il bisogno di affetto che lo pervade, sostituendo all’amore per una donna la passione per il lavoro e per l’officina. Anche l’arte e la letteratura possono contribuire, eliminando la lussuria ed il sentimentalismo. Se riesce a liberarsi dal ciarpame sentimentale e dalla passione amorosa, l’uomo moltiplicato non conoscerà la vecchiaia e nemmeno il pessimismo di Schopenhauer ed il gran Chiaro di luna romantico.
Il Programma politico futurista del 191313 illustra le condizioni dell’utopia futurista e comprende quattro temi: il patriottismo, la politica estera, la politica interna e quella culturale. I futuristi esigono la sovranità assoluta per l’Italia, sacrificando alla patria anche la libertà14. La politica estera cinica, astuta ed aggressiva comprende l’espansionismo coloniale, il liberismo, la grandezza dell’Italia agricola, industriale e commerciale e del suo popolo, orgoglioso di esser italiano e pronto alla guerra, da prepararsi con una più grande flotta ed un più grande esercito. La politica interna consiste nella difesa economica e nell’educazione patriottica del proletariato, nell’irredentismo15, nel panitalianismo, nella lotta al clericalismo ed al socialismo; nel suo aspetto economico e sociale prevede di limitare gli intellettuali, aumentando i lavoratori e i tecnici; intende sottrarre l’autorità ai morti, ai vecchi ed agli opportunisti a vantaggio dei giovani audaci; modernizzare violentemente le città passatiste16 ed abolire l’umiliante ed aleatoria industria turistica. La politica culturale promuove il culto del progresso, della velocità, dello sport, della forza fisica, del coraggio temerario, dell’eroismo e del pericolo e disprezza l’ossessione per la cultura, l’insegnamento classico, il museo, la biblioteca e i ruderi, auspica la soppressione di accademie e conservatori e l’istituzione di scuole pratiche commerciali, industriali, agricole e di istituti per l’educazione fisica quotidiana. Infine censura la monumentomania e l’ingerenza del governo nell’arte17. Tornando all’estetica, in La scultura futurista del 1912 Umberto Boccioni stigmatizza l’imitazione cieca delle forme artistiche ereditate dal passato: l’illusione fondamentale è la convinzione di trovare uno stile corrispondente alla sensibilità moderna, senza uscire dalla tradizionale concezione della forma scultorea e dal suo ideale di bellezza classica. Per rinnovare l’arte, è necessario riformarne la visione e la concezione della linea e delle masse che costituiscono l’insieme, abolire in scultura il nudo, retaggio di un’arte morta18, e partire dal nucleo centrale dell’oggetto che si vuole creare, per scoprire le nuove leggi e le nuove forme che lo legano invisibilmente e necessariamente all’infinito plastico apparente e all’infinito plastico interiore: la nuova plastica, il trascendentalismo fisico, traduce nella materia da scolpire i piani atmosferici che legano ed intersecano gli oggetti e può rendere plastiche le simpatie e le affinità misteriose che stabiliscono le reciproche influenze formali dei piani oggettuali19; la scultura ha il compito di creare gli oggetti, rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio. Lo stile del movimento rende definitiva come sintesi la frammentaria ed accidentale analisi impressionistica: sistematizzando le vibrazioni delle luci e le compenetrazioni dei piani, ottiene la scultura futurista, il cui fondamento architettonico non è soltanto la costruzione delle masse, bensì l’inserimento degli elementi architettonici ambientali nel blocco scultoreo. Gli elementi matematici e geometrici oggettuali non sono associati alla statua come attributi esplicativi o decorativi esterni, ma incastrati nelle linee muscolari del corpo secondo la nuova concezione dell’armonia. Liberando la scultura dalle leggi arbitrariamente imposte ed abolendo la linea finita e la statua chiusa, l’ambiente si inserisce nel blocco plastico come un mondo a sé, regolato da leggi proprie, facendo vivere la linea muscolare statica nella lineaforza dinamica.
Possiamo applicare agli scultori futuristi il concetto da noi rinvenuto per il pittore cubista, che abbiamo definito demiurgo20: la necessità creativa costringe l’artista a cercare mezzi espressivi adeguati alla sua percezione della realtà, per rappresentarla agli esseri umani. L’intuizione creativa è l’unico criterio per scegliere e riprodurre gli elementi del mondo apparente, che diventano elementi del ritmo plastico, dell’armonia voluta dallo scultore, e rappresentano i piani, le tendenze, i toni e i semitoni di una nuova realtà: per ottenerla, l’artista non deve rinunciare ad alcun mezzo e ad alcun materiale.
Il complesso plastico è il soggetto principale nella Ricostruzione futurista dell’universo del 1915. Balla e Depero si firmano come astrattisti futuristi e valutano i risultati del futurismo nei suoi primi sei anni: superamento e solidificazione dell’impressionismo, dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e stati d’animo; il futurismo poetico e musicale, fusi insieme al dinamismo plastico pittorico e scultoreo, rappresentano l’espressione dinamica, simultanea, plastica e rumoristica della vibrazione universale. Il proposito di Balla e Depero è fondere tutte le componenti futuriste, per ricreare e rallegrare integralmente l’universo, realizzando l’invisibile e l’impercettibile, trovando e combinando insieme secondo la loro ispirazione gli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi.
Studiando la velocità delle automobili, Balla scoprì le leggi e le lineeforze essenziali e, per esprimere la dinamicità e la profondità, abbandonò il piano unico della tela e allestì le sue opere con elementi tridimensionali, arrivando alla concezione del primo complesso plastico dinamico21. Vedendolo, Marinetti rilesse la storia dell’arte, che fino ad allora fu nostalgia, statica, dolore, lontananza, perché ricordo e rievocazione angosciosa di un oggetto perduto22. Con il Futurismo nasce l’arteazione, ossia volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale, splendore geometrico delle forze, proiezione in avanti. L’arte diventa Presenza, nuovo Oggetto, nuova realtà, creata cogli elementi astratti dell’universo. Ancora lo scultore demiurgo: l’artista intuisce nuovi oggetti e nuove realtà e rappresenta la sua intuizione con nuovi e più adeguati mezzi espressivi23. Nello stile futurista gli scultori astrattisti ricevono l’idea delle loro scoperte da ogni azione reale e da ogni emozione vissuta24, che ispirano anche l’educazione dell’età tenera; la precedente epoca passatista aveva ideato come giocattoli grottesche imitazioni degli oggetti reali; il complesso plastico sollecita invece tutte le facoltà immaginative e spirituali del bambino, lo educa al coraggio, alla lotta e alla guerra ed è utile anche agli adulti25.
Il primo complesso plastico mostra l’analogia tra le lineeforze essenziali del paesaggio astratto26 e le lineeforze essenziali della velocità, quindi gli scultori futuristi astrattisti padroneggiano l’essenza profonda e gli elementi dell’universo e possono costruire l’animale metallico, fusione di arte e scienza: lo scultore demiurgo diventa creatore attraverso la tecnica27. Costruendo milioni di animali metallici, Balla e Depero intendevano allestire la più grande guerra, la conflagrazione di tutte le forze creatrici dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America, che indubbiamente avrebbe seguito la Grande Guerra28. Il manifesto conclude rivendicando l’originalità del genio italiano, il più costruttore ed il più architetto d’Europa, che ideò il complesso plastico astratto.
Il nuovo uomo futurista, liberato attraverso la pazzia dalla sterile razionalità e dalle scorie sentimentali borghesi, rigenera creativamente la realtà attraverso la tecnica. Esaminiamo il suo rapporto con l’altra metà del cielo futurista in quella che definiamo

3. La feconda polemica
In Uccidiamo il chiaro di luna del 1909 Marinetti descrive il cammino di rinnovamento futurista e rappresenta quattro scene: l’abbandono del vecchio mondo, l’incontro con la pazzia, l’Altopiano Persiano e l’Oceano Indiano.
Nella prima scena i futuristi lasciano lideale ubriaco di saggezza contenuto nel vecchio mondo, cui sostituiscono l’entusiasmo per la guerra e per la distruzione oculata delle tradizioni e della logica, e disprezzano la donna come impedimento alla loro vita eroica. La pazzia è lo strumento di rinnovamento, si contrappone alla saggezza borghese e spinge i futuristi all’audacia eroica, temeraria, orgogliosa e magnanima.
Nella seconda scena i futuristi abbandonano la cittàpollaio del passato e si affidano al Manicomio, vita dello spirito e riserva della fantasia, che purifica la loro volontà dalle passioni e li riporta all’innocente età infantile. Guidati dal nuovo ideale, si apprestano a costruire il binario militare e rigenerare il mondo, ma per la loro dipendenza dalla leziosa razionalità borghese hanno bisogno dei pazzi privi di ogni sozzura logica. Fuori dal manicomio questi ringiovaniscono e ricolorano la Terra, pur essendo insufficienti all’immensa opera di rinnovamento. I futuristi ritornano allora al vecchio mondo e liberano dai serragli le belve, il cui regno ringiovanisce la capitale. Saccheggiandone le ricchezze, ottengono il metallo per costruire il grande binario futurista.
La terza scena, sull’altopiano Persiano29, descrive l’attacco sensuale della luna, che interrompe la costruzione, contagiando i pazzi con l’accidia e l’indolenza della sua languida foresta30. Le belve soccorrono, aprendovi un varco, ed i futuristi reagiscono, uccidendo con trecento lune elettriche il chiaro di luna e la regina verde degli amori. Eliminata l’accidia, viene realizzato il Binario militare, che conduce le locomotive futuriste all’Oceano Indiano, che prepara l’invasione della terraferma. La sapienza antica raglia il suo rancore contro l’avvenire incerto, che presenta all’orizzonte i tre grandi poteri della vita associata31. Guidato dagli aeroplani futuristi, l’esercito futurista raggiunge il vecchio mondo e i suoi abitanti in fuga: l’Oceano distrugge le antiche protezioni ed il vecchio uomo viene sterminato dagli aeroplani futuristi. La battaglia viene descritta come un amplesso, la vittoria con l’aiuto dei pazzi imminente: i futuristi combattono valorosi per salvare la Terra e ricostruire l’ideale decrepito32.
Nel Manifesto della donna futurista del 1912 Valentine de SaintPoint ritorce contro il genere umano il disprezzo per la donna33, perché l’umanità è composta di femminilità e mascolinità ed è assurdo dividerla in donne e uomini. Il genio e l’eroe, l’espressione prodigiosa di una razza raccoglie in sé elementi femminili e maschili, come le epoche storiche e le collettività: soltanto l’equilibrio di mascolinità e femminilità comporta periodi fecondi. All’inizio del Novecento predominava la femminilità ed era necessario trascinare alla brutalità, per ottenere la superiore umanità completa.
La follia viene rivendicata alla donna in quanto mancante totalmente di misura e nient’affatto saggia, pacifista o buona, ma così ridotta dal sonnolento periodo di fine Ottocento. La donna è l’individualità della folla e si adegua alle idee ambienti34, perciò deve partecipare ad ogni mutamento. Ma i diritti pretesi dal femminismo porterebbero un eccesso di ordine e non l’auspicata rivoluzione futurista; inoltre priverebbero le donne della loro potenza feconda, l’invincibile fatalità primordiale, che le associa agli elementi naturali. Le donne devono ritrovare il loro istinto, liberarsi da ogni controllo, opporre la fatalità alla cosciente volontà dell’uomo e riacquistare, sublimi e ingiuste, la crudeltà e la violenza. Madri egoiste e feroci nella protezione dei figli, tolgono all’uomo l’impegno della famiglia per la sua vita di audacia e conquista. La madre e l’amante si completano ed entrambe realizzano il futuro: la madre crea una parte di avvenire con un pezzo di passato, l’amante dispensa il desiderio che trasporta verso il futuro35.
In conclusione un’esortazione a generare figli e ad allevarli in modo libero per uno sviluppo completo, spingendoli a dare il meglio di sé, perché le donne fanno gli uomini ed hanno ogni diritto su di loro: devono dare all’umanità gli eroi che si aspetta.
Nel Manifesto futurista della lussuria del 1918 Valentine de SaintPoint celebra la lussuria, perché è una forza e un elemento essenziale nel dinamismo della vita, non un vizio capitale, bensì una virtù incitatrice e l’alimento delle energie.
La lussuria è una forza unificante ed è legata all’universale, perché è la sintesi sensuale e l’espressione di un essere proiettato al di là di se stesso. È tensione all’unità di due corpi, il brivido panico e la comu­nione di un singolo essere umano con la sensualità della terra. Al contrario le complicazioni della sentimentalità e tutto lo strumentario dell’amore romantico disgregano e dividono.
La lussuria stimola l’attività dell’uomo e lo spinge a superarsi, è l’esaltazione magnifica e gioiosa della forza, la gioia del possesso e della dominazione molto superiore alla volubilità sentimentale, la perpetua vittoria da cui rinasce la perpetua battaglia, la conquista più inebriante e più sicura, la gioia sana di espandere una carne possente, ipocritamente censurata dalla morale cristiana. La lussuria è catarsi dello spirito, lo fortifica e contribuisce alla selezione. Amano le voluttà i soldati, l’eroe moderno e l’artista, il grande medium universale. L’arte e la guerra sono le grandi manifestazioni della sensualità, la lussuria è la loro perfezione. I popoli solo spiritualisti e quelli solo lussuriosi sono entrambi condannati alla sterilità: la lussuria è ricerca e creazione carnale dell’ignoto, la cerebralità è ricerca e creazione spirituale. L’uomo è corpo e spirito, diminuire l’uno per moltiplicare l’altro è debolezza. Guidati da intuizione, volontà, istinto e consapevolezza, bisogna rendere la lussuria un’opera d’arte, accoppiando sapientemente le sensibilità e le sensualità, per ottenere il parossismo.
La lussuria infine è un elemento utopico essenzialmente inafferrabile ed implacabile: sempre rinascente, spinge ad espandersi e a superarsi in una orgiastica volontà. È per il corpo ciò che lo scopo ideale è per lo spirito, la chimera magnifica, sempre inseguita, afferrata e mai presa, l’ebbrezza degli esseri giovani e avidi.
Infine Transumanist Art in Italy del 2014, il manifesto futurista in cui Giancarla Parisi riprende la polemica tra futuristi maschi e femmine, sottolinea l’importanza dell’elemento femminile nell’arte e nel progresso e critica l’attuale umanità torpida, priva di interessi e di estro. Con le sue opere transfuturiste intende generare nello spettatore un impulso elettrico, che risvegli la coscienza delle emozioni umane peculiari, il gusto del bello e la sensualità anche inquietante. Nei suoi ultimi lavori esprime la consapevolezza di trovarsi alla fine di un’epoca storica: possiamo perciò avvicinare il suo manifesto transumanista ai manifesti dei primi futuristi, coscienti anch’essi di trovarsi alla fine di un periodo storico, che volevano eliminare definitivamente con la guerra, per lasciare spazio al nuovo ideale futurista. Giancarla Parisi auspica invece che la nuova epoca non sia inumana, bensì finalmente transumana, e permetta all’uomo di sviluppare tutte le sue facoltà, diventando ciò che è.

4. Conclusione
La crisi evidenziata all’inizio del Novecento dalle avanguardie artistiche europee e dal primo Futurismo italiano è la mancanza di una soddisfacente concezione dell’uomo nella cultura di fine Ottocento: la moltiplicazione specialistica delle discipline36 impediva la comprensione della vita umana, con particolare riguardo all’aspetto spirituale e all’idea di giustizia; in tal modo permettendo le condizioni che per gli uomini creativamente più attivi erano iniquità e rinnegavano gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Secondo noi questo clima intellettuale contribuì ad allestire l’Età della catastrofe37.
I manifesti futuristi richiamano Erasmo da Rotterdam e la sua follia che, come egregiamente interpreta Achille Olivieri38, è il filosofico sogno infinito dell’amoroso folle, acquisire il sapere. Ed anche, aggiungiamo, il proposito di cercare la conoscenza: i poeti, i pittori e gli scultori futuristi si dichiaravano folli, auspicavano la rigenerazione dell’uomo e raffiguravano il movimento, ossia il soggetto insieme ai suoi accidenti. Questo implica la funzione rinnovatrice della follia e l’esigenza di nuovi codici, per interpretare e rappresentare la realtà. Nei manifesti futuristi la follia rinnova il vecchio mondo e Valentine de SaintPoint ne riferisce alle donne le caratteristiche, che le assimilano alle forze naturali. In Erasmo il sogno dell’amoroso folle comporta gioia e questo è un punto di contatto con Così parlò Zaratustra39. Un collegamento a Nietzsche è evidente anche nel Manifesto Transumanista di Giancarla Parisi, in particolare a Umano, troppo umano e ad Ecce homo, nonché a Eros e civiltà di Herbert Marcuse. Anche i manifesti futuristi contengono il tema della gioia nell’attività creativa dei poeti, dei pittori e degli scultori demiurghi e nella potenza creatrice della lussuria.
La gioia creativa è la luce con cui l’avanguardia futurista40 dissolve il grigio ideale miope e particolaristico della saggezza borghese.

Bibliografia

E. Berti, F. Volpi, Storia della filosofia, Roma–Bari, Laterza, 1991
Espressionismo. Capolavori dal Brücke Museum di Berlino, catalogo della mostra, a cura di Magdalena M. Moeller, Treviso, Linea d’ombra, 2011
G. Ferroni, Profilo stoico della letteratura italiana, Milano, Einaudi, 1992
W. Grohmann, Wassily Kandinsky: la vita e l’opera, Milano, Il Saggiatore, 1958
E. J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914/1991. L’epoca più violenta della storia dell’umanità, Milano, Rizzoli, 1997
P. Klee, Über die moderne Kunst, Bern, 1945
W. Kranz, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Milano, Rizzoli, 1991
H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 2001
M. de Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1988
F. W. Nietzsche, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, Roma, Newton Compton, 2006
A. Olivieri, conferenza Erasmo nel lungo Rinascimento, Padova, 2014; Erasmo esploratore dei saperi in www.ereticopedia.org/erasmo
C. Rocchio, La ribellione umanista. Il secondo volume degli elementi inventivi, Roma., Aracne, 2014; “Le trasformazioni del desiderio: il farmaco aristotelico delle passioni, la fisiologia fracastoriana degli affetti e leccellenza cortigiana di Torquato Tasso” in Il fiore delle passioni. Animo e virtù nel sistema dei saperi tra Cinque e Seicento, a cura di Elisabetta Selmi, Luca Piantoni, Massimo Rinaldi, Padova, cleup 2012; I binari della persuasione. Elementi di inventio, Roma, Aracne, 2011
E. Ruggiero, L’ora dei ricordi. Centanni dalla Grande Guerra, Roma, Aracne, 2014; Mangiatori e sognatori. Il festino di Carnevale e il paese di Cuccagna. Alcune considerazioni in L’utopia di cuccagna tra ’500 e 700. Il caso della Fratta nel Polesine, a cura di Achille Olivieri e Massimo Rinaldi, Rovigo, Minelliana, 2011; Fotografare volando. Storia, arte, impresa, Roma, Aracne, 2010
I. Svevo, La coscienza di Zeno, Milano, Mondadori, 1985
R. Guerra, Futurismo e Transumanesimo. La poetica di Internet, eBook, Ferrara-Roma, La Carmelina, 2014


1 Ciò che noi chiamiamo principio di democratizzazione o di comunicazione, contrario al principio di concentrazione o di autorità
2 Jules Michelet: «La letteratura uscita, dalle ombre della fantasia, prenderà capo, corpo e realtà, sarà una forma dell’azione; non sarà più divertimento di qualche individuo, o di pigri, ma la voce del popolo al popolo».
3 Con il realismo, il legame diretto con gli aspetti più immediati e quotidiani . La nuova borghesia finanziaria dominava la Francia nel 1838; il suo gusto estetico era conformistico e non apprezzava l’originalità, il genio, le idee troppo vaste e ciò che la superava.
4 Nelle parole del De Sanctis: «Lo stile è esprimere la cosa nella sua verità» (1848). Ad esempio il Quarto stato.
5 Egli avrebbe dovuto governare se stesso secondo i suoi bisogni.
6 Alla fine delle rivoluzioni borghesi.
7 Mario de Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1988.
8 Pubblicato in Francese sul “Figaro” di Parigi il 20 febbraio 1909 e sulla rivista «Poesia», n. 1–2, Milano, 1909. Per l’analisi di questo e del Manifesto dei pittori futuristi rimandiamo al nostro saggio “Prefigurando la catastrofe”, in Elisa Ruggiero, L’ora dei ricordi. Centanni dalla Grande Guerra, Roma, Aracne, 2014.
9 Nella filosofia antica l’anima era il principio del movimento: il futurismo separa questa funzione dall’uomo e la conferisce alla macchina. Tale immagine ci sembra rappresenti ferocemente l’alienazione della società industriale, che il Futurismo risolve eliminando dall’anima il suo allestimento di buon senso e di opportunismo; dopodiché l’automobile riprende la sua corsa.
10 Fu scritto da Umberto Boccioni e pubblicato in «Poesia» nel 1910; gli altri firmatari sono Carlo Dalmazzo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini.
11 Per l’aerofotografia ed il Futurismo tra le due guerre vedi Elisa Ruggiero, Fotografare volando. Storia, arte, impresa, Roma, Aracne, 2010.
12 In base all’ipotesi trasformistica di JeanBaptiste de Monet de Lamarck (Bazentin, Piccardia, 1744 Parigi 1809): fautore della generazione spontanea, sosteneva che la natura fosse pervasa da un principio vitale organico in continua evoluzione. Basandosi sulla teoria di P. J. G. Cabanis circa il rapporto tra attività psichiche e fisiologiche, concepì l’evoluzione degli organi animali come un adattamento degli individui all’ambiente e teorizzò la trasmissione ereditaria dei mutamenti favorevoli all’adattamento. L’argomentazione di Lamarck ha un vizio scientifico di fondo, il presupposto inverificabile che la natura tenda continuamente a perfezionarsi e raggiunga il suo culmine nell’uomo.
13 Di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo.
14 Che essi auspicavano enorme: tutte le libertà tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, antiitaliani.
15 Liberare i territori italiani soggetti al dominio straniero.
16 Come Roma, Venezia, Firenze.
17 Come i Dadaisti tedeschi e i Futuristi russi.
18 Per suscitare emozioni, deve spogliare i corpi.
19 Quest’idea dell’affinità e della simpatia ricorda la concezione cinquecentesca di Girolamo Fracastoro. Vedi il nostro “Le trasformazioni del desiderio: il farmaco aristotelico delle passioni, la fisiologia fracastoriana degli affetti e leccellenza cortigiana di Torquato Tasso” in Il fiore delle passioni. Animo e virtù nel sistema dei saperi tra Cinque e Seicento, a cura di Elisabetta Selmi, Luca Piantoni, Massimo Rinaldi, Padova, cleup, 2012.
20 Vedi “Prefigurando la catastrofe”, in Elisa Ruggiero, L’ora dei ricordi, cit.
21 Le sue caratteristiche sono: astratto, dinamico con moto relativo cinematografico, trasparentissimo, coloratissimo e luminosissimo (mediante lampade interne), autonomo e somigliante solo a sé, trasformabile, drammatico, volatile, odoroso, rumoreggiante in modo da associare il rumorismo plastico all’espressione plastica, scoppiettante con apparizione e scomparsa simultanee a scoppi.
22 Felicità, amore, paesaggio.
23 Il complesso plastico rappresenta le specie di movimento, che lo scultore demiurgo elenca analiticamente: il movimento rotatorio semplice (su un perno); il movimento rotatorio complesso (su più perni); la scomposizione dei volumi e delle superfici nelle loro forme ideali (coni, piramidi, sfere); la scomposizione e l’assemblaggio dei suoni e dei rumori; infine l’apparizione e la scomparsa del complesso plastico simboleggiano il movimento di presenza ed assenza, la rapsodicità della vita.
24 L’arte viene definitivamente avvicinata all’esperienza.
25 Un riferimento ai circhi educativi dei dadaisti tedeschi.
26 Coni, piramidi, poliedri, spirali di monti, fiumi, luci, ombre.
27 Chimica, fisica, pirotecnica. Con queste tecniche e con la scienza i futuristi allestiscono la nuova idea di uomo, che ha in sé il principio del movimento (l’anima) ed è protetto dalle passioni (metallico). Lo scultore demiurgo è creatore ed anche educatore.
28 L’attuale meravigliosa piccola conflagrazione umana, contrapposta all’altra, evidentemente spirituale e divina.
29 La culla dell’umanità
30 Simile alla selva oscura dantesca.
31 Interpretiamo la metafora di Marinetti: i tre vascelli con velature simili a colonne vertebrali radiografate sono i tre poteri, politico, giudiziario, legislativo, le ossature della vita associata, contro cui la cultura tradizionale passatista si rivolge.
32 Le braccia fumanti rinnoveranno il vecchio sole tremante e decrepito: l’azione futurista rinnoverà l’ideale europeo di uomo.
33 Uccidiamo il chiaro di luna e Fondazione e manifesto del Futurismo
34 Forse proprio questo elemento suscitava la repulsione futurista.
35 Questo ricorda l’impulso creativo espressionista (Die Brücke, Der blaue Reiter) ed il pittore demiurgo. Vedi ancora “Prefigurando la catastrofe”, cit.
36 Anche quelle che avevano come oggetto l’uomo: filosofia, sociologia, psicologia, economia, giurisprudenza.
37 Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1997.
38 Nella conferenza Erasmo nel lungo Rinascimento”, Padova, 2014. Vedi Achille Olivieri, Erasmo esploratore dei saperi in www.ereticopedia.org/erasmo.
39 Ancora Achille Olivieri, Erasmo nel lungo Rinascimento”, cit. Anche a nostro parere le analogie tra Erasmo da Rotterdam e Friedrich Nietzsche sono numerose, soprattutto perché entrambi auspicano, seppur in epoche storiche diverse, una rinnovata concezione dell’uomo. Nietzsche dichiara apertamente il suo apprezzamento per Erasmo anche in Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, Roma, Newton Compton, 2006.
40 Ed anche altre avanguardie europee, come gli Espressionisti e i Dadaisti.


Giovanni Sessa, recensione di Giovanni Damiano


Giovanni Damiano
Di scolastiche e di possibili.

Su un nuovo testo di Giovanni Sessa


Il pensiero di Tradizione, al centro dell'ultimo, importante libro di Giovanni Sessa (Itinerari nel pensiero di Tradizione. L'Origine o il sempre possibile, Solfanelli, 2015), si oppone frontalmente a ogni scolastica tradizionalista. Di contro alla sterile e autoreferenziale ripetizione del medesimo, tipica delle scolastiche tradizionaliste, il 'pensiero di Tradizione' andrà inteso, piuttosto, come un 'dialettico'/dinamico poter-esssere-di-nuovo del "patrimonio ideale tradizionale" (p. 16). Per cui, lungi dal rinchiudersi in inviolabili vette metafisiche, il 'pensiero di Tradizione' non si sottrae al duro confronto con la storia, né ritiene precluso ogni suo possibile 'incunearsi' nel tempo, né tanto meno si abbandona alle usuali lamentazioni nostalgiche di condanna del 'mondo moderno'. In altre parole, Sessa vuole preservare la forza del 'pensiero di Tradizione' e la sua attuale inattualità, evitando, al contempo, di ridurlo a mero reperto museale.
Ma il 'pensiero di Tradizione' può conoscere nuovi inizi perché declinato nel senso del sempre possibile. È questa la decisiva mossa teoretica di Sessa che gli consente di sfuggire al rischio di consegnare il 'pensiero di Tradizione' a un destino paralizzante mascherato da eternità. Per sempre possibile non bisogna però intendere, a mio parere, il possibile puramente logico (cioè non contraddittorio), o il possibile come un che di compatibile con gli eventi fisico-naturali del nostro mondo, oppure il possibile diacronico (o condizionato/antecedente), destinato a estinguersi a un dato momento del tempo.
Piuttosto mi sembra che il sempre possibile possa essere accostato, in prima istanza, all'idea di possibilità sincroniche, ossia, per dirla con Massimo Mugnai (Possibile/necessario, Bologna 2013, p. 15), alla concezione relativa a "possibili stati di cose o eventi che, pur non realizzandosi, 'sussistano', in un certo senso, accanto agli stati o agli eventi che sono divenuti attuali, costituendo una sorta di ambito dei possibili non realizzati, alternativi a quel che esiste"; in particolare, poi, ma si tratta di accenni che meriterebbero ben altro spazio, si potrebbe considerare il sempre possibile 'assonante' col realismo modale, cioè con quella ontologia dei mondi possibili di cui parla sempre Mugnai (ma sull'argomento si possono proficuamente leggere anche due testi di Franca D'Agostini, I mondi comunque possibili, Torino 2012, e Realismo?, Torino 2013, e, per una prospettiva in parte diversa, il bel libro di Remo Bodei, Immaginare altre vite, Milano 2013).
Una volta indicato, seppur in maniera assai cursoria, l'orizzonte di senso, la cornice teorica del libro di Sessa, è adesso il caso di passare a un'analisi più ravvicinata di alcuni dei singoli testi che lo compongono.
Lo scritto che apre il testo di Sessa, dedicato al metodo tradizionale così com'è stato formulato da uno dei maggiori esponenti della cosiddetta 'Scuola di Vienna', ossia Walter Heinrich, mi sembra possa essere considerato la vera architrave su cui poggia l'intero libro. Attraverso una fittissima rete di rimandi a temi e autori, Sessa mostra infatti non solo la ricchezza argomentativa e tematica propria del metodo tradizionale, capace di far dialogare con profitto discipline quali la storia delle religioni e del mito, la filosofia, la critica letteraria e la storia, quanto soprattutto la sua caratteristica essenziale, consistente nel continuo, costitutivo, intersecarsi della dimensione della storia con quella della 'metastoria', al di là, quindi, sia di un 'umano troppo umano' appiattimento sul solo piano storico, sia di un asfittico e autoconsolatorio rifugiarsi nelle 'torri d'avorio' della metafisica.
L'analisi di Sessa delle interpretazioni di Heidegger e Colli del frammento di Anassimandro mi sembra invece costituisca un davvero notevole esempio di 'applicazione' del metodo tradizionale ad uno dei vertici del pensiero filosofico arcaico europeo. Degna di nota è la conclusione di Sessa, che pare convergere verso una comune matrice 'dionisiaca', letta in parallelo all'emergere del momento aurorale della physis come incessante 'produttrice' di vita.
Il testo di Sessa si chiude con tre lavori dedicati rispettivamente a Colli, Evola e Berto Ricci. Se quest'ultimo autore, a parere di chi scrive, sembra essere 'fuori asse', o comunque meno organico, rispetto al resto del volume, molto interessante mi è parsa invece l'intuizione di Sessa di stabilire un legame tra Evola e il cosiddetto 'Romanticismo di Heidelberg', in modo di dar vita a un altro, fruttuoso, collegamento capace di confermare la ricchezza e la 'produttività', in termini di guadagno conoscitivo, del metodo tradizionale.
Ma è Giorgio Colli a rappresentare l'autore indubbiamente centrale nell'itinerario tracciato da Sessa. Anzi, io credo, in definitiva, che tutti i vari 'sentieri' del libro finiscano per trovare il loro 'punto di confluenza' nella figura e nell'opera del filosofo torinese. Così come penso che una delle mosse più riuscite di Sessa stia proprio nel tentativo di far rientrare (va detto, senza eccessive forzature o ansie di annessione ideologica) Colli nel 'pensiero di Tradizione'1. A tal proposito, risultano preziose le osservazioni di Sessa (pp. 87-88) sulla del tutto peculiare 'politicità' di Colli, decisamente consonanti con un 'pensiero di Tradizione' non inteso in maniera astrattamente astorica ma neppure piegato ad esigenze ideologiche quali che siano.
Giovanni Damiano
 

1 Non a caso, in uno dei pochi libri (e non dei migliori…) dedicati a Colli si poteva leggere che la ricerca da parte del filosofo torinese di "un proprio 'sistema' filosofico non [era] certo esente da rischi: fondamentale quello del recupero di una mitologia dell'originario e dell'autentico" (F. Montevecchi, Giorgio Colli. Biografia intellettuale, Torino 2004, pp. 67-68).

Collezione Peruzzi : la più importante collezione di grafica e multipli di arte italiana contemporanea

 Segnalazione:
 La Collezione Peruzzi di Milano www.collezioneperuzzi.it 

Le edizioni di Vittorio Peruzzi sono in vendita nelle Librerie Feltrinelli , su www.lafeltrinelli.it

e su www.ilmiolibro.it






























*