HOMO LUDENS
Abstract: il primo e maggiore portato della tecnologia <attuale> riguarda piuttosto una ri-scoperta dell'Homo Ludens, in scia alla ricerca e all'analisi particolari di Johan Huizinga e in particolare presenti nel suo testo dal titolo omonimo, Homo Ludens, apparso in lingua tedesca per la prima volta ad Amsterdam nel 1939.
Poche sono le <scoperte> capaci d'indirizzare il corso degli eventi umani mediante un'idea costituita o pre-costituita. Nel lungo cammino dell'umanità, l'evoluzionismo darwiniano è forse l'ultima, in ordine di tempo, ad avere queste caratteristiche.
E tuttavia, è bene dirlo subito, si tratta pur sempre di un'idea. Ciò che gli antichi greci avrebbero chiamato δόξα, <opinione>, per distinguerla alla maniera di Platone dall'ἐπιστήμη, termine usato a quel tempo con il significato di <conoscenza scientifica>. In ordine alla quale anche in tempi moderni lo stesso Einstein avrebbe poi sottolineato come, trattandosi di <fisica>, essa "non è (e non può essere) certa". Pertanto, sia che abbiamo a che fare con un'opinione, sia che abbiamo a che fare con una conoscenza scientifica, in entrambi i casi discutiamo di una <cosa> o <cose> che non riguardano direttamente la <realtà>, ma ne costituiscono in qualche modo un'interpretazione. E quindi giammai, potremmo dire, una <immedesimazione> (e cioè: dire la medesima cosa che <è>, cfr. Parmenide, Poema sulla natura), quanto invece una <rappresentazione>. Ciò che, in senso platonico, chiamiamo per l'appunto idea.
La <sapienza> dell'uomo, così intesa, costituisce pertanto un'ipotesi che, nello sviluppo dialettico del <logos>, e prima ancora del <mythos>, assume la valenza di tesi o antitesi. Attribuire all'Homo la caratteristica di Sapiens serve dunque soltanto a caratterizzarlo, in ordine alle altre <specie>, sia animali che vegetali, come una specie dotata di una o più specifiche caratteristiche distintive; così che, in tal guisa, i sostenitori della tesi antropocentrica relativa all'Homo Sapiens intendono dire che l'uomo si distingue dalle altre specie per la sua capacità propria di <conoscenza scientifica> o <sapere>.
Ma, come abbiamo già inteso, ammesso pure che si tratti di un carattere distintivo della specie Homo, tale <conoscenza scientifica> o >sapienza> non è che una <rappresentazione>, o altrimenti a dirsi, una <immagine> o, ripetiamo, in senso platonico, nient'altro che un'<idea> dell'uomo. E quindi, se volessimo risalire a un principio o inizio di siffatta rappresentazione, dovremmo piuttosto chiederci cosa (?) la precede e se questo qual-cosa abbia un modus o modalità di distinzione che altre specie, animali e vegetali, non avrebbero affatto.
Agli inizi del secolo scorso, il dibattito <culturale> - circa le origini dell'uomo e le sue conoscenze scientifiche passate, presenti e futuribili - ha raggiunto livelli di ricerca e analisi così dettagliati, tali da far ritenere attualmente più verosimile l'ipotesi di una <realtà> (?) fatta di energia e non di materia, ovvero, come scrive Jim Baggott, sostenere la tesi che "la materia (sia) solo un comportamento dell'energia" (J. Baggott, Massa, Adelphi). Lo stesso Aristotele usava già il termine ενέργεια per caratterizzare in qualche modo (la realtà del)l'essere. A differenza di quanto, scrive Martin Heidegger, accadeva (ndr e accade tuttora) nella sua "epoca dell'essere in cui la ενέργεια è tradotta con actualitas" (M. Heidegger, Holzwege, nella versione italiana dal titolo Sentieri interrotti, edizione La Nuova Italia)
Nel dibattito, così proseguito, accanto alla <figura> dell'Homo Sapiens, ad inizio secolo appare e si consolida sempre con più <forza> l'idea e quindi la tesi dell'Homo Faber, chiaramente di un nuovo <homo faber> capace perfino di riprodurre o superare se stesso, per parti o per intero, in modo da <creare> un Super-Uomo o una specie Post-Human mediante il sapere di nuove conoscenze scientifiche (eugenetica, neuroscienze, computer science) e l'uso di nuove tecniche artificiali (IA).
Attraverso e oltre il secolo passato e ancora in questione, l'Homo Sapiens e l'Homo Faber hanno dunque sviluppato un cammino comune, che, oggi, nella stringente <attualità>, ci porta a discutere di un eventuale "pericolo" per l'uomo di proseguire nella suddetta fase di ricerca e analisi scientifica, artificiale e tecnologica. Con riferimento a un articolo apparso su Il Giornale.it, a firma di Vittorio Macioce (https://www.ilgiornale.it/news/politica/intelligenza-artificiale-allarme-degli-scienziati-rischio-2132649.html), riteniamo tuttavia che la questione del rischio per l'umanità sia parte di un discorso e di una questione più generale, così come già in effetti affrontata nel dialogo tra l'Heidegger di Holzwege (op. cit.) e la sua allieva, l'Arendt di Vita activa (edizione italiana Bompiani), sulla <condizione> dell'uomo in quanto tale.
Questione la cui risoluzione, per la Arendt, risiede nell'opportunità di liberare l'uomo dalla condizione lavorativa che lo conduce all'alienazione. Diversamente dalla risoluzione prospettata da Heidegger, che, in linea con la più antica <Tradizione> <rituale> e <culturale>, diciamo pure <sapienziale>, ritiene invece che l'uomo debba piuttosto accettare e condividere la propria essenza, e cioè, direbbe sinteticamente Valery, "le grand don de ne rien comprendre à notre sort". Così che, a nostro parere, la risoluzione arendteana si rivelerebbe e si rivela in qualche modo "inutile", perché l'avvento delle macchine - pur liberando l'uomo da una relativa condizione di "animal laborans" - non determina affatto un cambio di prospettiva dell'uomo ovvero un passaggio ulteriore rispetto alla rappresentazione di un Homo che, prima ancora che Sapiens e Faber, si ri-vela piuttosto Ludens, destinato cioè da sempre e per sempre a vivere in una sorta di paradiso, sia <naturale> che <artificiale>.
E pertanto, il primo e maggiore portato della tecnologia <attuale> riguarderebbe piuttosto una ri-scoperta dell'Homo Ludens, in scia alla ricerca e all'analisi particolari di Johan Huizinga e in particolare presenti nel suo testo dal titolo omonimo, Homo Ludens, apparso in lingua tedesca per la prima volta ad Amsterdam nel 1939.
Ma, prima di proseguire in una sorta di confronto analitico tra i diversi schemi o modelli - originali o derivati - riguardanti la specie Homo, occorre qui premettere all'intero sviluppo del discorso che non crediamo affatto che sia esistita un'epoca della nostra storia umana in cui - come viceversa fanno supporre Giorgio de Santillana ed Hertha von Dechend nella loro monumentale opera dal titolo italiano Il mulino di Amleto (edizione Adelphi 2000) - si sia verificato un passaggio evolutivo, diciamo pure una separazione netta, tra la <figura>, <rappresentazione>, <immagine> del "Dio Architetto" a quella del "Dio Fabbro". Laddove, la figura dell'Architetto s'immedesima perfettamente con la figura dell'Homo mensura rerum di Protagora o Sapiens che dir si voglia.
In ogni caso, dunque, l'Homo - come già detto - avrebbe avuto e quindi riteniamo che abbia avuto a che fare prima con una <rappresentazione> o <immagine> - e qui sta la novità (si fa per dire) della tesi di Huizinga - che è il <gioco>; ovvero "una categoria di vita assolutamente primaria, facilmente riconoscibile da ognuno, con una sua 'totalità'" (J. Huizinga, Homo ludens, ed. Einaudi).
Tale che è interessante notare un primo parallelismo tra l'Huizinga del predetto saggio e l'Heidegger del suo predetto saggio, riguardo a ciò che entrambi definiscono come "un rapporto di forze". Infatti, scrive Huizinga: "Perché il gioco, qualunque sia la sua essenza, non è materia, oltrepassa già nel mondo animale i limiti dell'esistenza fisica. Riguardo a un mondo di immagini come determinato da un mero rapporto di forze, il gioco sarebbe una sovrabbondanza nel senso proprio della parola" (op. cit.). Scrive Heidegger: "L'uomo sta per slanciarsi su tutta la terra e nella sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura - ridotto a <forze> - e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria. Quest'uomo in rivolta non è più in grado di dire semplicemente che cosa è (ist), di dire che cos'è che una cosa è" (op. cit.).
E dunque il cosiddetto <rapporto di forze> sarebbe ed è, riteniamo, immagine che si attaglia perfettamente a un'Arte o Scienza (cfr. l'uso dei termini da parte di Aristotele nella sua Metaphisica) capace di <misurare>, <architettare>, <fare>, <creare>; ma non <giocare>.
Giocare è un diverso modo di agire della Cosa-Uomo (ndr lo stesso Agostino aveva detto che che cosa sia l'uomo lo sa - eventualmente, aggiungiamo noi - solo Dio), consapevole o inconsapevole, che "si basa su un uso di determinate immagini (…) Le grandi attività originali della società umana sono tutte già intessute di gioco (ndr il gioco precede ogni cosa) Nell'ambito del mito e del culto tuttavia sorgono le grandi attività della vita culturale: giustizia e ordine, traffico e industria, artigianato e arte, poesia, filosofia e scienza. Anche queste sono dunque radicate in tale base di azione giocosa (…) L'idea non è affatto nuova. Già è stata universalmente in voga, una volta, cioè al principio del Seicento. Era sorto il grande teatro profano. Nella magnifica serie che va da Shakespeare passando per Calderòn sino a Racine, il dramma domina nella poesia del secolo" (Huizinga, op. cit.).
E dalle parole appena riportate nasce un altro parallelismo, ma a differenza del precedente diverso per i contenuti, tra lo stesso Huizinga e stavolta gli autori citati di Il mulino di Amleto. In sintesi, oggetto della contesa - una forma anch'essa di gioco - è la <figura> di Amleto. Ma: nell'opera dei due autori, Amleto è una figura tragica e non invece giocosa. In Il mulino di Amleto, l'<identificazione> del personaggio di Amleto avviene dall'inizio attraverso il racconto di Saxo Grammaticus (ca. 1150 - 1216, nei libri III e IV del suo Gesta Danorum): "Nella prima parte del racconto di Saxo, il significato tragico è chiaramente adombrato là dove il ritorno di Amleto viene fatto coincidere con il momento delle sue esequie. La logica vuole che egli perisca assieme al tiranno" (G. de Santillana - H. von Dechend, op. cit.).
Per l'appunto, si tratta qui della <logica>. Logica che non attiene soltanto alla trama del racconto, in quanto è la <logica> medesima che, in base alla <teoria> degli autori, precede la genesi e la formazione degli eventi. A differenza di quanto sostiene Huizinga riguardo viceversa al <gioco>. E tuttavia, gli stessi autori non possono fare a meno di aggiungere immediatamente nel loro testo che: "Il nome Amleth, Amlodi, Amlaghe in medio inglese, Amlaidhe in irlandese, equivale sempre a <sempliciotto>, <stupido>, <senza intelletto, come una bestia>, e rimase in uso come aggettivo" (Ibidem, op. cit.). Una rappresentazione, questa, della figura dell'Homo-Amleticus che di certo Huizinga avrebbe assai gradito. Dato che, consapevolmente, egli aveva già annotato, immediatamente di seguito al suo testo precedentemente qui riportato: "I poeti volta per volta paragonavano il mondo a una rappresentazione in cui ognuno ha la sua parte. Con ciò il carattere ludico della vita culturale sembra interamente riconosciuto. Tuttavia quando si osserva bene quel paragone d'uso tra la vita e una rappresentazione scenica, risulta che, concepito su basi platoniche, esso si informa in gran parte alla predica morale" (Huizinga, op. cit.).
E dunque, nel corso dei millenni, diciamo che talvolta si è trattato piuttosto di un'interpretazione <morale> sottesa al rapporto d'uso tra <vita> e <rappresentazione> scenica, un gioco tragico tra due contrapposte idee del <bene> e del <male>. Un gioco tragico che lo stesso Huizinga ritiene "una variazione sul vecchio tema della vanitas, un lamento per la vanità di tutte le cose terrene, non altro" (Ibidem, op. cit.). Ed è qui evidentissimo il riferimento al detto del Qoelet, attraverso una linea interpretativa tra vita e rappresentazione che inizia dal racconto del Vecchio Testamento e termina nel racconto del Nuovo Testamento. Un'<esperienza>, tuttavia, anticipata e rappresentata già nel rituale (da ritus = ripetizione spazio-temporale, ciclica, di immagini o rappresentazioni) del più antico sacrificio vedico.
E tuttavia, Huizinga definisce questa <rappresentazione> sacra un "dramenon, cioè qualche cosa che si fa". Siamo cioè nell'ambito di una <visione interpretativa>, oltre che dell'Homo Sapiens, dell'Homo Faber: "Quello che si rappresenta è un drama, cioè un'azione che si compie sia nella forma di una rappresentazione, sia in quella di una gara. L'azione figura un avvenimento cosmico, non soltanto però come rappresentazione, ma come identificazione (…) Platone ammetteva senza reticenza questa identità tra gioco e azione sacra (…) L'uomo è fatto trastullo e strumento di Dio, e questa è la parte migliore in lui. Perciò ogni uomo e ogni donna devono, secondo tale norma, passar la vita giocando i giochi più belli; proprio inversamente alla tendenza d'oggi. Infatti, egli prosegue, essi ritengono la guerra una cosa seria, 'ma nella guerra non è né gioco né educazione, cose che noi consideriamo come le più serie. In tempo di pace ognuno deve passare la vita come meglio può. Qual è dunque il modo giusto? Si deve vivere giocando, facendo dati giochi, e dati sacrifici, cantando e ballando, per poter rendere propizi gli dei, respingere i nemici e vincerli nella battaglia (Ibidem, op. cit.; ndr i riferimenti del testo sono a Platone, Leggi, VII, 803 -796).
E tuttavia, nella <visione> di Platone non c'è alcun posto per "qualche salvezza". Dato che, come conclude altresì lo stesso Heidegger: "C'è qualche salvezza? Essa c'è in primo luogo e soltanto se il pericolo è (ist). Il pericolo è se l'essere stesso va all'estremo e capovolge l'oblio che proviene dall'essere stesso" (Heidegger, op. cit.). E cioè solo se la <sapienza> di cui abbiamo finora parlato diventi in qualche modo, per l'<essere> (e non l'<ente>) che agisce, <vera certezza>.
Nel dubbio che questo possa non/accadere, non ci resta altro di meglio che giocare.
ANGELO GIUBILEO
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