Angelo Giubileo, Il Materialismo Eterno


Nel 1888, Engels scrive un breve trattato dal titolo in italiano Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca. Interessante, in prefazione, è la dichiarazione circa lo scopo di rendere "sempre più necessaria una esposizione breve, sistematica, dei rapporti (suoi e di Marx) con la filosofia hegeliana, della (loro) origine e del (loro) distacco da essa".
Lo scritto è suddiviso in quattro capitoli. Per non togliere qui spazio all'argomentazione che in generale ci interessa affrontare, presupponendo la conoscenza, che tuttavia in parte richiameremo dei primi tre capitoli, proponiamo di seguito un'analisi critica, anche rispetto all'attualità, dell'ultimo capitolo che l'Autore introduce annotando in prima persona che: "non posso negare che prima e durante la mia collaborazione di quarant'anni con Marx io ebbi pure una certa qual parte indipendente tanto alla fondazione come alla elaborazione della teoria". La teoria in questione è la teoria del materialismo.
Inoltre, l'autore stesso immediatamente prosegue, aggiungendo: "Ma la maggior parte delle idee direttrici fondamentali, particolarmente nel campo economico e storico, e specialmente la loro netta formulazione definitiva, appartengono a Marx".
Semplificando, ciò significa soprattutto che la teoria materialista dell'essere (termine quest'ultimo riconducibile al pensiero, che Heidegger definisce "iniziale", di Parmenide), declinata in ambito storico ed economico, e quindi in ordine a ciò che chiamiamo "umano", e quindi propriamente dagli uomini, si serve, necessariamente, di un metodo che diciamo "dialettico", e che, tradizionalmente, aggiungiamo, è immediatamente riconducibile al pensiero di Platone, proprio colui che, secondo la tradizione occidentale del pensiero, è considerato il parricida o parmenicida. Come vedremo, almeno in parte non a caso.
Nei tre capitoli che dunque precedono, Engels dimostra il cosiddetto punto di caduta della filosofia hegeliana, laddove il filosofo stesso "concepisce le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto". A differenza invece di quanto avrebbero poi sviluppato egli stesso con Marx, concependo "di nuovo i concetti del nostro cervello in modo materialistico, come riflessi delle cose reali". Oltre al capovolgimento dell'impostazione, che implica una contraria sistematica dell'essere, interessante è anche evidenziare l'uso dell'espressione avverbiale di nuovo. E vedremo, in base a nostri più specifici richiami alla tradizione filosofica dell'antichità, il perché.
Nel prosieguo della lettura dell'ultimo capitolo, Engels scrive che "la grande idea fondamentale (è) che il mondo non deve essere concepito come un complesso di cosecompiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, non meno dei loro riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di origine e di decadenza …". Qui, è bene precisarlo subito, necessita intendere il processo del materialismo non come un susseguirsi di eventi che accadono rispetto a un ordine predeterminato. Se di un ordine vogliamo parlare, esso è da intendersi genericamente quale l'ordine del tempo, che in sé e per sé rappresenta il movimento (o la trasformazione delle cose, così come ancora ne parla Aristotele), privo di un fine. O altrimenti, un movimento fine a se stesso, e quindi senz'altro necessario.
La teoria del materialismo è quindi basata su ciò che in qualche modo resta comunque un postulato relativo al fatto sia pure piuttosto evidente che, secondo l'ordine del tempo, l'essere si mostra costantemente in divenire. Esattamente, è questo il pensiero originario della filosofia, così come la tradizione stessa lo fa risalire al più noto detto di Anassimandro, e cioè: Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo.
La teoria del materialismo appartiene quindi necessariamente all'ordine del tempo, e quindi, a differenza dell'Idea o del concetto hegeliano, non precede, né altrimenti logicamente potrebbe, l'ordine del tempo medesimo. La teoria del materialismo è legata indissolubilmente alla struttura del tempo o, in genere, al movimento. Nient'altro. E qui, a commento di quanto illustrato dallo storico della scienza Giorgio de Santillana, in compagnia dell'allieva Herta von Dechend, nel loro Il mulino di Amleto, possiamo concludere dicendo: perché l'eternità (secondo il significato del nostro linguaggio che non è più quello del pensiero iniziale) esclude il moto. Su questo punto, torneremo soltanto alla fine.
E dunque, riprendendo immediatamente di seguito la lettura proposta di Engels, ne consegue, correttamente, che: se però nelle ricerche si parte continuamente da questo modo di vedere (n.d.r.: proprio del materialismo), allora finisce una volta per sempre l'esigenza di soluzioni e di verità definitive; si è sempre coscienti che ogni conoscenza acquisita è necessariamente limitata, è condizionata dalle circostanze in cui la si è acquistata; ugualmente non ci si lascia più imporre dalle vecchie antinomie di vero e di falso, di buono e di cattivo, di identico e di diverso, di necessario e di casuale, antinomie che la vecchia metafisica ancor sempre in voga non è in grado di superare ,e il cosiddetto elemento casuale è la forma dietro cui si nasconde la necessità, e così via".
E allora, il lettore potrebbe anche interrogarsi sul fatto se esista piuttosto una "nuova metafisica" capace viceversa di risolvere le contraddizioni o aporie, così come le chiama invece Plutarco. Ma, già prima di Plutarco, Aristotele in proposito escludeva categoricamente questa possibilità, come riportato ne Il mulino di Amleto citato:
I nostri progenitori delle più remote età hanno tramandato ai loro posteri una tradizione in forma di mito, secondo cui questi corpi (naturali) sono dei e il divino racchiude l'intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … essi dicono che questi dei hanno forma umana o son simili ad alcuni degli altri animali … Ma se si dovesse separare il primo punto da queste aggiunte e lo si considerasse da solo – il fatto cioè che essi pensavano che le prime sostanze fossero dei – lo si dovrebbe ritenere un'enunciazione ispirata e rifletter che, mentre probabilmente ciascun'arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni, assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie dell'antico tesoro.
Salvo, anche, pentirsene. Almeno a quanto dice, come vedremo, lo stesso Plutarco.
E, in effetti, il tentativo di sostituire alla vecchia una nuova metafisica era già stato avviato da Platone che, in particolare così com'è illustrato ne Il Politico, pensa di sostituire l'ordine (naturale e d'interpretazione umana) del divino con l'ordine (d'interpretazione umana) del politico, da cui sarebbe anche nato il capovolgimento di cui parla anche Engels in merito all'elaborazione del pensiero di Hegel.
Platone non riesce, quasi, a capacitarsi del fatto, di per sé peraltro evidente, che l'uomo e il maiale, assunto a emblema dell'animalità (spesso, anche nei futuri secoli a venire), possano avere uno stesso destino, potremmo anche in qualche modo dire "mortale", che li accomuna, e cioè il fatto descritto efficacemente da Anassimandro che da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario.
Il sistema idealistico (e non materialistico, ma nel senso inteso da Engels) di Platone si rivela però oltre che contraddittorio oltremodo inefficace. Scrive infatti Plutarco: "… Ma siccome è difficile comprendere e stabilire in quale modo e fino a che punto si possa far intervenire la provvidenza, succede che nell'opinione di alcuni il dio non c'entra per niente, per altri invece egli è la causa di tutte le cose senza eccezione. Ma né gli uni né gli altri tolgono la giusta misura. E dunque dice bene chi sostiene che Platone, presupponendo un elemento sottostante alla qualità in divenire - quello che viene chiamato oggi materia o natura (e cioè il concetto di natura o materia rifiutato anche da Engels) - abbia liberato i filosofi da molte gravi difficoltà.
Aggiungendo però subito dopo che: "molte difficoltà ancora più gravi sono state risolte da quelli che immaginarono il genere dei demoni, a metà fra dei e uomini, il quale istituisce in certo modo un rapporto reciproco fra noi e la divinità". E, in definitiva, nel senso che Aristotele, almeno nel passo appena citato, aveva puntualmente precisato.
La teoria materialista dunque, è bene ripeterlo, non pone come fondamento (della teoria) dell'essere la materia o natura così come diversamente qualificata e intesa già ai tempi di Plutarco. Il fondamento della teoria materialista è, ribadiamo ancora una volta, la struttura del tempo, e quindi il movimento o, avrebbe detto Aristotele, in qualche modo errando, il processo di trasformazione delle cose.
Qui, in argomento sull'essere, accenniamo soltanto al fatto che in Parmenide la questione trova, in definitiva, una soluzione coerente e non contraddittoria, ma non suscettibile di una prova definitiva, alla stessa stregua della prova definitiva a cui Godel farà cenno nella sua dimostrazione relativa ai suoi teoremi di incompletezza. Allo stesso modo, anche la teoria materialista di Marx ed Engels conserva intatta la propria coerenza e unicità sistematica.
La teoria e in definitiva il termine materialismo - così come inteso dai più antichi progenitori detti da Aristotele e via via da Engels fino all'attualità, come però meglio specificheremo anche qui di seguito, anche se non immediatamente - rappresenta originariamente l'incessante metamorfosi dell'essere.
Nell'adversus Colotem, Plutarco dibatte a lungo e fino a chiarire definitivamente ciò che è accaduto potremmo dire tra i filosofi, ciò che egli definisce l'errore o anche il senso del capovolgimento iniziato con Platone e proseguito via via almeno fino a Hegel. Plutarco, in proposito, così scrive: "Dunque, il discorso (di Parmenide) sull'essere che afferma che esso è uno non elimina la molteplicità e le sensazioni, bensì mostra la differenza tra queste ultime e l'intellegibile. Platone, mostrando ciò ancor più chiaramente nella sua teoria delle idee, ha (tuttavia) egli stesso concesso a Colote la possibilità di essere confutato".
Proseguendo nella sua testimonianza, Plutarco dichiara inoltre che sia stato piuttosto "Aristotele che sovvertì completamente le idee, a causa delle quali Platone è rimproverato anche da Colote, per quanto era determinato ad abbattere la filosofia di Platone (…) Platone invece riteneva che il non essere differiva mirabilmente dal non essere l'ente: con il primo infatti si aboliscono tutte le essenze, mentre con il secondo si mostra quell'alterità tra il partecipato e il partecipante, che i filosofi successivi posero unicamente sotto la differenza tra genere e specie e tra qualità comuni e qualità proprie, senza progredire ad un livello superiore ed inciampando, così, in aporie logiche più grandi".
E, per finire: "Lo stesso è accaduto ai filosofi più recenti: essi hanno privato del nome di ente molte e importanti realtà, tra le quali il vuoto, il tempo, il luogo e tutto il genere dei significati nel quale risiede la verità intera: Essi infatti dicono che queste realtà non sono enti e pur tuttavia sono qualcosa, e continuano a utilizzarle nella vita e nel filosofeggiare come se esistessero e fossero reali (…) Ma questa differenza di essenza si trova nei fatti; più saggio di Platone è dunque Epicuro, in quanto chiama enti tutte le cose allo stesso modo (…) Ma se Platone è massimamente in errore a tal riguardo, egli doveva presentare un rendiconto a coloro che in greco si esprimono con maggiore precisione e nei discorsi con maggiore purezza per aver creato scompiglio nelle parole, ma non per aver abolito la realtà o per averci portato via la causa del vivere, quando ha denominato le cose divenute cose divenute e non, come invece fanno costoro, cose che sono". Accadeva ieri, accade anche oggi, e forse domani.
Ora, non resta che affrontare più in dettaglio la questione relativa al metodo. E il metodo a cui fare riferimento, non c'è alcun dubbio in proposito, è il metodo della dialettica, che anche la tradizione, per l'appunto, fa risalire a Platone.
Abbiamo già riportato il brano di Engels in cui egli evidenzia come Noi concepimmo di nuovo i concetti del nostro cervello in modo materialistico, come riflessi delle cose reali, invece di concepire le cose reali come riflessi di questo o quel grado di concetto assoluto. Egli, tuttavia, immediatamente aggiunge: La dialettica si riduceva in questo modo alla scienza delle leggi generali del movimento, tanto del mondo esterno, quanto del pensiero umano: a due serie di leggi, identiche nella sostanza, differenti però nell'espressione, in quanto il pensiero umano le può applicare in modo consapevole, mentre nella natura e sinora per la maggior parte anche nella storia umana esse giungono a farsi valere in modo incosciente, nella forma di necessità esteriore, in mezzo a una serie infinita di apparenti casualità. Ma in questo modo la dialettica del concetto stesso non era più altro che il riflesso cosciente del movimento dialettico del mondo reale, e così la dialettica hegeliana veniva raddrizzata, o, per dirla più esattamente, mentre prima si reggeva sulla testa, veniva rimessa a reggersi sui piedi".
L'uso della metafora senz'altro è utile, in genere, a favorire la comprensione di un argomento. Ma, qui è forse il caso di riferirci a fatti reali, e così fa Engels, non prima però di ribadire che, come nel campo della natura, (è) necessario eliminare questi nessi costruiti artificialmente scoprendo i nessi reali; compito che si riduce, in sostanza, a scoprire le leggi generali del movimento, che si impongono come leggi dominanti nella storia della società umana".
E tuttavia, occorrerebbe evitare che le leggi generali del movimento non siano confuse e quindi erroneamente interpretate alla stessa stregua di ciò che è già accaduto per le idee di Platone. Il rischio infatti opera così concretamente che lo stesso Engels fa fatica, direi, a precisare i criteri del metodo.
Egli scrive in proposito: stabilire le cause determinanti, che in modo chiaro o confuso, in modo immediato o in forma ideologica o persino divinizzata, si riflettono qui nello spirito delle masse operanti e dei loro capi (i cosiddetti grandi uomini) come motivi coscienti: questa è l'unica via che ci può mettere sulle tracce delle leggi che regolano la storia in generale, nonché la storia dei singoli periodi e dei singoli paesi".
Ma, la ricerca delle cause può indurre e quindi di fatto induce allo stesso tipo di errore individuato da Plutarco.
Passando in rassegna brevemente la storia di singoli periodi e di singoli paesi, Engels rileva e sostiene che, attraverso i fatti storici occorsi, l'umanità ha attraversato il periodo degli dei nazionali legato alla formazione e allo sviluppo dei primi popoli e nazioni. Fino all'avvento dell'impero romano e più esattamente all'edificazione e alla proclamazione, con l'editto di Tessalonica (380), di un'unica religione statale, il cristianesimo. E tuttavia, da subito, la stessa religione dell'impero, aggiungo personalmente, subirà la sorte e quindi le forme storiche della divisione tra l'impero d'Occidente e quello d'Oriente, e ancora, in Oriente il processo d'islamizzazione, in Occidente il processo prima delle eresie e in fine di secolarizzazione.
Nella fase intermedia, dal medioevo all'attualità storica del presente engelsiano, l'autore stesso descrive il passaggio dei periodi storici in Occidente in ragione prima di fatti politici e in specie nell'appropriazione violenta di territori e regni durante il corso dell'intero periodo feudale; e poi, con lo sviluppo del moderno sistema capitalistico e il conseguente avvento delle classi della borghesia e del proletariato, in ragione di fatti o cause puramente economiche: era altrettanto chiaro che nella lotta tra proprietà fondiaria e borghesia, non meno che nella lotta tra borghesia e proletariato, si trattava principalmente di interessi economici, per la soddisfazione dei quali il potere politico non era che un mezzo.
Così che a Engels non resta poi che concludere: Ognuna delle diverse classi, quindi, utilizza le religione che le corrisponde. L'aristocrazia fondiaria, il gesuitismo cattolico o l'ortodossia protestante; la borghesia liberale e radicale, il razionalismo; e non ha nessuna importanza il fatto che i signori credano o non credano alle loro rispettive religioni.
Chiaro sì, ma perentorio e quindi senz'altro rischioso dal punto di vista della storia, che puntualmente smentirà, in qualche modo, Engels; mediante i fatti che sopravverranno, e cioè l'avvento di presunti nuovi fenomeni quali il comunismo, il fascismo, il nazismo e da ultimo una nuova forma di globalismo, in certo qual modo accomunati da un processo storico identificativo di progressiva scomparsa delle classi e massificazione dei governati.
In fondo, stando al giudizio di Plutarco, possiamo dire che l'errore di Engels possa avere la stessa natura dell'errore di Platone; così che non sia errato andare alla ricerca delle cause primarie che "mettono in movimento grandi masse, popoli interi, e in ogni popolo, intere classi", ma sia tuttavia errato definire quali siano queste cause. E quindi, come aveva suggerito qualche passo prima, lo stesso Engels, ciò che non può essere smentito è solo il fatto che ci sono genericamente dei motivi che muovono gli uomini ad agire sulla scena della storia.
L'unica legge che si rivela sempre valida ed efficace è la legge del movimento. Così che, la questione stessa del metodo trova risoluzione nella risoluzione medesima relativa alla questione del sistema dell'essere, che, così come dice Parmenide: "è" (frammento 7/8, v. 7). Senza l'aggiunta di alcuna qualità.
Posso immaginare che vi mostriate comunque dubbiosi di fronte ai fatti storici dell'attualità, che pure pensate sia il caso in qualche modo d'interpretare. E allora, anche la mia proposta è quella di contrapporre, dialetticamente, ciò che nel presente storico molti chiamiamo "elitismo" a ciò che altrettanto confusamente e molti chiamiamo "populismo". Ribadendo, tuttavia, che le forze materiali, come sempre accade, sono tali da non poter essere compiutamente identificate, in quanto eternamente (e cioè, nel senso originario del termine, continuamente) in movimento.
Angelo Giubileo



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