martedì 31 marzo 2015

Legal Community: ONLINE LA PRIMA EDIZIONE DELL'HR E-BOOK

 
HR E-BOOK 2014
Non solo una directory. La prima edizione dell'HR e-book realizzato da legalcommunity.it in collaborazione esclusiva con Grimaldi Studio Legale, è un fondamentale strumento di riflessione sull'evoluzione della figura del direttore delle risorse umane in azienda.

Una funzione divenuta strategica. Un ruolo che ha acquisito una posizione essenziale nella catena del valore di ogni impresa. 
Chiunque abbia ricoperto tale ruolo in questi anni di crisi ha dovuto affrontare al fianco del top management o della proprietà il rebus della riorganizzazione e della razionalizzazione aziendale senza perdere la consapevolezza che il lavoro e i lavoratori sono ciò che rende unica un'impresa e vincente un prodotto.

Sono stati anni di formazione per una nuova classe dirigenziale. Uomini e donne "al lavoro", ossia, professionisti dedicati alla cura e alla valorizzazione dell'asset che, assieme alla visione di chi guida l'impresa, deve realizzare la crescita e lo sviluppo invocato dalla ripresa.

Ecco, questa directory offre una panoramica ampia sulle professionalità in campo e raccoglie testimonianze inedite di chi lavora sul campo e può raccontare in prima persona la complessità di un processo che ha innovato radicalmente la professione.

Buona lettura!
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Ernest Hemingway e... Pierfranco Bruni



Quando Ernest Hemingway  aveva la mia età incontrò la fine. Di là dalla letteratura c'è la solitudine e la parola è il destino di morte

di Pierfranco Bruni

      Quando Ernest Hemingway si uccise aveva la mia età. Ernest è nella mia vita da anni antichi. Quel "vecchio"  il "mare" che lessi  in quegli anni del liceo ora è diventato il libro del destino. Gli addii, le solitudini, la consapevolezza che la morte è nella vita. Sono i viaggi che hanno accomunato la mia scrittura a quella di Ernest. Sono passati anni dal giorno in cui lessi quelle pagine. Raccontando Ernest racconterei il mio rapporto con la sua "storia"…
Gli addii sono ciò che non capì Moravia. La solitudine e la morte sono i percorsi mai compresi dal vuoto letterario di Calvino e sempre catturati da Pavese. Ernest non è lo scrittore della leggerezza. È lo scrittore del labirinto soprattutto con il tocco della campana. Se si dovesse raccontare Ernest Hemingway, in un rapporto tra vita e letteratura, non basterebbe un solo romanzo di quelli che sono stati pubblicati in vita.
Romanzi che, a volte, richiamano il "diario" nel senso delle annotazioni del suo essere, del suo sentire e del suo vivere che si trasformano in immagini narranti. Ma che lasciano un tracciato in cui l'avventura, pur non essendo parossistica, diventa deflagrante in termini letterari. Non solo romanzi. Anche poesia. Le 88 poesie sono il segmento del legame morte vita e vita suicidio. Comunque in Hemingway resta nevralgico il rapporto tra vita e letteratura. E non è soltanto una chiave di lettura per comprendere, nei suoi virtuosismi e nei suoi vizi o nei suoi malesseri, l'uomo. E' piuttosto un intreccio caratteriale che contraddistingue lo scrittore – uomo o l'uomo – scrittore.Hemingway sapeva benissimo che senza scrittura il suo stesso quotidiano non aveva ragione di esistere. Trasformava ogni passione (dall'amore al viaggio, dalla frenesia che lo colpiva in quella incostante inquietudine alla morte) in avventura dello scrivere. Pur tuttavia non si può considerare uno scrittore – diario ma uno scrittore – avventura. Ma anche un avventuriero che aggrediva il tempo fino a quando il tempo non lo aggredì.
      Ebbene, 21 luglio 1899. Nasce nell'Illinois a Oak Park. La sua biografia lo fotografa senza mezzi termini come un avventuriero dunque. Ma non uso questo termine in funzione dispregiativa. Avventuriero qui sta come ricerca di un superamento che va oltre i limiti del destino. Incocciò la vita convinto di superarla in ogni aspetto, in ogni esplosione. Convinto di vincerla la vita attraverso l'avventura che si trasformava però nella scrittura. Scrivere, come già si diceva, era vivere. Ma scrivere era raccontare la vita nella storia e nel tempo.
      Indubbiamente creò uno spaccato nella letteratura europea. Pavese definì il suo vivere letteratura – vita e i suoi codici stilistici ed esistenziali come "monellesche e impassibili birbanterie". Anche se lo considerò un classico insieme ad altri scrittori come Lee Masters, Anderson, Faulkner.
      Sopravvalutato più del dovuto o meno: non è questo che interessa. Ma Pavese, insieme a quella generazione compreso Vittorini, non ne fece un emblema certamente. Parlò della letteratura americana come ricerca e come conoscenza di un mondo altro rispetto alla formazione letteraria europea e italiana tanto da fargli dire che: "Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti".
      Era l'America sul piano culturale e storico che interessava più che i singoli scrittori anche se gli scrittori erano poi parte integrante di un modello soprattutto di vita. Non mancarono anche in quel clima le diffidenze, tanto che Italo Calvino il 13 novembre del 1954 su "Il Contemporaneo" dà una sfilzata di  fioretto e riferendosi a Hemingway sottolinea: "quella sua vita e filosofia di vita di cruento turismo cominciò ad ispirarmi diffidenza e perfino avversione e disgusto".
      Giornalista, ideatore cinematografico, personaggio. Tre aspetti che si integrano. Perché ideatore cinematografico? Molti dei suoi romanzi sono un apripista per sceneggiature cinematografiche. Film che hanno segnato un particolare momento. Film tratti dai suoi romanzi.  Il suo realismo non è magico ma ha sempre "i piedi per terra". Ancora Italo Calvino dopo quelle sottolineature aggiunge in tono più pacato: "Hemingway scrive a secco, non sbava quasi mai, non gonfia, ha i piedi per terra". Ma non lo capì, perché Calvino non capì mai il senso del destino dello scrittore destino. Pavese sì. Mentre Giansiro Ferrata nel 1956 in Il romanzo del Novecento afferma: "Perseguì la nuda eloquenza delle cose, il ritmo dei fatti, il rapporto con un sistema di cose carico di realtà quotidiane ma intime, organiche nella propria naturalezza: uno stile positivo, a suo modo".
Il contatto con la realtà, per Hemingway, diventa indispensabile. Lo si avverte sin dai primi scritti. In quel romanzo, primo riferimento, del 1926 Fiesta e poi in Addio alle armi del 1929 passando per i racconti Uomini senza donne del 1927 e Torrenti di primavera del 1926. I testi di ricerca, dove si tenta una sperimentazioni stilistica ma anche di intreccio di contenuti, restano i primi lavori del 1923 e del 1954: Tre racconti e dieci poesie e Nel nostro tempo. Un itinerario che, comunque, finalizza già lo scrittore che ha bisogno dell'avventura per creare storia e personaggi. I quali personaggi costituiscono la coscienza della storia che si veste appunto di realismo.
In Hemingway la letteratura è nel dialogato che è parola. La parola è il parlato dei personaggi. Hemingway "Fascia le cose con un ripetuto contatto verbale". Ritorna così il rapporto tra linguaggio e realtà. Ovvero tra la cronaca dei fatti, che si traduce in piccole storie e grandi passioni, e la capacità del linguaggio nell'offerta della comunicazione.
Quel "contatto verbale" di cui parla Mario Praz è un contatto con le cose del linguaggio il cui linguaggio è la comunicazione dei personaggi. Appunto Mario Praz su "La Stampa" del giugno del 1929, eravamo ai primi romanzi, scrive: "Il suo stile aderisce ai contorni delle cose con una fermezza che ha dell'impersonale. Se c'è uno stile obiettivo è il suo". E prima aveva cesellato: "… si limita a ripetere i discorsi quasi seccamente, a delineare gli aspetti circostanti col minimo di parole possibile".
Gli anni Trenta sono anni ricchi di impressionanti avventure alle quali si intrecciano i desideri della scrittura. Il giornalista e lo scrittore sembrano comunicare.
Molti soggetti giornalistici si decodificano nel narrato dei suoi racconti e dei suoi
romanzi. Nel romanzo c'è dunque la vita. La vita con la sua allegria e soprattutto con i suoi rischi. Ma scrivere e vivere sono costantemente un rischio. La vita va incontro alla morte. La scrittura va incontro al dissolvimento.
D'altronde un "avventuriero" come Hemingway non può aver timore dei rischi che gli si presentano. Ma la morte dell'uomo è come se fosse causata dal dissolvimento dello scrittore. Il non poter scrivere significa il non poter comunicare. E il non poter comunicare vuol dire il non saper esprimere emozioni, il non saper catturare passioni, il non poter amare con l'intensità degli amori.
Lo scrittore che calava nella scrittura tutta la sua tensione, questa tensione costituiva un gioco infinito tra il dare e l'avere. Il dare e l'avere della parola – vita era la vita che assorbiva la tentazione dell'eros che il raccontare sprigiona. Quel raccontare in cui l'avventura non conosce limiti e orizzonti.
Si pensi a Morte nel pomeriggio del 1932. Il soggetto di questo libro è la corrida. Significa il pericolo, il rischiare la vita, la morte, le tentazioni del vivere e del morire. E sono sempre tentazioni di passione. Si pensi ai racconti del 1933 Chi vince non prende nulla. Testi che non vanno segnalati certamente per la loro importanza letteraria ma per la loro fase sperimentale anche se nel testo del 1932 questo frammisto tra vita – rischio e morte sono ben collegate con la metafora – realtà della corrida.
Uno scrittore che usa il linguaggio per denudarsi completamente e in questi anni insieme al suo impegno pubblicistico intreccia il realismo letterario ad una denuncia della società americana. Va ricordato, a tal proposito, il volume Avere e non avere pubblicato nel 1937. L'anno seguente vede la luce la sua opera teatrale, la sola che abbia composto, dal titolo: La quinta colonna. Il romanzo che lo fa popolare e lo porta al successo è indubbiamente Per chi suona la campana edito nel 1939. La Spagna, la guerra civile, la rivoluzione. Ma non è un romanzo a tesi. E' piuttosto un romanzo di avventura con tutte le categorie di quei romanzi di avventura nei quali il fascino dell'impresa è più esaltante di qualsiasi altra condizione esistenziale stessa.
I quarantanove racconti sono una sintesi di una dimensione creativa che raccoglie gli arcobaleni dello scrivere raccontando la vita, le storie e i personaggi. Questo testo racchiude i racconti pubblicati dal 1921 al 1938. Un'altra testimonianza che va letta come una perenne forma di sperimentazione. Un andare alla ricerca delle parole per mettere su le storie che sono già dentro il cuore. O un andare alla ricerca delle storie per raccordare le parole?
Hemingway stesso nella Prefazione a questo testo del 1938 parlando dello "strumento con cui scrivi" dirà: "… io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire, o lustro e ben oliato nel ripostiglio, ma in disuso". Un passaggio che diventa fondamentale sia sul versante stilistico che su quello della condizione tematica. La voglia di scrivere era per Hemingway come la voglia di possedere, di amare, di vivere.
Dall'avventura all'intimismo. C'è una analisi di Nemo D'Agostino apparsa nel 1956 su "Belfagor", quando aveva già pubblicato Di là dal fiume e tra gli alberi nel 1950 e nel 1952 Il vecchio e il mare, che dovrebbe far meditare. In questo stesso anno ottiene il premio Pulitzer e due anni dopo gli viene conferito il Nobel. Due testi, questi ultimi, che appartengono alla fase finale della sua stagione creativa ma che si spostano dai precedenti periodi.
Ma cosa dice D'Agostino? Così scrive: "Qualcosa ad un certo momento è accaduto ad Hemingway. La vita o il successo o il suo logorio interno e forse la caccia ai simboli che la critica muoveva intorno a lui hanno cambiato Hemingway in peggio".
D'Agostino catechizza l'opera dello scrittore americano in due periodi. "Il primo ebbe il coraggio di affrontare il nulla, il che non sempre è un atteggiamento negativo. Il secondo, quello che ha scritto Morte nel pomeriggio e il resto (compreso il molto sopravvalutato Il vecchio e il mare) ha voluto celebrare l'affermazione. Come l'uomo stanco di affrontare un abisso si è ritirato nel mondo alquanto scontato del misticismo estetico e dei miti nebbiosi, per celebrarvi la bellezza dell'osso bianco nella coscia lacerata del torero, il moderno eroismo della disperazione, l'umanitarismo mistico della bellezza dell'amore e della morte". Una sollevazione di natura critico – letteraria che va ad incidere su tutta l'opera di Hemingway. Certo, ci sono situazioni e condizioni letterarie che purtroppo si lasciano pesare proprio in riferimento a quel rapporto a cui si accennava: letteratura – vita. Ma ciò non dovrebbe toccare la sfera puramente letteraria.
Ci sono romanzi che sono stati, certamente, sopravvalutati ma ce ne sono altri che andrebbero chiaramente riletti magari con un metro di comparazione critica che esula da impostazioni manichee. Hemingway, nel bene e nel male, resta sì un personaggio ma resta sostanzialmente uno scrittore.Uno scrittore che, volente o nolente, si è costantemente confrontato con la vita ma soprattutto con la morte. Il suo suicidio, se lo si va a valutare sia sul piano letterario che esistenziale, è il suicidio di un personaggio che sapeva di indossare una maschera.
Lo scrittore, il più delle volte, è una maschera. Una maschera tragica come qualcuno direbbe. Una maschera ironica. Una maschera che maschera l'indefinibile o l'inverosimile ma dietro ognuna di queste maschere ci dono le debolezze, le angosce, il "logorio" dell'uomo che affronta la tragedia del vivere.
La sua maschera era la morte. Una morte che nascondeva ma che poi ha fatto esplodere all'improvviso in un giorno di luglio del 1961. Si suicida e il suicidio, per Hemingway, sembra essere l'estremo rimedio per difendere il personaggio e difendendo il personaggio cerca di salvare lo scrittore.
Tra i suoi scritti postumi vanno ricordati Festa mobile e Isole nella corrente. Di questi giorni è Vero all'alba. Di questi tre libri quello che ha una maggiore venatura poetica è Festa mobile pubblicato nel 1964. Lo considero, nonostante la incompiutezza, un romanzo fresco. Un romanzo che lascia trasparire un'agilità di pensiero, un ricordare che si fa sogno, un recuperare, anche attraverso forme simboliche. Continua ad accompagnarmi. La sua scrittura. Il suo vecchio che ha bisogno del mare ma anche le sue poesie. Continua ad essere in me. La sua solitudine, la sua morte, la sua dissolvenza.
Una memoria che non è quella giornalistica ma profondamente letteraria. Si respira la Parigi dei bei tempi quando quei tempi erano vissuti con la giovinezza e la vita era una festa. Appunto una festa mobile. Quella festa fatta di incontri, di bevute, di donne, di trasgressioni.Parigi e giovinezza sono una meteora nel cielo dello scrittore. Che, dico nel cielo dell'uomo – scrittore. Ecco perché tutto è una festa. Ed essendo una festa, la vita, è mobile. Nonostante tutto è il romanzo scritto da uno scrittore che sa che il mestiere dello scrivere è anche saper ricordare e afferrare il ricordo per imporlo come linguaggio.
In una intervista ad Hemingway il cui tema dominante è l'arte di scrivere e narrare, curata da George Plimpton (ora in una nuova edizione de I quarantanove racconti, editi da Einaudi la quale rimanda alla fonte originaria) si legge: "Con quel che ci è accaduto, quel che succede, quel che conosciamo e quel che non possiamo conoscere, inventiamo un qualcosa che non è una semplice rappresentazione ma una creazione totalmente nuova e più reale di qualsiasi cosa reale ed esistente, e se la rendiamo viva e il risultato è buono, diventa immortale. Ecco perché ci ritroviamo a scrivere, senza altre ragioni di cui siamo consapevoli. Ma chissà quanti altri motivi ci sono e non lo sappiamo".
Scrivere è raccogliere, dunque, la fantasia che non ha motivazioni ma che diventa mistero e forse destino. Ancora la passione, la tentazione, la sensazione, l'eros, l'andare e tornare: da Cuba alla Spagna, da Venezia a Parigi. Un viaggio nella letteratura dei luoghi delle metafore e dei personaggi che si raccontano da soli.
Non so se sia stato un "grande" scrittore. Hemingway. Forse per alcuni libri non lo è stato. Per altri, forse sì. Ma smettiamola di riproporre i soliti scritti. Quelli cosiddetti famosi e popolari. Rileggiamo, invece, Festa mobile. Chissà se ripartendo da questo incompiuto si potranno afferrare quelle realtà – memoria che sono i segreti di quella festa che è appunto la vita e che Hemingway ha trasformato in avventura. L'avventura è il cerchio del destino. Come in Pavese. Come in Antonia Pozzi, come in quel viaggio di una letteratura che non svela la descrizione, ma si radica nel senso di morte. La letteratura porta il sottosuolo nella propria anima e soltanto il Cristo in Croce può dare voce. Non è riuscito a schiodarsi quel Cristo per Ernest. O la Pietra è rimasta bloccata sulla ferita della roccia. Io ed Ernest. Forse un romanzo. Ma tutto può essere il nulla del romanzo quando la solitudine incontra la morte sul fiume o sul mare e quando si va alla ricerca dei porti i porti sono viaggi o sono luoghi in partenza. Così per Ernest.
                                     


                                     


lunedì 30 marzo 2015

Ferrara, Rolling Stones segnala gli Strike

da Estense com

Grande fermento in casa Strike. Dopo la più che positiva conclusione del MusicRaiser che ha svincolato la stampa di vinili e cd attualmente in lavorazione e quasi pronti ad essere spediti ai sostenitori, l'uscita del singolo "A mio modesto parere" legato al videoclip presentato in esclusiva da Repubblica.it che ha riscosso grande entusiasmo raccogliendo nei vari contenitori oltre 18.000 visualizzazioni, ecco una nuova preziosa perla della storica band ferrarese.
La rivista Rolling Stone propone in esclusiva, nei giorni 30 e 31 marzo, l'ascolto in streaming del nuovo album "Havana-Kingston-Ferrara-New York" dal proprio sito www.rollingstone.it una gustosa anteprima aspettando l'uscita ufficiale nazionale in download del 7 aprile e la presentazione live il 25 aprile al Parco Museo La Tratta a Copparo.

 LA REPUBBLICA VIDEO

domenica 29 marzo 2015

A due anni dalla scomparsa di Franco Califano. Un Minuetto nella noia dei giorni *di Pierfranco Bruni



A due anni dalla scomparsa di Franco Califano.
Un Minuetto nella noia dei giorni



di Pierfranco Bruni



Il 30 marzo di due anni fa moriva Franco Califano. È stato mio amico. Mio punto di riferimento. Ha accompagnato i miei anni di università. Nella sua poesia la sua solitudine la mia solitudine, la nostra noia…Poesia e solitudine. Era  una Roma di fuoco e fiamme. Lì ho conosciuto il Califfo. Franco Califano. L'ironia tutta intrecciata nel soffocante miraggio di una "maledizione" che viveva nel tentativo di superare la noia e vive l'amore con la profondità del tempo e dei sorrisi strappati alla tentazione di superare ogni giorno la morte.
Erano anni difficili. Metà anni Settanta. Era il mio percorso in quella Casa dello Studente di Roma, De Dominicis, e le sue parole mi accompagnavano tra libri non studiati e letti e libri scavati con l'agonia del vivere con i tanti poeti maledetti, decadenti, ermetici. Anni di fuoco e di tempeste. E Franco ci recitava che tutto il resto è noia. Per superarla bisognava attraversarla.
Concerti alla ricerca di quelle emozioni che ci facevano superare la solitudine di una serata. Ebbene, in uno di quei concerti, io ragazzo di periferia e ribelle come sempre nella vita e innamorato dell'avventure, urlai fino a raggiungere il suo sguardo. Il dopo concerto, e il nostro sguardo si fece stretta di mano, un abbraccio nel sudore della contentezza ma anche nello scambio di un sudore trasportato da pelle a pelle.
Maledetta noia. E fu così che conobbi il Franco della poesia che ha segnato non una generazione ma un'epoca della parola sussurrata e mi ha segnato con quella sua voce roca, con quel suo vivere segnando gli attimi e con il suo coraggio di non accogliere la vulgata comunista, Franco anticomunista, di quegli anni e anche degli anni suoi difficile quando venne aiutato da Bettino Craxi nel 1983. Sino ai giorni successivi.
Il suo coraggio e il suo non formarsi ad una canzone fragilmente detta impegnata e in molte occasioni futile. Franco recitò la malinconia del pianto e del non piangere. Del pianto sulle nostre vite. E lo recitammo, lo cantammo sulla scalinata di Piazza di Spagna nelle sere di giugno, di luglio in una Roma infuocata negli anni terribili della mia giovinezza.
È passato tanto tempo ma la sua coerenza nella parola, negli atteggiamenti, nel vivere cercando di uccidere le nostalgie sono rimasti dentro i miei passi di disubbidiente. E se in me non è mai passata la passione, e non la ragione, della disubbidienza lo devo anche a lui. È uno dei poeti che mi ha formato in una stagione di sorrisi e di ribellione. Cantò l'amore nella stranezza dei rapporti e negli attimi che fuggono e non li ritrovi più.
Gli attimi. L'amore è l'estrema consolazione. È il tutto. Mi ritornano i passaggi di una canzone che si intitola proprio "Attimi". Una verseggiare che spinge l'anima ad uscir fuori e farsi vento, tempesta, naufraga, marea. Attimi nell'amore. Ma sono gli attimi che fermano la vita nell'amore e l'amore nella vita: "Ci sono attimi in cui tu mi manchi,/e in quei momenti mi sento male./Ci sono attimi in cui non ti penso/e so benissimo cosa fare./E tu che balli nei miei pensieri,/donna di oggi, donna di ieri,/chissà se vivi le mie emozioni/se a volte hai le mie sensazioni".
Un poeta nella libertà del suo destino che non ha mai smesso dire quello che sentiva e distante dalla prigionia delle consuetudini. Era un vero artista. Il sorriso della donna che si affaccia dalla finestra. Rose e crisantemi. Un canto e un contracanto. Sempre nella libertà. Sapeva di vivere la vita alla giornata camminando sulle ali della morte e sul volo della vita di una farfalla. Parafrasando un po' il suo recitativo. Ma Franco è stato un maestro. Un maestro vero! Il coraggio di un maestro nella sua visione di essere alla ricerca della luce. A lui ho dedicato un libro a pochi mesi dalla morte e una trasmissione per la Rai nel 2014. ho parlato del nostro rapporto e della nostra Roma.
In quella Roma anni Settanta (fine anni Settanta) è stato il mio compagno di versi e di serata che trasportato la mia perenne solitudine oltre il fiume che scorreva nella lentezza del vento. Ma mi legava a Franco un'altra amicizia "maledetta" e bella perché essere poeta maledetto è vivere la bellezza e il sottosuolo fino in fondo.
Mi legava a Franco una donna e una voce straordinariamente profonda, anche nel mio essere e nel mio tempo, Mia Martini. La mia calabrese Mia. E devo ricordare quel "Minuetto" scritto da Franco e cantato meravigliosamente da Mia. Mia e Franco in un minuetto di storie incrociate sugli orizzonti dei dubbi.
"E' un'incognita ogni sera mia.../Un'attesa, pari a un'agonia. Troppe volte vorrei dirti: no!/E poi ti vedo e tanta forza non ce l'ho!/Il mio cuore si ribella a te, ma il mio corpo no!/Le mani tue, strumenti su di me,/che dirigi da maestro esperto quale sei".
Ma qui siamo ad anni più tardi rispetto al 1977 e 1978. Mia Martini e il suo "Minuetto" è il mio viaggio di fine Liceo. Califano è l'iniziazione dei miei anni universitari. Tra i due si è consumata la rivoluzione della mia vita. E ora mi ritornano con la passione che non ho mai perso nella sensualità delle sconfitte e delle vittorie pronto a pagare sempre, come Franco mi ha insegnato. E poi in anni successivi "La nevicata del 56" che mi riporta a mio padre, al mio paese, ai miei sogni abbandonati nelle sfreccianti malinconie.
La poesia. Sì la poesia. Ma come non può definirsi poesia un impatto testuale come "Appunti sull'Anima". Così solo un passo: "Ma noi che navighiamo sopra un vecchio relitto,/chi pensava mai che fosse naufragato in un letto;/questa roccia d'amore dopo tante ferite/meritava il suo premio e non due vite finite./Appunti sull'anima,/far l'amore al buio, non vedersi più...".
Poeta che penetra l'anima. Poeta che attraversa il buio. Poeta che non smette di vivere e credere nella passione perché in ogni passione ci sonno pezzi di esistenza. Mi ha insegnato di non vivere la vita mai a metà. Non si vive mai a metà. Avevamo appuntamenti non mantenuti. Ma in questi concerti che aveva avviato ci sarebbe stato un incontro magari senza appuntamento. Mancheremo a questo appuntamento. Ora "si va".
Si va verso una meta che nessuno sa… Quante amicizie ancorati ai ricordi e al presente. Quante amicizie mai rivelate. Franco era un amico nella vita e nel raccontare gli amori. L'amore. Ma tutta la vita è sensualità sotto le lune. Senza la follia non c'è poesia. Si scrive sempre sotto la voce delle alchimie. Ma cosa sono le alchimie per un poeta?
Ha scritto versi, libri, musica segnando di silenzi e di voci il mio cammino. E' vero. tutto il resto poi diventa noia se non si riescono a racchiudere gli attimi anche tra le vie dei quartieri.
La sua scrittura. Califano scrittore e poeta. Come vorrei trafiggere gli anni e riprendermi un gesto di quando si cantava la musica è finita. "Non buttiamo via così la speranza di una vita" perchè "Un minuto è lungo da morire se non è vissuto insieme a te". Il tempo è un gioco frenetico nella vita che si intreccia nel cuore delle attese. Era nato nel 1938.


 

Tamara de Lempicka, mostra a Torino

da Estense com (Estratto)

di M. P. Forlani

Si è aperta a Torino presso lo Spazio mostre del Polo Reale – Palazzo Chiablese, fino al 30 agosto, la mostra dedicata a Tamara De Lempicka. L'evento presenta 80 opere tra le più iconiche e note della pittrice, in un percorso tematico per far conoscere nuovi aspetti della sua vita e del suo percorso artistico. L'esposizione è curata da Gioia Mori, promossa del comune di Torino e prodotta da 24 Ore Cultura.
La bellezza di Tamara de Lempicka, l'eleganza che l'ha sempre contraddistinta, la sua vita mondana e romanzesca la rendono ancor oggi l'affascinante simbolo di un'epoca, una sorta di icona del lusso e dello charme; come pittrice Tamara è stata alunna di Maurice Denis e André Lothe – due artisti molto diversi, l'uno vicino ai Nabis, l'altro di formazione cubista. Da loro la pittrice eredita l'idea di arte come stile e come ornamento, come ricerca della perfezione estetica, frutto della ragione.
Le figure ritratte da Tamara sono imponenti, monumentali, icone di un preciso momento storico eppure astratte da ogni riferimento temporale, assolute e possenti come statue antiche. Soprattutto nei nudi (tutti femminili, con qualche eccezione in Adamo ed Eva del 1932, e Nudo maschile (colletion Yves et Françoise Plantin) quest'ultimo in mostra.). L'artista rivela il proprio debito verso Ingres e Pontormo. Fin dagli esordi il suo interesse è rivolto all'arte del ritratto, che le permette di raffigurare i principali esponenti del bel mondo cittadino, creando immagini che sono diventate simbolo di un'epoca. Lo stile di Tamara trae origine dalla ricerca cubista ma risente profondamente anche della tradizione (in particolare del manierismo di Pontormo e Bronzino) e, in linea con le nuove tendenze, della lezione di Ingres: un'ondata di classicismo percorre in questi anni la scena artistica europea, propagandosi attraverso l'opera e gli scritti di personaggi quali Severini, de Chirico e dello stesso Apollinaire.
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