Pierre Pascal, il decano degli slavisti francesi, scomparso nel 1983, prima di vedere il crollo dell'URSS, terminò di pubblicare il suo "Diario di Russia, 1922-1926", terzo volume delle memorie all'età di novantadue anni. "Un bolscevico cristiano" si definiva e si era convertito al cattolicesimo, pur provenendo da una famiglia non credente. Fu uno degli ultimi testimoni oculari della Rivoluzione d'Ottobre e degli avvenimenti susseguitisi in Russia negli Anni Venti del XX secolo. Figlio di un professore della Terza Repubblica, Pascal, che aveva imparato il russo al liceo, nel 1911 si recò in Russia per studiare negli archivi l'epistolario di Joseph deMaistre, intellettuale savoiardo reazionario, trasferitosi alla Corte dello zar alla fine del XVIII secolo. Scoppiata la prima guerra mondiale, Pascal raggiunse la missione francese presso il Quartier Generale Russo e ricevette una decorazione dallo Zar Nicola II. Convinto che il colpo di Stato d'ottobre fosse la continuazione della rivoluzione di febbraio, Pascal scrisse che diventò bolscevico solo perché i bolscevichi rimuovevano gli ostacoli borghesi davanti alla rivoluzione popolare. Ma non era e non fu mai un marxista. Si definiva piuttosto un bolscevico cristiano come i poeti Blok, Belyj o Esenin. Nelle sue memorie rievoca le esperienze fatte dall'autore nella Russia sovietica, un Paese che lasciò solo nel 1933. Nel 1920, a Mosca, il tenente Pascal era segretario del gruppo comunista anglo-francese, sciolto poi l'anno seguente e, pur mantenendo la sua fede cattolica, mandava in Francia degli articoli che esaltavano la rivoluzione sovietica. Fino alla morte di Lenin, Pascal collaborò al periodo del Comintern Corrispondenze, giudicando il marxismo necessario, ma nello stesso tempo insufficiente soprattutto a causa della sua striminzita filosofia e della sua indifferenza verso l'individuo, la morale, le condizioni soggettive, non mancando di dare giudizi negativi anche sullo stesso Lenin, pervaso da cinismo. Accusò le autorità sovietiche di aver saccheggiato sistematicamente, sin dal 1918, le campagne per nutrire le città, in ossequio ad una politica ispirata all'odio marxista verso i cittadini e tesa a favorire esercito, polizia e alti burocrati. Accanto alle note tragiche in questo suo itinerario si incontra episodi curiosi, quali, per esempio, nel 1922, la scoperta dell'Italia. Come traduttore venne incluso nella delegazione inviata alla Conferenza di Genova e, insieme a Cicerin, commissario del popolo agli Esteri, ebbe fitti incontri diplomatici, con i leaders delle varie repubbliche sovietiche e con molti specialisti. Si rese conto che i sovietici in tempi carestiosi non possedevano abiti per presentarsi in Occidente e la questione non era solo legata allo stile e alla stoffa, ma investiva ben altri e superiori termini di presentazione. Se Cicerin si vestì con un abito confezionato a Berlino, il diplomatico sovietico ereditava le forme della tradizionale diplomazia zarista. Quello stesso anno, degli anarchici e dei comunisti italiani, per sfuggire al Fascismo, si recarono in Russia e si unirono a Pascal in una villa abbandonata a Yalta, che divenne una comune agricola. Tuttavia le illusioni bucoliche e ideali finirono presto e Pascal come tanti altri occidentali che avevano creduto nell'esperimento sovietico abbandonarono le precedenti convinzioni. Fenomeni preoccupanti soprattutto dopo gli eventi di Kronstadt, la rinascita dell'antisemitismo e l'indifferenza del popolo per la lotta al vertice del partito e la repressione della dissidenza, fecero mutare a Pascal le originarie manifestazioni di fiducia verso il potere sovietico. Guardò con simpatia alla dissidenza e accompagnò tali sentimenti fino alla morte, nella speranza vana che la pelle della Russia assumesse connotati occidentali, quei connotati che lo stesso marxismo aveva nel DNA perché nato in Europa. L'eredità culturale e politica di Pascal resta oggi di estrema attualità.
Casalino Pierluigi
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Roberto Guerra