Angelo Giubileo: L'Essere e la tradizione

 
Da: Angelo Giubileo <angelogiubileo6@gmail.com>
 
 

 

Cosa sia l'esistenza dell'uomo non è dato saperlo, così che Ka-Prajapati, il signore-dio di tutte le cose, è del tutto incerto tanto che egli stesso non sa se esista. Agostino dirà di sapere chi egli sia: un uomo; ma dirà anche di non sapere cosa un uomo sia, dato che questo, dice lui (!), può saperlo solo Dio. A suo modo, l'Amleto di Shakespeare chiuderà di nuovo il cerchio del discorso affermando che l'unica questione sia relativa a: essere o non essere.

In pratica, diciamo così che esisterebbero (dato che non sappiamo cosa sia <ciò che è>) due ordini: l'uno intellegibile e l'altro sensibile. Il primo precede il secondo nel senso che l'uomo presiede a entrambi affinché ogni cosa sia riconducibile all'uno- unente. In Occidente il primo filosofo che dice questo in maniera esplicita è Parmenide, e di ciò è fedele testimone Plutarco: "Colote, presentando calunniamente queste cose a partire dal modo di parlare e attaccando il discorso non nel merito bensì nel modo di esprimersi, afferma senza motivo che Parmenide ha eliminato completamente tutte le cose, nella misura in cui ha supposto che l'essere sia uno. Ma Parmenide non abolisce nessuna delle due nature, bensì, attribuendo ad ognuna ciò che le è proprio, ha posto l'intellegibile nella forma dell'uno e di ciò che è e lo ha chiamato <ciò che è>, perché eterno e immobile, e <uno>, perché identico a se stesso e non ammette differenza; mentre ha posto il sensibile nella forma del disordinato e del mutevole" (Plutarco, adversus Colotem, traduzione di Aurora Corti).

Parmenide traccia quindi il destino dell'uomo, e quindi dell'umanità intera, come il destino di colui che, dirà efficacemente il poeta Paul Valery, "ne rien comprendre à notre sort". L'eleate aveva detto infatti la medesima cosa, ma mediante un linguaggio risultato ai molti più difficilmente comprensibile. In sintesi, egli dice: "Posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d'una non c'era bisogno, in questo si sono ingannati, l'una dall'altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in del tutto omogeneo, altro rispetto all'altro; anch'esso però in sé stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante. Io t'enuncio di ciò sistema in tutto plausibile, sì che mai opinione corrente possa sviarti" (Parmenide, Sulla natura, traduzione di Giovanni Cerri).

E dunque, ricapitolando: un destino comune a ogni uomo, secondo l'ordine intellegibile, e quindi all'intera specie cosiddetta umana, secondo l'ordine sensibile. Un destino che, altrettanto validamente ed efficacemente, Martin Heidegger concluderà affermando che è del tutto pieno di "silenzio"; e questo, dopo aver approfondito compiutamente il pensiero dello stesso Parmenide in parallelo al

 

 

depositum fidei della tradizione cristiana e universale della Chiesa di Roma. Così che ciò che il filosofo tedesco esprime ci aiuta anche a comprendere l'effettivo senso di un'unica tradizione o possiamo meglio dire di una tradizione una-unente.

Ma, prima di questo, al fine di riannodare l'intero filo del discorso, è bene evidenziare come, dopo l'intero passo di Parmenide che chiude la prima parte dei frammenti del suo Poema, la seconda parte inizia così: "Dato che tutte le cose si chiamano tenebra e luce, ciascuna secondo efficacia di queste sull'una o sull'altra, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile entrambe alla pari, nulla pertiene né all'una né all'altra" (Parmenide, op. cit.).

E dunque, precipitati dall'ápeirōn o Illimitato di Anassimandro nell'ordine sensibile, possiamo dire che gli uomini si muovano secondo un duplice modo derivante dai principi che la scienza originaria del tempo di allora definiva come "luce" e "tenebra"; teoria della conoscenza finalizzata alla ricerca e all'analisi di quel destino comune che deriva essenzialmente - ed è qui decisamente più importante e opportuno rivisitare il linguaggio heideggeriano, dall'Essere che, Parmenide dice allo stesso modo: è.

E dunque conclude Heidegger: "C'è qualche salvezza? Essa c'è in primo luogo e soltanto se il pericolo è (ist). Il pericolo è se l'essere stesso va all'estremo e capovolge l'oblio che proviene dall'essere stesso. Ma se l'essere, nella sua stessa essenza, man- tenesse l'essenza dell'uomo? E se l'essenza dell'uomo riposasse nel pensare la verità dell'essere? Allora il pensiero deve poetare l'enigma dell'essere. Esso porta l'aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da pensarsi" (Martin Heidegger, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi).

E giungiamo così al "silenzio" (e in particolare anche agli innumerevoli altresì noti "silenzi") della Chiesa cristiana universale di Roma. Come spiegarli? A tale proposito, ritengo che la testimonianza di Heidegger sia ancora una volta capace di garantirci l'assistenza necessaria alla comprensione definitiva di ciò che, pensiamo e diciamo, plausibilmente, sia il destino comune sub specie hominis.

In una lettera indirizzata al fratello Fritz, scritta da Friburgo il 22 ottobre 1943 - e quindi dopo l'approfondimento del corso universitario invernale svolto sul pensiero dei Parmenide e dei presocratici - e dunque "allo stesso tempo" in cui dice lo stesso Martin al fratello in ripetute occasioni "mi si è schiuso qualcosa di essenziale riguardo a Parmenide" - Martin Heidegger insiste dicendo: "Coloro che sanno non devono prendere come misura la mala-essenza del mondo (Unwelt) degli infatuati (Betörte) e poi contare sul cambiamento della situazione. Rimani nel tuo modo silenzioso. Non è


una fuga, bensì l'insistenza di cui l'essere stesso ha bisogno" (M. Heidegger - F. Heidegger, Carteggio 1930-1949, traduzione di Francesco Alfieri).

Quello di Martin al fratello è un invito ripetuto più volte, prima e nel corso della guerra. Invito che trova tuttavia una spiegazione incontrovertibile dopo la fine della guerra stessa e in particolare così come la si ricava dal contenuto di un'altra lettera indirizzata ancora da Martin a Fritz dalla Baita (di Todtnauberg) il 21 settembre 1949. Egli così scrive: "Naturalmente l'autore (n.d.r.: si riferisce, come anticipato nella stessa lettera, al professor Max Muller che (gli) ha portato il I volume con dedica del Symposion da lui diretto, un nuovo annuario filosofico) non può ancora vedere l'autentico; deve rimanere un impiegato della metafisica. Egli non conosce ancora i "sentieri interrotti" (Holzwege). Questi diventeranno un bel sentiero interrotto per il pubblico! Si penserà: ora Heidegger ha rotto il suo silenzio; egli esprime ciò che è decisivo (das Entscheidende). Ma questa comunicazione è proprio il tacere (Verschweigen). Infatti noi tradiamo il silenzio fintanto che taciamo" (Ibidem, op. cit.).

In definitiva, il linguaggio è ciò che appartiene all'arte della comunicazione. E, nello specifico, all'esigenza di come sia meglio opportuno comunicare il "silenzio" che l'essere, nella sua stessa essenza, mantiene e così dice l'essenza dell'uomo. In epoca attuale, sembra per la prima volta nella storia, la Chiesa di Roma ha manifestato al mondo intero, sulla via di una nuova globalizzazione, la scelta e la presenza di due pontefici. In ordine alla scelta, l'emerito Joseph Ratzinger ha altresì commentato: "Dio mi ha tolto la parola per farmi apprezzare il silenzio".

Angelo Giubileo



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Roberto Guerra