Angelo Giubileo, La Via degli Uomini by Il Nuovo Giornale Nazionale

LA VIA DEGLI UOMINI

Allora di via resta soltanto una parola, che è (Parmenide).

Lokamanya B.G. Tilak sostiene che la prima misura adoperata dall'uomo (dio-architetto) sia stata quella dell'Anno, e su questo l'intera Tradizione sembra essere d'accordo. L'Anno rappresenta la misura più idonea alla ripetizione di un qualcosa che appare riproporsi in qualche modo, costantemente e allo stesso modo, nel corso del divenire del Tempo, ovvero il dio-fabbro che fornisce la misura (sappiamo che molti sono i personaggi mitici che riassumono in sé la potenza di entrambe le figure sia dell'architetto che del fabbro; e, a tale proposito, Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend ci dicono anche che "l'evoluzione sia stata da architetto a fabbro", come dire "credere" inizialmente dall'uomo al dio e quindi viceversa).

Il Tempo determina quindi l'orientamento ovvero la sovrastruttura (meta-fisica) che presiede al meccanismo regolativo dei fenomeni che si manifestano nello Spazio greco-antico del Xaos (o Kaos o Chaos). Giorgio de Santillana dice che dovremmo fidarci di Platone, che definiva il Tempo "Il Medesimo" e considerava viceversa lo Spazio un "ricettacolo" definendolo "l'Indisciplinato" o anche "l'Irregolare". E dunque: il Tempo, sovrano assoluto dell'universo (kosmos) greco.

Nella più antica tradizione greca, il tempo è espresso da quattro distinte figure o immagini rappresentative: Aion, il tempo non-creato divenuto poi l'"eterno", Xronos, Xairos e Eniauton, ovvero l'anno. Ma, di certo ovvero storicamente, la tradizione greco-antica segue e non precede altre più antiche civiltà che, come diciamo ancora oggi, hanno fatto la storia dell'umanità; e dunque, non la storia in sé e per sé, bensì la storia degli uomini, com'è corretto precisare.

(Un breve ma fondamentale avviso a tutti i naviganti che solcano le acque e i cieli della ricerca: se pensate, pensiamo, di avere raggiunto una meta, certa e definitiva, l'invito che rivolgo a voi tutti e principalmente a me stesso è questo di mettere in dubbio ogni "certezza", nient'affatto vera come dice, senz'altro meglio dei molti, Parmenide nei frammenti del suo Poema. In questo "campo" o spazio della ricerca, non esiste alcuna certezza: è "il campo del vasaio" - di cui si è occupato finanche il profeta Zaccaria, Giuda il traditore e i sacerdoti del sinedrio del tempo, l'evangelista Matteo e oggi i fisici quantistici -, dove si fanno e si disfano le storie degli uomini. Dove, dice bene Silvia Ferrara in LA GRANDE INVENZIONE, s'"inventano" tutte le storie degli uomini).

Il Tempo e l'Anno, sovrastruttura e struttura, metafisica e fisica del Logos e del Verbo; elementi (stoichèia, nel greco di Euclide), tipici della geometria dell'inizio, bidimensionale, che servono di orientamento, in qualche modo e per così dire, stabile e duraturo. E quindi, una forma di ripetizione o ritualità, un rito.

Ritus, termine questo latino che storicamente appartiene a una civiltà cronologicamente in successione rispetto a quella precedente greco-antica e ancor più rispetto a quella vedica, il cui linguaggio è ritenuto dal ricercatore Franco Rendich "madre del sanscrito, del greco e del latino" (L'ORIGINE DELLE LINGUE INDOEUROPEE). Secondo lo stesso autore, in una sorta di principio delle lingue, "un giorno di circa 10.000 anni fa (…) un sacerdote-astronomo (si assunse il compito di) formare una nuova lingua, più facile da ricordare e, all'occorrenza, da ricostruire (…) per prima cosa egli scelse la vocale i per indicare il moto continuo, azione tipica del verbo andare (i, eti), e la vocale ṛ per indicare il moto diretto ad una meta, azione tipica dei verbi muovere verso, giungere, incontrare, raggiungere (ṛ, ṛcchati)".

E dunque il latino ritus deriverebbe, ancora secondo Rendich, dal sanscrito ṛ/ra/ar in latino r=ar/er/or/re/ri e quindi, sempre in latino, forme letterarie che rinviano alle seguenti immagini significative: aratrum (aratro)/ aro,-are (arare)/ ars (arte) /artus (arto) /erigo,-ere (erigere) /oriens (oriente) /orior,-iri (sorgere) / remus (strumento per raggiungere) /ripa, ae (sponda da raggiungere) / ritus (rito).

Sembra pertanto, in qualche modo evidente, che oltre al Tempo e all'Anno sia da intendersi un Moto, un movimento che, presumibilmente, si manifesti nel tempo di un anno. Un evento o una serie di eventi ripetitivi che in qualche modo appaia più visibile o evidente a tutti o almeno alla maggior parte degli "osservatori". In proposito, Giorgio de Santillana finisce per instradarci sulla via di Gilgamesh o "colui che vide tutto", che, secondo l'autore stesso, intese scoprire una "nuova via", quella dell'immortalità, nel tentativo che fosse ridata vita al suo fraterno amico Enkidu. In effetti, la morte è dovuta sembrare un fenomeno piuttosto evidente agli occhi sensibili di tutti, ma non agli occhi, e per primo forse all'occhio della mente di Gilgamesh e poi di quanti altri, che vogliono credere che sia possibile seguire un'altra via rispetto alla via maestra, più remota. Non c'è da dire altro, gli occhi sono due e a me richiamano sempre più alla memoria i corvi di Odino: ma non si tratta di una memoria che è possibile conservare e trasmettere, bensì un ricordo (Anche le macchine odierne sanno conservare la memoria, ma non ancora, almeno, il ricordo).

Il nostro "mondo", tra gli innumerevoli mondi possibili che a partire dal tempo del giorno, nascono e muoiono, elementare, inizia a popolarsi di enti greci o cose latine. Nient'altro. Il tempo, l'anno, il giorno, la via, l'occhio o meglio gli occhi (Avreste mai dubitato che Omero fosse stato cieco?). Che cosa credette o meglio decise di additare agli occhi di tutti, alla vista di tutti, quel sacerdote-astronomo? Quale via pensò di indicare in modo che fosse più facile ricordarla e, all'occorrenza, ricostruirla?

Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend sembrano presentare, come inizio, la Teoria della precessione, inaugurando il moto dalla posizione equinoziale del Sole, - differenziando l'interpretazione dell'inizio o origine da quella viceversa di Tilak e da quella, altresì volgarmente oggi più nota e quindi maggiormente creduta, di sir James Frazer.

Interessantissime sono le obiezioni che sia Tilak che Frazer muovono quindi ai teorici della Precessione, da cui l'eco che giunge fino ai sedicenti precettori del secolo scorso. Per Tilak - che condivide con entrambi gli altri la misura primaria dell'anno -, la costruzione della struttura della precessione, incentrata e quindi basata sull'osservazione diurna del Sole, appare senz'altro difficile o almeno più difficoltosa rispetto alla ricostruzione basata sull'osservazione viceversa notturna delle stelle (dal termine latino "astrum", di cui, in ordine al discorso dell'inizio, e in fine, dopo anche Aristotele, ci dicono Ovidio e le stars di Hollywood). Ma, de Santillana e von Dechend sono d'accordo: la misura viene da "sotto", o meglio dal buio del cielo stellato, della notte e delle tenebre, e quindi l'immagine dal cielo ma la misura, che serve, dal basso verso l'alto: Saturno, l'auctor temporis, precipitato da Giove negli inferi, continua a dare la "giusta misura" agli uomini.

Quanto a Frazer, occorre entrare in maggiori dettagli, in quanto, come accennavo, il mondo attuale comincia a popolarsi di nuovi e quindi maggiori elementi: "Sembra che alcuni scrittori moderni basino la loro identificazione di Osiride con il sole sul fatto che la leggenda della sua morte collima con i fenomeni solari, più che con qualsiasi altro fenomeno naturale. Nessuno nega che il quotidiano sorgere e tramontare del fiammeggiante astro possa facilmente venire espresso con un mito di morte e resurrezione; e gli autori che sostengono l'identità Osiride-Sole, si affrettano a sottolineare che il mito si applica al corso quotidiano e non annuale del sole. Renouf, per esempio, ammise che considerare morto il sole durante il periodo invernale, sarebbe stata una follia. Ma, se la leggenda si riferiva alla sua 'morte' quotidiana, perché celebrarla con una cerimonia annuale? Basterebbe questo fatto a far crollare l'interpretazione del mito come una descrizione dell'alba e del tramonto. E ancora: certo, si può affermare che il sole muoia ogni giorno; ma in che senso si può affermare che venga smembrato?" (IL RAMO D'ORO).

Sappiamo che l'interpretazione di Frazer ha fornito come orientamento piuttosto il ciclo della vegetazione, da cui deriverebbero i miti cosiddetti della fertilità, e probabilmente c'è stato un tempo e c'è tuttora in cui anche questa forma di orientamento ha un senso. Ma, l'inizio? Quale, crediamo, sia stato l'inizio di quel sacerdote-astronomo?

Platone, sappiamo avesse in odio il linguaggio scritto, consapevole, storicamente senz'altro più di noi, che (forse) un'intera tradizione potesse già allora inabissarsi nel flusso delle tempestose maree, il maelstrom, l'abisso, il kaos, il nuovo corso degli eventi originato dalla lingua scritta degli uomini. E dunque, come ritornare, viceversa, all'immagine della rappresentazione originale?

Astrum è termine, inizio e fine, latino, che traduciamo comunemente con il significato di "astro" (del cielo). Secondo Rendich deriverebbe dal sanscrito stṛ , così da significare: "simile (s) ad una luce (t) che si muove (ṛ)". (Con il composto) formai la parola astro, stella. E poiché le stelle in cielo sono diffuse e sparse presi spunto da stṛ per coniare il verbo spargere. Con riferimento al moto apparente compiuto delle stelle, che è quello di passare oltre, andare al di là (da est a ovest e, al polo, girando in tondo sopra il capo dell'osservatore) ispirandomi al nome tṛ di stella formai il verbo tṝ attraversare. Chiamai perciò tarani il sole, in quanto è l'astro che attraversa il cielo" (Ibidem).

E dunque, sarebbe forse il sole l'immagine iniziale che servì di orientamento alla via degli uomini? Direi di no, anche se il condizionale non è tanto opportuno, quanto più ancora necessario. E Necessità è il nome infatti della medesima divinità che governa, da sempre e per sempre, il mondo degli uomini: "la macchina del tempo" di Platone. Dove ogni ente (macchina) occupa stabilmente il posto che l'essere (tempo), piuttosto che il fato, ha decretato.

Se pensassimo o credessimo al sole, indicheremmo soltanto l'astro più luminoso apparso tuttavia nell'ultimo dei "mondi" visibilmente apparsi nelle storie degli uomini. Tra gli astri più luminosi del cielo, gli occhi dei sensi e della mente ci suggeriscono piuttosto che il mondo dell'inizio sia sortito dalla luna e quindi alla luna. Infatti, il sole non serve di orientamento al nostro cammino; a differenza della luna, che illumina la via delle tenebre notturne. Questo è ciò che appare in natura, differentemente da ciò che vorrebbero gli uomini che pongono se stessi al centro dell'universo. Una specie di faraoni egizi. Viceversa, è così che Tilak ci descrive nel suo ORIONE il più antico cielo vedico - precedente senz'altro i diversi mondi egizio, greco, latino e altri tra cui il presente - e il ciclo delle stagioni (solari di de Santillana e von Dechend e vegetative di Frazer), viceversa orientate dalle ventisette (o ventotto) "case lunari" (alla stregua delle stazioni dei viaggi degli dei o dimore umane heideggeriane) e i loro rispettivi reggenti divini.

Forse che la nostra, ancora umana, via settimanale non inizia con la luna del lunedì e finisce con il sole della domenica? Viste le più recenti condizioni del meteo, c'è comunque da dubitarne. Sulla via, gli astri del cielo non brillano mai come in passato. Quanto al futuro, vedremo. Forse.

Angelo Giubileo