Da: Pierluigi Casalino
Gli attuali aggiustamenti di vertice impressi al capitalismo cinese mettono in evidenza l'emergere di una fase storica di crescente nazionalismo che non può che riflettersi sugli equilibri geopolitici dell'Estremo Oriente, ma anche su quelli globali. Il disagio sociale che il modello di sviluppo adottato in Cina fin dal 1978 provoca in parte della popolazione del Paese, soprattutto in quella delle periferie, ha spinto la leadership cinese ad assumere indirizzi politici improntati ad un'accentuata aggressività sul quadrante esterno. Ma aldilà delle contingenze economiche, la volontà di esprimere una via nazionale di potenza parte da lontano. Le occasioni del 70º anniversario della RPC nel 2019, e di recente, soprattutto, le celebrazioni del centenario del Partito Comunista Cinese e di quelle della rivoluzione del 1911 contro la dinastia imperiale hanno offerto l'occasione per Xi Jinping per alzare la voce sulle intenzioni egemoniche di Pechino e in particolare sull'intenzione di riunificare Taiwan al continente. Il nazionalismo come arma di coesione sociale e di esportazione dei valori del comunismo cinese attraverso una diplomazia culturale che rappresenta la longa manuale del Partito. L'esaltare dell'identità culturale estesa ad ogni gruppo cinese religioso e non, mediante le associazioni imprenditoriali e di amicizia che esportano la narrazione cinopopolare. Con analoga manovra Pechino tenta di impiantarsi in Occidente mediante il fare aderire al progetto cinese anche con la corruzione settori rilevanti dell'economia e della cultura. E così pure nei paesi emergenti. Tutto ciò per diventare un modello alternativo alle democrazie, pur in presenza di deficit importanti nel rispetto dei diritti umani e delle libertà civili.