La storia di Payless ShoeSource e le sfide dei private equity



Da: Newsletter Financecommunity.it  
 


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Newsletter N° 225 del 05 febbraio 2020

La storia di Payless ShoeSource e le sfide dei private equity


di laura morelli 

 
Non è una bella storia, quella di Payless ShoeSource, catena di calzature low cost fondata del 1956 con sede a Topeka, nel Kansas (Usa). Lo scorso anno l'azienda, che conta 2100 dipendenti, oltre 3mila negozi in diversi paesi ed è controllata dai private equity Blum Capital e Golden Gate Capital, ha invocato il Chapter 11 dichiarando ufficialmente bancarotta.
 
Qualche giorno fa la società ha comunicato di essersi ripresa ma la vicenda resta amara non solo perché l'azienda si è trovata a dover chiudere i negozi e a mandare a casa il personale, ma anche perché è il simbolo del fallimento delle società di investimento che l'hanno acquisita senza essere riusciti ad amministrarla correttamente. Possono infatti degli uomini della finanza trasformarsi in venditori di scarpe a basso prezzo? Si sono chiesti molti commentatori statunitensi.  
 
Come in ogni fallimento aziendale, non esiste un'unica causa. Quel che è certo, evidenzia il New York Times, è che quando i fondi sono entrati nel 2012 l'azienda contava 2,4 miliardi di dollari di ricavi e 4300 negozi, ma poi è crollata sotto le inefficienze tecnologiche e soprattutto per non essere riuscita a fronteggiare la crisi della vendita al dettaglio.
 
Negli anni '80, la prima generazione di re del buyout statunitensi iniziò a entrare nelle aziende con l'obiettivo di risolvere i problemi, rendendole più preziose e vendendole per trarne profitto. Per tutti gli anni '90 e l'inizio degli anni 2000, questo spostamento ha reso miliardari i loro fondatori e ha attirato migliaia di miliardi di dollari dagli investitori. La loro impronta sull'economia è enorme: nel 2018 le società di proprietà di private equity hanno dato lavoro a 8,8 milioni di persone negli Stati Uniti e valgono il 5% di Pil statunitense.  
 
Al di là della storia in sé, è evidente come il peso del settore sia sempre più preponderante, soprattutto in tempi come questi in cui le aziende non devono essere solo amministrate bene ma, con la crescente attenzione verso i criteri esg (environmental, social e governance), devono continuare la loro attività tenendo conto dell'impatto ambientale dell'azienda e delle politiche di inclusione che adotta.
 
È una vicenda che fa riflettere. Come faranno quindi i private equity a bilanciare il loro scopo ultimo - cioè realizzare una plusvalenza - con questo sempre maggiore peso nell'economia? I fondi riusciranno a gestire la complessità di un mondo in continua evoluzione come quello attuale, in cui nessun business è davvero al sicuro? Fino a che punto i manager devono conoscere il mercato per riuscire davvero a gestire le aziende in portafoglio?
 
Sono quesiti che l'industria oggi dovrà rispondersi, non solo perché da un grande potere derivano grandi responsabilità (cit.) ma anche perché i riflettori sono continuamente puntati sulla finanza, e un passo falso può essere deleterio per le aziende (in primis) ma anche per la reputazione dell'industria.


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