Angelo Giubileo, La roulette dell’essere

 
Da: Angelo Giubileo


In principio era il Verbo (o la Parola), così è comunemente tradotto il termine Logos in greco ed è questo l'incipit dello scritto di Giovanni, noto come il quarto evangelista della tradizione canonica cristiana. All'inizio, per Giovanni, sarebbe pertanto il verbo o la parola.

Ma: i due significati così accordati (termine di ambito uditivo) al termine greco indicano una netta diversità, tale che se "parola" rappresenta un'"entità" definita e quindi "chiusa" in sé e per sé il termine "verbo" esprime invece il significato di un'azione, meglio un'iterazione e quindi un moto che può essere inteso in senso sia curvilineo che rettilineo.

E in effetti, ogni termine, quale che sia, assume per così dire una duplice chiave di lettura, che semplificando diremo "chiusa" o "aperta". Due diverse modalità che, tuttavia, sia all'inizio che nel corso e alla fine, lasciano il discorso, sia intero che parziale o di parte, sempre "aperto" rispetto al punto di vista o linguaggio creativo.

Sul foglio o la tela bianchi prendono a esempio forma i linguaggi artistici dell'autore o creatore (Homo o deus faber) che riceve e trasmette l'informazione del corpo (vista, udito, gusto, tatto e olfatto) o della mente, supponendo anche in tal caso che l'io della mente, alla maniera del cogito cartesiano, sia di fatto avulso dal proprio corpo. Così che, Roberto Calasso - scrutando il linguaggio inconsueto, per noi occidentali, del corpo vedico - trasmetta anche il messaggio o l'informazione che all'inizio della creazione vi sia stata una guerra tra il dio, "l'incerto signore di tutte le cose" (al punto che lui stesso non sa se esista o non): Prajapati che "è Mente", e gli dei che "sono Parola". E conclude: "in Grecia la Parola, il Logos, prende il posto che in India ha la Mente, Manas".

Il significato che vorrebbe rappresentare il linguaggio è sempre lo stesso, narrato in forma mitologica o logica, ovvero la supposta o presunta "separazione" di un'unità originaria indistinta, apeiron così chiamato dal fisico Anassimandro agli albori della filosofia, altrimenti nota originaria-mente come K-K(h)a(u)-s/Kaos/Chaos. E infatti, Macrobio, definisce "caos" la "separazione dei genitori del mondo" e, mediante l'interpretazione dello storico della scienza Giorgio de Santillana, essa rappresenta "il distacco dell'asse dell'equatore da quello dell'eclittica". Semplificando, potremmo anche dire: il distacco dell'asse della Terra in cui heideggerianamente dimoriamo dall'asse del Sole che è la fonte esclusiva della vita.

Così proseguendo nel discorso, non sarà comunque difficile giungere a una fine che tuttavia ci lascerà pur sempre interdetti circa la necessità razionale che l'universo continui a espandersi o viceversa si contragga su sé medesimo. Ma, di una "fine" pur sempre si tratta. Perché neanche la Mente è capace di trascendere lo spazio, potremmo dire del proprio essere, che, pertanto, non è affatto infinito nel senso in cui purtroppo è comunemente inteso.

In merito al discorso dell'arte, che è creazione, Roger Caillois nel libro dal titolo Nel cuore del fantastico saggiamente osserva: "IL FANTASTICO ESISTE NON GIA' PERCHE' IL NUMERO DEI POSSIBILI SIA INFINITO, MA PERCHE', PER QUANTO IMMENSO, E' LIMITATO. NON C'E' FANTASTICO LADDOVE NON C'E' ALCUNCHE' DI NUMERABILE E DI STABILITO, VALE A DIRE LADDOVE I POSSIBILI NON SONO DEFINITI NE' SUSCETTIBILI D'ESSER ENUMERATI. QUANDO QUALUNQUE COSA PUO' ACCADERE IN QUALUNQUE MOMENTO, NIENTE PUO' SORPRENDERE E NESSUN MIRACOLO PUO' STUPIRE. AL CONTRARIO, IN UN ORDINE RITENUTO IMMUTABILE, IN CUI AD ESEMPIO IL FUTURO NON PUO' RIFLETTERSI SUL PASSATO, UNA COINCIDENZA CHE SEMBRA CONTRADDIRE QUESTA LEGGE NON MANCA DI TURBARE".

E dunque, regna o domina l'incertezza. Anche laddove si assume la certezza quale inizio e fine. Così che la morte di Dio renda di fatto possibile la sua stessa rinascita. Ma: mai in via definitiva, e quindi "chiusa", quanto invece "aperta" e cioè proiettata sin dall'inizio logicamente oltre, eternamente (nello spazio e nel tempo) in moto - e per l'appunto chiamato motore da Aristotele - verso l'altro e l'altrove e in senso curvilineo. Dio originariamente è il caos.

In un villaggio di una regione prossima al Polo Nord, un giorno di circa 10.000 anni fa, uno scienziato-astronomo pensò bene di ideare un sistema che desse forma alle esperienze in qualche modo finora acquisite da sé e i suoi simili, e così "per prima cosa egli scelse la vocale i per indicare il moto 'continuo', azione tipica del verbo 'andare' (i, eti), e la vocale r per indicare il moto 'diretto ad una meta', azione tipica dei verbi 'muovere verso', 'giungere', 'incontrare', 'raggiungere' (r, rcchati)" (F. Rendich, L'origine delle lingue indoeuropee).

Da queste radici linguistiche, supponiamo, sia nato il linguaggio nella forma più antica a noi trasmessa e da noi decifrata (termine che deriva dalla numerazione) o meglio sarebbe dire decrittata (termine che, anche nel linguaggio informatico, deriva da un nascondimento o disvelamento, alla maniera di Heidegger, dell'essere medesimo e cioè, in questo caso, del termine "de-crittato" che abbiamo usato).

E dunque, seguendo ancora il percorso tracciato da Rendich: k, quale simbolo del moto curvilineo e quindi kha, spazio vuoto, o viceversa ka, i nomi dell'acqua e della luce, dell'aria, del fuoco e dello spazio, a cui aggiungere il suono della vocale derivata o e della consonante derivata s. Da cui, in ambito prima greco e poi latino, il termine kaos e rispettivamente chaos.

Nel linguaggio delle origini, abbiamo così introdotto un senso, che sarebbe quello dell'udito accanto all'altro senso visivo che dapprima sembra esprima il significato del moto curvilineo. Quest'operazione potrebbe dunque in qualche modo esulare dalla Mente o meglio provenire, ma in forma mediata e quindi derivata e non più immediata, dalla Mente stessa. Qualcosa che indubbiamente avrebbe a che fare con l'occhio onniveggente di Horo, con Gilgamesh, il re di Uruk noto come "colui che vide tutto", o anche l'occhio dell'Architetto massonico o Dio stesso, prima che costui storicamente e culturalmente sia diventato il Faber per eccellenza.

Si dice comunemente che Albert Einstein fosse solito dire che Dio non gioca a dadi, ma la fisica Gabriella Greison racconta in un suo splendido libro dal titolo L'incredibile cena dei fisici quantistici che lo stesso Einstein avrebbe anche aggiunto che nel caso della meccanica quantistica Dio avesse fatto un'eccezione. Che, stupidi noi, significherebbe comunque confermare la regola o legge per cui, diversamente da quanto afferma il "Cesare-Dio" di turno, il dado non è mai tratto.

                                                                                                     

Angelo Giubileo