Il cosmo di Escher, di Angelo Giubileo

 

«L'uomo è incapace di immaginare che in qualche punto al di là delle stelle più lontane nel cielo notturno lo spazio possa avere fine, un limite oltre il quale non c'è che il "nulla". Il concetto di "vuoto" ha per noi un certo significato, perché possiamo almeno visualizzare uno spazio vuoto, ma il "nulla" nel senso di "senza spazio" è al di là delle nostre capacità d'immaginazione. È per questo che da quando l'uomo è venuto a giacere, sedere, stare in piedi, a strisciare e camminare sulla terra, a navigare, cavalcare e volare sopra di essa (e lontano da essa), ci siamo aggrappati a illusioni, a un al di là, a un purgatorio, un cielo e un inferno, a una rinascita o a un nirvana, che esistono tutti eternamente nel tempo e interminabilmente nello spazio»

(Maurits Cornelis Escher in Bruno Ernst, Lo specchio magico di M. C. Escher, Colonia, Taschen, 2007 [1978], capitolo L'infinito).

Per i nostri più antichi progenitori, come li chiama Aristotele nella Metafisica, e così in Esiodo: quindi, in principio fu il caos (Teogonia, 116). Noi moderni comunemente pensiamo il concetto, e poi il termine, caos in contrapposizione a quello di ordine; salvo pochi, direi, che dicono che anche il caos abbia in sé un ordine che gli appartiene. I più definiscono quest'affermazione un paradosso o piuttosto un ossimoro, vocabolo greco che deriva da due termini greci giustapposti che stanno per acuto e ottuso. Dato l'etimo del termine, ne deriva che anche la parola ossimoro sia ed è, secondo il linguaggio in uso, un ossimoro.Ma, è proprio così?

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Questa è un'immagine dell'opera di Escher dal titolo "Ordine e caos" (1950). Escher dirà anche che: "L'ordine è la ripetizione di unità. Il caos è la molteplicità senza ritmo". Nell'opera, come sempre rappresentativa, è raffigurata al centro l'immagine di un dodecaedro, che come appena vedremo rappresenta il concetto di ordine (e di bellezza) mentre sullo sfondo sono raffigurati vari oggetti che rappresentano il concetto del caos. Essendo impressi sullo sfondo gli oggetti del caos rappresentano per questo l'inizio dal quale prende forma l'ordine del dodecaedro.

E' direi comune per noi accostare la rappresentazione simbolica di oggetti diversi e sparsi al concetto di caos, ma nell'opera di Escher la disposizione degli oggetti non è o almeno non sembra così casuale e in ogni caso compare, necessariamente, in uno spazio delimitato, in questo caso quadrato, di rappresentazione.

Quanto al dodecaedro, di quest'immagine sappiamo moltissimo. Anche se perfino il moltissimo non è mai abbastanza. La qual cosa mi fa pensare al momento a un altro aforisma di Escher: "Colui che cerca con curiosità scopre che questo di per sé è una meraviglia".

Ma, procediamo con ordine. E dunque, del dodecaedro sappiamo innanzitutto che "esso rappresenta la sfera fatta di dodici pezzi; la similitudine compare nel Timeo (55c), dove si dice inoltre che il Demiurgo - dopo aver formato i quattro elementi dei quattro solidi regolari[1] - utilizza il quinto solido, cioè il dodecaedro, per la formazione del tutto[2] (…) e lo adorna di figure" (G. de Santillana-H. von Dechend, Il mulino di Amleto).

Ma, cosa sarebbe meraviglia? Trovare la perfezione della regola nella cosa che si pensa e osserva o invece, come dice Escher, semplicemente: cercare con curiosità?

Quanto al dodecaedro, sappiamo anche che possiede 120 simmetrie ed è formato da 12 pentagoni ciascuno dei quali è formato da 30 triangoli scaleni. Non sono numeri a caso, ci ricordano infatti i segni dello zodiaco (12), così come i mesi dell'anno (12) e i gradi della circonferenza (12x30=360), così come i giorni dell'anno … salvo poi scoprire, come già prima dei pitagorici avevano compreso i più antichi egizi, che l'anno solare misuri poi in effetti 365 giorni e ¼ e che 12 lunazioni ne contino 354 e non 360. Così che, sapendo anche che prima dei calendari solari avessimo già in uso i calendari lunari, la misura del tempo di volta in volta in uso è assunta in qualche modo irregolarmente. Basta ricordare che oggi l'anno solare si compone di 365 giorni e ogni 4 anni di 366.

Ed è così che abbiamo introdotto il concetto del tempo o meglio del movimento nella rappresentazione concettuale dell'opera di Escher, ovvero L'ordine è la ripetizione di unità. Il caos è la molteplicità senza ritmo. E quindi, è il tempo o meglio la misura del tempo che consente all'ordine di essere mediante la ripetizione di ciò che - in ogni caso - è riconducibile all'unità. E infatti, potremmo coerentemente sostituire il termine "ritmo" con l'equivalente di "movimento" o anche "rito" - come esattamente sapevano gli ancora più antichi autori dei Veda -, in entrambe le accezioni di significato, considerando il primo più comunemente in uso in occidente, mentre il secondo più comunemente in uso in oriente, laddove il tempo mantiene più spesso un andamento ancora ciclico e non viceversa lineare.

La qual cosa mi sovviene la rappresentazione, anch'essa eischeriana (1963), del nastro di Mobius.

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Le nove formiche raffigurate nell'opera sembrano trovarsi su facce diverse del nastro e invece seguendone il percorso si capisce che il nastro ha una sola faccia.

Ma, ritorniamo - è proprio il caso di dire - al ritmo o movimento o rito che solo consente la presenza dell'ordine e ancor prima dell'uno. Dato che, ritornando ancora alla rappresentazione del dodecaedro, l'immagine di esso riproduce il cammino inverso verso l'uno da cui essa stessa nasce e quindi prende forma.

L'uno e il molteplice sono quindi giudicati secondo la ripetizione o potremmo anche dire "l'eterno ritorno", successivamente anche nietzscheano, del tempo. Ma: è possibile immaginare un Tempo Zero, per così dire dell'inizio?

In effetti, soprattutto per noi comuni occidentali, ciò, e da almeno circa 2500 anni, non sembra affatto un problema; ben prima che Teodosio nel 390 ne facesse una religione di stato. E tuttavia, la questione non è affatto semplice: "Tempo zero" o "Tempo arcaico" che fosse. E allora, è bene chiedere aiuto di nuovo ai nostri due più cari autori, de Santillana, il primo, e la prima allieva von Dechend.

"… Nella filosofia di Platone, il Tempo Arcaico si conserva intatto, risolutamente inteso come 'totalmente altro' dall'estensione, totalmente incompatibile con ciò che Parmenide aveva già intuito nella sua Rivelazione, con ciò che era stato freddamente teorizzato da Democrito. Ma il tempo arcaico è l'universo, come l'universo esso è circolare e definito. E' l'essenza della definizione e tale continua a essere per tutta l'antichità classica, che credeva non nel progresso bensì negli eterni ritorni. In quel mondo era lo Spazio che, se preso da solo, introduceva l'indefinitezza e l'incoerenza. Fino a giungere alla filosofia di Platone, ove lo spazio venne identificato con la natura del Non-essere. Platone lo chiamava il 'Ricettacolo'" (Ibidem, Appendice IV).

E quindi? Questo Tempo Zero, dell'inizio, non è altro che lo Spazio che descrive Esiodo e a cui pensava, da ultimo dei presocratici, Parmenide l'eleate: un'apertura, un abisso senza fondo. Così, che Escher ripete: molteplicità senza ritmo. E, in fine, aggiungere che, parafrasando, l'uno è il solo numero aperto, a differenza di ogni altro numero, dal quale tutto inizia e al quale tutto ritorna. Così, come nella più bella, almeno per me, delle sue Metamorfosi (II, 1939):

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E ciò, tuttavia, dato che: il "nulla" nel senso di "senza spazio" è al di là delle nostre capacità d'immaginazione. Così, che, in Anassimandro, da ciò da cui per le cose è la generazione e sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario, il tempo non c'entra affatto.

                                                                                                           Angelo Giubileo

  



[1] Tetraedro: fuoco; ottaedro: aria; icosaedro: acqua; cubo: terra …

[2] Plutarco, nel De E apud Delphos (11, 390 A), dice a proposito del quinto "mondo", il cielo, che alcuni lo chiamano "luce" (…), altri "etere" (…) e altri ancora, "la quinta essenza" (…), il quinto elemento (quinta essentia), perché solo a questo corpo si addice per natura (…) il movimento circolare. Si veda anche Aristotele, De caelo, 269 a 30-269 b 151. N.d.r.: in parentesial posto dei … nel testo di riferimento sono presenti i vocaboli in uso presso i greci.