Recensione di Mariano Grossi©
Chi conosce la Mary Blindflowers saggista e poetessa, chi si è confrontato con le sue attitudini spiccatissime di capillare ricercatrice e collazionatrice di testi allo scandaglio di autonome rielaborazioni delle tesi interpretative di autori e fenomenologie storico-letterarie, ovvero con le sue sperimentazioni linguistiche e concettuali nella creazione lirica, forse si stupirà di scoprire un'ulteriore sfaccettatura di questa poliedrica scrittrice, leggendo "La stella nera di Mu", vicenda in cui traluce tutto il pirronismo che permea la concezione globale delle sorti umane di questa valente compositrice contemporanea. La rigorosità dell'analisi e la stringente e aderente rielaborazione sintetica dei suoi saggi lasciano il posto ad un elaborato fantastico in cui, però, s'intravede a luci nitidissime il sostrato filosofico del "credo" della scrittrice, saggiamente paludato attraverso la simbologia storica dei personaggi della trama, costantemente accattivante e altamente mimetica pur nei tratti diegetici che fisiologicamente vi si alternano.
Tutto si origina in un effluvio di semantica luminosità nel mitico mondo delle Grandi Madri, l'agognato predecessore della congrega fallica che ha dominato la storia umana, e via via il lettore avverte, nell'abbinamento di onomastica e parentele buie e bellicose a tale bagliore, che il tessuto connettivo della storia è un intelligente gioco ossimorico e antitetico inseguito dalla Blindflowers per tutta la narrazione la cui akmé giunge proprio all'atto della conoscenza dell'oscurità, mitologico parto del Chaos e consanguineo della Notte, in un controcanto a mio avviso studiatamente ricercato per fare il verso al passo giovanneo "e gli uomini preferirono il Buio alla Luce" (Giovanni, III, 19), riflettendo etimologicamente la contrapposizione fra i due mondi di cui parla il testo, divisi da una sorta d'abisso, di voragine, il cosiddetto Inconoscibile Oltre (tale è il significato originario di Chaos, il baratro), allorché dalla luminosità si distaccherà l'umbratilità, semanticizzata nella divinità dell'indecisione, del defilamento e del mistero. E mistero è tutto il rituale che sigilla l'ingresso stregonesco nel mondo delle Grandi Madri, in un'evocazione di date e nomi che semanticamente timbrano come zenit dell'orgia di potere eventi storici della repubblica italiana che il lettore attento individuerà sorprendendosene.
Altamente simbolica è l'immagine dell'unico tramite per il travaso dei due mondi: la pura razionalità cerebrale di uomini scevri dal gravame pulsivo della massa degli umani: coloro che vogliono possedere fallocraticamente Mu debbono servirsi della fattispecie di un angelo custode.
Così come vibra di note creativamente antinomiche al vissuto ordinario dell'idea umana di lutto e di morte il passaggio descrittivo delle realtà cimiteriali di Mu, laddove la luce si staglia antitetica alle tenebre caratterizzanti l'aura concettuale del decesso umano: "La melodia si diffonde destrutturando il reale, ipnotico disegno d'assenza. Il suono buca l'istinto indifferente del giorno, recide le arterie del tempo": sono tratti che il lettore accorto non può non giudicare lenitivamente e staticamente lirici, isole poietiche nel tessuto altamente mimetico del racconto; in essi l'autrice realizza una scaltra cesura ritmica, sempre giocando sull'equilibrio dei contrapposti che costituisce il filo forte della sua rappresentazione. Melodia, ipnosi, reale, assenza, indifferenza, ematicità. A testimonianza di una versatilità compositiva non indifferente e sempre aderente all'assunto narrativo, all'idea ispiratrice basilare del testo.
Tutto è liaison des opposés nella "Stella Nera di Mu", a partire dagli abbinamenti urbanistici che ricercano pervicacemente la costante armonia dei contrari. Perfino il passaggio altamente semantico nella generazione della protagonista dal buio profondo alla luce abbagliante si fisicizza nell'onomastica della sua consanguineità, giacché tutto è sema e symbolon in questo lavoro letterario e di una elasticità ermeneutica polivalente e capillarmente studiata, in quanto l'autrice nelle scelte dei nomi nulla lascia al caso. E così cangiante e plurinterpetrabile è il vocabolo che indica la capitale del mondo delle Grandi Madri (i cui abitanti sono così diversi e distanti dagli umani che basta un'inversione nell'incipit del termine che li indica per metterli in antitesi): Dailorg, in cui pare rintracciabile la radice inglese di Daily Organization, l'organizzazione quotidiana, ma che in anagramma rende rinvenibili un nome (Gradoli) che non potrà non evocare immediatamente al lettore sinistre memorie medianiche estremamente rappresentative della cosiddetta "notte della repubblica", ovvero termini come Dialogo e Ordalia, uno così razionale e l'altro così misterico. È in anemosteresi Mu, non conosce vento, l'elemento scompaginatore tipicamente terrestre non esiste, quasi a temere le dinamiche tipiche e consuete della vita degli umani. Ogni personaggio del libro ha un'onomastica significativa e ammiccante, a partire dalle personificazioni mitologiche classiche della determinazione ribelle ed incoercibile fino a quelle della mitologia meso-americana dell'oblio.
Eppure, nel libertario ed autarcico mondo di Mu, regolato dal potere positivo antifallico della Grande Madre, vi è spazio per la scepsi: perché condannare un omicida prima di vagliare l'ipotesi della legittima difesa? E forse proprio la ricerca di tali risposte, la fessura del pirronismo, causerà il disastro e la commistione con il contropotere umano, una sete di conoscenza che ciclicamente potrebbe significare perdizione, incarnandosi nel colloquio responsoriale con l'emblema anarchico delle vittime del potere: lì si fa strada il dubbio e la corrosione del martellamento socratico del "sapere di non sapere" turberà la protagonista esponenzializzando le sue incertezze all'apparire del secondo simbolo della ribellione alle ipocrite cariatidi delle convenzioni umane.
L'autrice ricerca sapientemente la rispondenza semantica negli atti dei due mondi e dei rispettivi primi attori, talché la strada che lastrica il dubbio della protagonista si caratterizza d'identiche e opposte percussioni, battiti che antiteticamente dileguano e rievocano l'ombra scettica della figura di spicco, la sua umbratilità indecisa, defilata, misteriosa.
Ma quando la scrittrice definisce anti-romanzo la sua opera, dà l'idea di un chiaro messaggio tra le righe ai suoi lettori: la vicenda, come già detto, partendo da una nozione di essenziale rifiuto della logica fallocratica che il potere maschile ha seminato nel mondo, abbraccia, colle sue allegorie e le figurae impletae disseminate nella trama, tutta una storia politico-religiosa che ha caratterizzato il Paese, per cui il narrato, agli occhi di chi ne ha intessuto trama e ordito, non pare assolutamente novellistico, ma una chiara lettura trasfigurata degli eventi ed un suggerimento a invertire la rotta dipingendo un mondo pregresso antinomico all'orgia del potere. Non v'è a mio giudizio alcuna valenza fantastica (nonostante le apparenze dell'ambientazione), né sentimentale, né storica, né politica, né satirica nella storia apparentemente, molto apparentemente inventata dalla Blindflowers; vi è bensì una forte meditazione (tipica della saggista) sull'eziogenesi della deriva diacronica del mondo a misura di maschio svuotato definitivamente dell'ansia di ricerca e di indagine sul perché delle cose e sulla loro origine.
Scartavetrando la crisalide di fantasia in cui la storia s'inviluppa, il lettore scopre una valenza molto più saggistica e precettiva rispetto a quello che la lettura suggerisce a tutta prima. E direi che proprio questa natura apparentemente recondita del libro di Mary Blindflowers costituisce il ribadito sigillo dell'originalità di questa autrice.