ALFARABI OVVERO RELIGIONE, POLITICA E SOCIETA' NELL'ISLAM

E' negli ultimissimi anni della vita del filosofo arabo Alfarabi, con l'affermazione sul decadente califfato di Baghdad del sultano Buyide, che comincia a porsi uno dei problemi più scottanti della storia del pensiero politico musulmano: quello della contemporanea sussistenza di due poteri, quello strettamente laico, la cui nascita è stata determinata dalle circostanze, cioè quello dei sultani sostenuti dai loro eserciti, e quello che affonda le sue radici nella tradizione del Profeta, e dunque nobilitato dal crisma religioso, quello cioè dei califfi, ormai, del resto, di fatto esautorati dalla supremazia sultanale. E'inutile ricostruire qui i termini della querelle, che appare essa stessa assai complessa e articolata. Ci limitiamo a ricordare che Al-Ghazali sostiene che la pace della comunità musulmana esige la collaborazione tra califfi e sultani:i primi superiori per rango morale, i secondi superiori per la loro capacità di assicurare e garantire, di fatto, l'ordine sociale. Si tratta, dunque, di una convivenza forzata, forse non del tutto legittima dal punto di vista giuridico "ortodosso", ma indispensabile per ragioni pratiche e di opportunità politica. E' certamente azzardato, tuttavia, vedere nelle parole di Alfarabi un'anticipazione di questa teoria, ma certo, se egli era così preoccupato delle lotte e dei disordini che portarono al potere i Buidi, può darsi abbia previsto l'esigenza, per la città virtuosa, di un sostegno reciproco fra i vari membri della società, e, ancor più, tra possibili governanti contemporanei.
Casalino Pierluigi