Identità culturale e linguistica e percezione degli archetipi in Pirandello Dalla grecità al mondo sciamano Pierfranco Bruni

 di Pierfranco Bruni

 

Identità culturale e linguistica e percezione degli archetipi in Pirandello

Dalla grecità al mondo sciamano

 

La questione del dialetto in Luigi Pirandello è parte integrante di un vocabolario identitario che pone all'attenzione una visione della tradizione siciliana ma che, nello stesso tempo, pone come riferimento principale il legame tra la sua appartenenza originaria, tra il suo incipit linguistico, e le contaminazioni che si sono vissute soprattutto intorno all'inizio del Novecento tra la Sicilia, il mondo frastagliato mediterraneo, le culture arabe e anche quelle culture di derivazione balcanica, con un altro aspetto che è significativo nella lingua pirandelliana che è quella derivata da una formazione linguistica proveniente dalla complessità del Regno di Napoli.

Nel 1909 Pirandello si poneva la questione tra "lingua e dialetto", o meglio, tra cultura volgare (fu un grande studioso di Dante e, quindi, pose l'attenzione su questo aspetto) e cultura toscana vera e propria; quella lingua che doveva essere la lingua "ufficiale" secondo la derivazione manzoniana.

Pirandello ha usato il dialetto, ha usato il teatro dialettale, ha continuato a usare un vocabolario dialettale anche nelle sue rappresentazioni teatrali, come lo ha usato inizialmente nelle sue poesie, poesie non dialettali ma nelle quali alcune forme di parole, una koinè derivante dalla cultura dialettale siciliana, era ben presente.

Le caratteristiche fondamentali, però, in Pirandello non derivano soltanto dalla sua sicilianità, dal suo essere siciliano, bensì da un intrecciare quel suo "essere siciliano", non solo sul piano linguistico ma anche sul piano identitario e quindi della tradizione, con una realtà di riferimento che era quella greca.

E' vero che Girgenti, il suo paese natale, era all'interno di un territorio (il caos) che rappresentava un intreccio di lingue, di tradizioni e di culture diverse tra Oriente e Occidente; ma è anche vero che la tradizione pirandelliana, fatto salvo il rapporto con la cultura arabo islamica abbastanza consistente, la realtà greca o la realtà magno greca della Sicilia, hanno dato dei segni partecipativi al linguaggio pirandelliano.

Le poesie di Mal giocondo si trovano all'interno di questo contesto che è il contesto greco, a volte latino, latinizzante. La grecità è una grecità molto energizzante dal punto di vista linguistico e identitario. Diverso è per Verga perché in lui c'è una cultura popolare ben definita che nasce all'interno di una dimensione, appunto, popolare, mentre in Pirandello c'è un linguaggio quasi aristocratico anche nel dialetto (si nota l'intellettuale che cerca di impossessarsi delle proprie origini, delle proprie radici, partendo proprio dalla lingua).

Chi ha ereditato questa visione greca della cultura, ma della lingua sul piano poetico, è stato chiaramente Salvatore Quasimodo. L'ha ereditata in diversi aspetti pur appartenendo a due territori diversi. Ma la sicilianità era profonda in Quasimodo, nelle immagini, nelle espressioni, perché la lingua non è solo fatta di sintassi, di semantica, di forme grammaticali.

In uno scrittore la lingua non è uno studio filologico, anche se Pirandello possedeva tutti gli strumenti da questo punto di vista perché si è laureato con una tesi di laurea su questi temi (ritornerò in seguito su questo argomento). Per uno scrittore come lui che si serve del sentimento, delle forme, delle percezioni, della psicologia della parola e del personaggio, la lingua è fatta di altre dimensioni, che sono le dimensioni oniriche, il sentire, l'ascoltare il paesaggio, l'osservare il paesaggio, i suoi colori.

Questo è un fatto molto serio perché Pirandello. Nascendo da un linguaggio non prettamente popolare ma piuttosto aristocratico, si inserisce all'interno di questi processi antropologici veri e propri per poi farne un recupero identitario. In altri termini, Pirandello non cerca di recuperare l'identità sul piano della tradizione, e quindi sul piano direttamente antropologico (questo aspetto in Pirandello è presente in maniera soffusa all'interno delle sue opere, dei suoi scritti). Egli, invece, penetra il linguaggio attraverso questa antropologia dell'immaginario, del paesaggio, dei colori.

Il linguaggio in Pirandello è una subordinata dell'immaginario, del paesaggio e della tradizione.

Sono convinto di questa  sottolineatura pur consapevole del fatto che egli si laurea con una tesi dal titolo "Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Girgenti".

Tuttavia, questa forma fonetica, questo sviluppo fonico, all'interno della parlata di Girgenti, (perché il dialetto è "parlata", diceva Pirandello) non può resistere soltanto sul piano linguistico se accanto all'espressione linguistica non c'è una rappresentazione dell'immaginario che ha una sua dimensione orale, una dimensione dell'oralità, della comunicazione orale vera e propria. Il suo dibattito nel 1909 su "Lingua e dialetto" poneva in essere queste questioni poiché si è posta anche un'interpretazione di una letteratura e di un teatro nazionale.

La posizione di Pirandello di fronte alla lingua nazionale era proprio questa.

Noi partiamo dall'interpretazione del dialetto, delle nostre tradizioni linguistiche e fonetiche, ma facendo soltanto questa operazione dialettale, restiamo all'interno di un circuito che è territoriale e regionale. Nel suo progetto, si parla di un vero e proprio "progetto pirandelliano della lingua e della letteratura" (per letteratura intendo la poesia, il teatro, il romanzo, la novella), Pirandello intendeva un teatro, una letteratura nazionali.

L'interpretazione della "nazionalità", discussa poi anche nella sua formazione a Bonn, ha rappresentato un punto di contatto tra la lingua nazionale, quindi il discorso dei processi linguistici all'interno delle comunità europee, con la lingua regionale. Ciò che intendo dire è che Pirandello, non dimenticando la propria appartenenza al dialetto, quindi alla sicilianità, si è servito della sicilianità, del linguaggio siciliano, per fare in modo che la lingua italiana venisse contaminata da alcuni vocaboli, o da un vocabolario vero e proprio, ma restasse come identità del linguaggio nazionale.

Per Pirandello la lingua è stata sempre un'interazione con la letteratura. Non esiste, per Pirandello, una parlata in sé se non esiste un linguaggio letterario. È qui il modello aristocratico pirandelliano della parola, della koinè. Dopo le prime esperienze dialettali, in Pirandello c'è questa espressione che è espressione di una letteratura nazionale. Ci troviamo di fronte a uno scrittore che nel 1904 fa uscire un romanzo (il "Fu Mattia Pascal") che è la rappresentazione della lingua italiana, del lessico italiano, la rappresentazione del primo romanzo in cui la lingua italiana diventa lingua contemporanea.

Mi pare molto importante questo fatto, perché dalla sua tesi di laurea fino al 1904, i suoi studi, il suo dibattito, il suo interesse nei confronti del dialetto è stato molto importante e ha riguardato anche la dialettica sulla funzione della comunicazione e, quindi, dei linguaggi. Questo è servito moltissimo non soltanto per i suoi scritti futuri, ma è servito moltissimo per un Pirandello che, usando il dialetto, superando il dialetto, attraversandolo, è giunto sino alla comunicazione non solo teatrale, ma anche cinematografica.

Il cinema italiano nasce con il linguaggio pirandelliano. In "Si gira" c'è questa versione, questa interpretazione, non soltanto dei movimenti della persona, del movimento della macchina, ma della parola. Quindi Pirandello non poteva usare il dialetto del cinema quando il cinema era una interpretazione universale dell'immagine attraverso, appunto, la percezione della parola, delle parole. Siamo a un cinema muto, un cinema in cui il gesto parla, la gestualità deve parlare, lo sguardo deve parlare. In questo cinema in bianco e nero Pirandello usa le forme, usa la gestualità, usa l'interpretazione.

 

Si badi bene che la gestualità di un personaggio che conosce il dialetto, e conosce solo il dialetto, è una gestualità diversa da un personaggio che comunica con la lingua italiana. Sì, è proprio nei dettagli che si sofferma Pirandello. Un fatto è comunicare gestualmente in dialetto, un altro fatto è comunicare gestualmente partendo dalla lingua italiana. Volgare e lingua italiana, anche attraverso la gestualità, assumono delle visioni e, quindi, catturano in modo completamente diverso. Pirandello era a conoscenza di questo aspetto, di questo fattore percettivo, di questo fattore immaginativo e immaginario che è dentro, appunto, i processi della comunicazione.

La Sicilia è stata una terra, un realtà, che ha espresso diversi scrittori importanti, significativi.

Quasi tutti hanno creato una comparazione tra la lingua regionale (la lingua volgare, il dialetto) e la lingua italiana. Ho citato Verga, ma potrei citare De Roberto, Capuana, Bufalino, Sciascia, Stefano D'Arrigo (un grande poeta che ha scritto "Horcynus Orca", il quale si serve proprio di una forma di vocabolario dettato dalle onde del mare, il mare siciliano, il mare Mediterraneo) Vincenzo Consolo fino ad arrivare a Leonardo Sciascia.

Leonardo Sciascia è stato un interprete importante di Pirandello, come lo è stato Andrea Camilleri. Andrea Camilleri interpreta la sicilianità attraverso i due modelli linguistici che sono due modelli che si unificano profondamente e si dà poi quell'interpretazione del personaggio. Il personaggio di Camilleri è un personaggio che parla attraverso la comunicazione della parola, della voce, ma può essere anche interpretato e percepito attraverso la gestualità (si pensi al Commissario Montalbano). Nella gestualità si conosce la forma e la funzione del linguaggio.

Gesualdo Bufalino è stato l'interprete di una tradizione che era anche una tradizione, sul piano della lettura popolare, tratteggiata da forme aristocratiche. Quasimodo, come dicevo, è stato, per alcuni aspetti lirici, l'interprete del modello pirandelliano. Tra questi c'è uno scrittore che ha condensato queste forme in un romanzo che costituisce l'intreccio tra la forma aristocratica, la forma nobile della parola e il volgare.

Questo attraversamento, questo vissuto, è stato mutuato in un linguaggio innovante che ha creato una spaccatura epocale con una cultura contemporanea, con una cultura diversa che è quella borghese nata da una cultura popolare. Mi riferisco a Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il suo "Gattopardo", il più importante romanzo, credo, del Novecento degli anni Cinquanta.

Tomasi di Lampedusa è un scrittore forte perché spacca i processi culturali e i processi di una civiltà, non soltanto siciliana e non soltanto del Regno di Napoli, ma all'interno di una cultura europea ma, nel contempo, è uno scrittore che fa capire come la nobiltà, l'aristocrazia, aveva un linguaggio ben comprensibile all'interno di quelle sfere, mentre la cultura popolare inizialmente, che si trasforma poi in cultura borghese, ha un linguaggio completamente diverso, anche una fonetica completamente particolare, diversa.

Ci sono tradizioni nella Sicilia che sono trasversali sul piano linguistico, ma anche sul piano dell'interazione e delle sinergie e delle contraddizioni. Un altro scrittore che andrebbe citato e ristudiato è Vitaliano Brancati il quale porta il linguaggio dell'immaginario, e il linguaggio della tradizione della Sicilia, all'esterno della Sicilia per poi ritornare in quella identità siciliana, come lo stesso Elio Vittorini ."Conversazioni in Sicilia" è un altro documento, dal punto di vita narrativo, che possiede questa dimensione onirica importante. Ritengo che tutto questo abbia un senso e una profonda consistenza.

 

Un senso e una consistenza su una chiave di lettura antropologica. Insisto sulla questione antropologica perché Pirandello è sì uno scrittore complesso nelle varie interazioni, ma è uno scrittore che va letto servendosi di alcuni strumenti e gli strumenti non sono soltanto dati dalla comunicazione della parola, ma sono dati anche dall'afferrare, attraverso la parola, quei valori che sono i valori della tradizione.

Il Pirandello antropologico. Il Pirandello che ha posto in essere il legame forte tra Oriente e Occidente. Un legame, questo, che chiama in causa le tradizioni di processi di civiltà e di civilizzazione anche sul piano letterario in quanto una letteratura, senza il legame tra Occidente e Oriente, non avrebbe oggi un'interpretazione, una percezione forte come la intendeva Dante.

Noi dobbiamo partire proprio da questa chiave di lettura in cui il volgare, il "De vulgari eloquentia" di Dante, si poneva come punto centrale per interpretare il linguaggio, ma anche per interpretare uno scavo metafisico ed ermeneutico vero e proprio. Questo perché la visione di Dante della letteratura non è la visione dello scavo del testo dantesco, delle Cantiche o della Vita Nova, ma è lo scavo psicologico non solo dei personaggi, bensì dell'Io personaggio che attraversa il linguaggio in sé come fondamento metaforico (quindi, come fondamento metafisico, ontologico ed ermeneutico) per riportarlo in una dimensione che è la dimensione attraversata dai vari stadi delle civiltà.

Il suo vivere l'esilio non è soltanto il suo "abitare l'esilio", come direbbe Maria Zambrano, ma il "concetto di esilio" è il "concetto di esilio" come assentarsi da uno spazio d'anima. Non è un esilio "fisico", bensì un esilio in cui la vacanza espressiva, la vacanza della parola, l'assenza della parola, portava Dante a recidere le sue radici con Firenze.

Pirandello conosce molto bene questo "concetto di esilio", perché conosce molto bene il "concetto di viaggio". Il "viaggio" e il "concetto di esilio" rappresentano uno "radicamento di una parola". Dante è stato sradicato dalla sua parola, muore sradicato dalla sua parola.

Pirandello, lasciando la Sicilia, si sente sradicato dal linguaggio e dalla parola, ecco perché poi vuole ritornare da morto a radicarsi, a "paesizzarsi" in quella sua Sicilia. Tutto questo in letteratura ha una consistenza profonda, ma lasciando soltanto a una tesi letteraria, ermeneutica, diventa la "teoria della parola", la "teoria del linguaggio", ma  Pirandello non usa la "teoria del linguaggio", usa invece la "metafora del linguaggio", usa l'"ontologia del linguaggio", come l'ha usata Dante, e quindi siamo in una interazione tra "percezione" e "antropologia". Per questo motivo il dato antropologico in Pirandello è estremamente significativo. In Pirandello tutto viene assorbito antropologicamente. La parola è antropologia della comunicazione.

La sua tesi di laurea non è soltanto una tesi di semantica, è una tesi in cui viene rafforzato il dialetto di Girgenti; ma il dialetto di Girgenti è la parola, la comunicazione, è il trasmettere di Girgenti la sua origine, le sue radici. Di conseguenza Pirandello si serve della "tradizione della parola" per comunicare un'identità. La comunicazione è il dialetto che diventa appartenenza. La tradizione di Girgenti è la sua identità. Questa lettura, questa chiave interpretativa, è prettamente antropologica. Diremmo, in termini moderni, "demoetnoantropologica".

Il Pirandello soltanto letterario oggi non ha più senso. Non ha più senso vederlo sul piano della filologia letteraria, ma ha una sua precisazione proprio quell'aspetto metafisico della parola. La metafisica della parola è penetrare il dettato fortemente antropologico che, in Pirandello, significa penetrare quel legame tra Oriente e Occidente, ma anche penetrare una forma esoterica numerica (cifra e numeri).

Poi c'è la chiave di lettura che è quella del mondo sciamanico.

Il mondo sciamanico in Pirandello ha una consistenza forte. La sua formazione è greco-islamica. Avvicinarsi a un mondo sciamanico significa capire di più i simboli rispetto al mito classico, attraversare il mito classico per custodire quel senso dell'inquietudine, quel senso della pazienza e quel senso dell'attesa che soltanto una cultura sciamanica, attraverso alcuni elementi simbolici che sono gli elementi degli "archetipi", non più del mito, possono restituire alla scrittura, alla parola. Non c'è lo scrittore che si serve del linguaggio, c'è lo scrittore che si serve degli "archetipi".

Pirandello si è sempre servito degli archetipi fino ai "Giganti della montagna". Questi archetipi hanno fatto, e fanno di Pirandello uno scrittore centrale tra tre elementi fondamentali: la classicità, la tradizione che supera la classicità e diventa confronto con il tempo moderno, la dimensione onirica che diventa imperitura.

Pirandello ha scritto: "Di una data cosa, il dialetto esprime il sentimento, della medesima cosa la lingua ne esprime il concetto» quindi, il dialetto non è soltanto la gestione della lingua, o il comunicare attraverso la lingua, ma è il recupero della tradizione profonda. Su questo elemento penso che Leonardo Sciascia abbia offerto una sottolineatura molto esemplare.

Dice Sciascia, che conosceva molto bene Pirandello e la sicilianità: "La natura dei suoi sentimenti e delle sue immagini è talmente radicata nella terra in cui egli si fa voce che gli parrebbe bistrattato o incosciente un altro mezzo di comunicazione che non fosse l'espressione dialettale".

Rafforza quella metafora della parola, rafforza la comunicazione della metafora della parola, come espressione simbolica, onirica, esistenziale. Ecco, mancava questo concetto: l'espressione esistenziale, ma in Pirandello l'espressione esistenziale è sempre percezione attiva di un dato immaginario e immaginativo.

Il dato immaginario, immaginativo, è un confrontarsi con le culture "altre". Le culture "altre", le civiltà "altre", sono nate e nascono in Pirandello dal suo saper guardare e dall'aver guardato alla cultura e al mondo degli sciamani, perché nel mondo degli sciamani, per Pirandello, ci sono sempre i personaggi che diventano attori, protagonisti, interpreti, platea, pubblico, ribalta, retroscena, scena, in un cerchio unico che è l'Io narrante.