Marco Vannini Incontri: Stefano Rossi, il Vangelo e lo Yoga





Stefano Rossi: il Vangelo e lo Yoga
Stefano Rossi unisce a una formazione scientifica (è un naturalista, specialista in biologia marina), una più che ventennale esperienza diretta dello Yoga, dell'India e della sua mistica. Ha, tra l'altro, tradotto e curato due importanti opere di Henri Le Saux O.S.B. (Swami Abhishikt ānanda): Ricordi di Arunāchala. Racconto di un eremita cristiano in terra hindu (Padova 2004) e Gñānānanda. Un maestro spirituale della terra Tamil (Troina, 2009).

Beati quelli che risorgono prima di morire

(articolo comparso, in forma abbreviata, su Repubblica del Venerdì Santo 2014)
di Marco Vannini
Al primo plenilunio dopo l'equinozio di marzo le antiche comunità pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell'inverno alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il mitico passaggio – la Pasqua, appunto – degli ebrei dall'Egitto.
Pasqua è in effetti la festa del commovente, davvero "miracoloso" rifiorire della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali, generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli: dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della fecondità: non deve perciò stupire che anche nella storia del cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno di Pasqua. Documentato fin dall'alto medioevo, il risus paschalis è proseguito, soprattutto in Germania, fino al ventesimo secolo, ed anche ai nostri giorni c'è chi lo giustifica quale sana espressione popolare di quel piacere sessuale che proprio nella "gioia" pasquale avrebbe un fondamento teologico.
Non meraviglia affatto, del resto, che una resurrezione intesa nel senso fisico di resurrezione della carne finisca per puntare proprio là dove la carne è più "carnale" – non usa forse anche il Boccaccio l'espressione "resurrezione della carne" come metafora oscena, alludente al manifestarsi concreto dell'appetito sessuale nel maschio?
In effetti la resurrezione dei/dai morti, antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che quello di riproporre, in forma compiuta e perenne, la vita fisica, e non c'è dubbio che della vita fisica l'esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a caso nell'islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell'infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: evidentemente la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.
La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi (Lc 20, 24 s.). È chiaro che l'idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è qui spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è infatti la morte dell'egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è "odiare la propria anima", "rinunciare a se stessi", e la resurrezione è il "nascere di nuovo", dall'alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, esperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.
Lo comprese bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, temendo la distruzione, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è proprio nella assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso, "magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell'essere". Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c'è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v'è spirito, si è spirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. "Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto", scrive perciò il filosofo tedesco, trasferendo nell'universale, collinguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito, la vicenda particolare della Passione di Cristo.
Passione, morte e resurrezione hanno perciò evangelicamente un significato non mitico ma reale, non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita come spirito che pone nella dimensione dell'eterno. "Prima che Abramo fosse, io sono", dice infatti Gesù ai giudei (Gv 8, 58), esprimendo l'esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui ed ora nell'essere, nell'eterno.
Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende infatti a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa così la nostra stessa infinita, estatica letizia. "Di questo Tutto, nel distacco, gioisci", esortano perciò anche le Upanishad.
Di questa beatitudine nel presente la Chiesa non può parlare perché non ne sa niente. Essa non pensa l'unità del Tutto, ma, al contrario, il dualismo Dio-mondo, l'alterità di Dio, con la quale si genera l'attesa, la speranza, ma non certo la beatitudine. Anche se non insegna più il mito del peccato originale e della morte di Cristo quale necessaria "soddisfazione" di quel peccato, come se Dio fosse un tiranno che chiede sacrifici, la gioia pasquale proposta ai fedeli dipende comunque dalla resurrezione dei morti, da un tempo futuro – una gioia che sarà, forse, ma che certamente non è ora.
È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione, prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non ha infatti avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già "risorto". È un evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere, Non mi toccare, dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è in questo senso determinante: a Tommaso, l'incredulo, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che davvero beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno esperimentato interiormente la resurrezione, in loro soltanto v'è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.
Con la consueta profondità, Simone Weil scrive perciò: "Beati sono detti coloro che non hanno bisogno della resurrezione per credere, e ai quali sono prove sufficienti la perfezione e la croce". Di più: "Se l'evangelo omettesse ogni menzione della resurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe più facile", giacché la vera fede è esperienza dello spirito, non credenza consolatoria nella resurrezione del proprio corpo – ovvero permanenza del proprio ego.
Si comprende allora quanto fuorviante sia l'idea della resurrezione di Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti. Questo è il prodotto di Paolo, quel "funesto cervellaccio", come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell'anima e della rinascita nello spirito e costruì così un dys-anghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica che gli era familiare. Se non c'è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando chiaramente come l'idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.
In parallelo, la affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo. E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo una antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti "dimostrative" della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell'ingannatore supremo, l'Anticristo.